Sadece LitRes`te okuyun

Kitap dosya olarak indirilemez ancak uygulamamız üzerinden veya online olarak web sitemizden okunabilir.

Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte II», sayfa 2

Various
Yazı tipi:

Non è strano se in quel fermento sorgesse il disegno di far partecipe il Piemonte alla guerra che allora si combatteva sul Mar Nero, per assicurare il cosiddetto equilibrio del Mediterraneo, mossa in favore della Turchia, avverso la Russia, dalla Francia e dall'Inghilterra.

Se nel salotto politico della marchesa Alfieri o nella tesa dove Farini aspettava le quaglie, o nella sola mente di Cavour, oppure nella fantasia di Vittorio Emanuele sia sorto per la prima volta il pensiero dell'alleanza di Crimea, è vano ricercare. Correva per l'aria l'impeto delle audacie.

Nelle condizioni dell'Europa, mentre la Russia provocava, l'Austria si disponeva a stupire il mondo colla sua ingratitudine, e la questione d'Oriente risorgeva in modo nuovo e diverso, e non era temerario il supporre che sul Danubio divampasse la fiamma augurale della nazionalità, l'inoperosità del Piemonte pesava su quelli, che ne' suoi destini vedevano l'indipendenza d'Italia, al Re che conosceva come in cuore dell'esercito e del popolo durasse il tormento di Novara.

A Vittorio Emanuele la figura mistica dell'antica croce sabauda sventolante ancora una volta sugli azzurri del mare d'Oriente, appariva come presagio di rinnovate fortune.

Egli voleva capitanare l'esercito, e, a malincuore persuaso dalla ragione di Stato, cedette il comando al generale La Marmora.

Il partito della guerra fu vittorioso in Parlamento, esclusivamente per il prestigio di Cavour.

Pareva un'avventura. Lo scontroso patriottismo temeva dell'Austria, i meno diffidenti presagivano la ruina economica.

È storia da non potersi riassumere in poche parole. Meriterebbe, essa sola, una conferenza. Occorrono più conferenze per illustrare la storia d'Italia dal '56 al '61 e questa storia d'Italia è storia di Cavour.

Di certo, nella guerra di Crimea la parte del Piemonte fu rischiosa tanto, che anche il gran ministro ne temette. Oh! l'annunzio della Cernaia! E la vittoria che bacia il tricolore! E le divisioni di La Marmora emule dei primi soldati d'Europa, acclamate in cospetto del mondo!

Fu l'anno sfolgorante e clamoroso. Dopo tanta tenebra profonda, tanto duro silenzio, l'anima del popolo si sollevò fiduciosa. La bandiera, nel suo nuovo prestigio, oltre il Ticino irradiò i bei colori che dicevano la speranza. Il popolo d'Italia scriveva sui muri: «Viva Verdi,» cioè: «Viva Vittorio Emanuele Re d'Italia.»

Sedizioso emblema! E il conte di Cavour si avviava a Parigi, per raccogliere, sul tavolo della diplomazia, l'alloro che l'esercito sardo aveva mietuto in Crimea.

La storia della civiltà nostra dirà del Congresso di Parigi che esso fu la manifestazione dei sentimenti e delle illusioni di un secolo, il quale sentì l'ansia dei fini umani.

Il secolo che doveva chiudersi con la conferenza per la pace, vi preludiò a mezzo il cammino col «non intervento, l'abolizione della corsa, il diritto dei popoli di manifestare liberamente i loro voti.»

Napoleone III segnò in quel punto l'apoteosi del suo regno, e l'Europa la moderazione di lui ammirò.

Cavour rinvenne l'alleato.

– Che si può fare per l'Italia? – Gli chiese un giorno l'Imperatore. E Cavour, cogliendo al balzo le intenzioni e la proposta, gli esponeva il suo piano; si arrischia, e con temerario slancio butta sul tappeto verde del Congresso la questione italiana.

Questo avvenne il giorno 8 aprile 1856.

Fu la prima volta che in un congresso europeo l'Italia «nazione» apparì.

Ben lo intese il gentile spirito dei patriotti toscani, quando al ministro piemontese ritornato in patria offerivano nel bronzo: «Colui che la difese a viso aperto.»

Intanto i lombardi regalavano all'esercito sardo di Crimea la statua dell'alfiere in atto di difendere lo stendardo.

Le rivendicazioni italiche erano una realtà. Cavour le aveva elevate al posto d'onore, mentre coglieva il segreto di Napoleone III.

Il ritorno di Cavour da Parigi segna il principio di un'epica fase, e il linguaggio di lui ne risente.

Questo ministro tecnico, che appariva sdegnoso di uscire dal terreno pratico, diventa un poeta.

La sua eloquenza ha gli scatti e le pompe, l'ampiezza e la grandiosità: egli cita Byron e Manzoni, schiude innanzi al parlamento attonito un orizzonte sconfinato e corrusco di attività provocatrici. Le sue parole hanno la sonorità del metallo: rimbombano come fanfara di guerra.

Orgoglioso, quando passa l'imponente rassegna degli scambi avvivati, delle industrie sollevate, delle leggi immaginate, delle Alpi tentate, delle strade aperte, della marina rinnovata, dei civili ordini assodati, coll'imponente e largo discorso dell'aprile 1857, da codesto orgoglio trae nobile argomento per additare le vie che si aprono, gli ardimenti che aspettano: le fortificazioni di Alessandria, il porto di Spezia, l'esercito, l'armata.

E quando, l'anno di poi, l'attentato di Orsini getta lo scompiglio e incoraggia la reazione, egli, inesorabile accusatore, denuncia la complicità del misfatto nel mal governo dei principi, nelle perfidie austriache.

Lo sgomento di tutti si infranse contro la sua virile fermezza. L'Europa stava spiando. Sarà Alberoni o Richelieu? Ma il 10 gennaio del '59 Napoleone III getta la sfida all'Austria; alcuni giorni dopo, Vittorio Emanuele non è insensibile al grido di dolore dell'Italia.

Palestro, Montebello, Magenta, San Martino e Solferino! Giornate primaverili del nostro riscatto, corona di valore e di sangue a quegli accordi di Plombières che Cavour annodava, intanto che vanamente la diplomazia lo sorvegliava!

La guerra del 1859, colla liberazione della Lombardia determinò la sollevazione della Toscana, dei Ducati e della Romagna; e, allorchè Napoleone III, preoccupato dal contegno della Prussia risolse di posar l'armi, stipulando i preliminari di Villafranca, mezza Italia aveva proclamato la indipendenza.

L'insurrezione prodigiosa era stata sollecitata dall'iniziativa guerriera del Piemonte: Cavour l'aveva ispirata: egli sentiva la responsabilità formidabile.

Il grande rivoluzionario era lui, che aveva bandito la guerra, scatenato le popolazioni, armato Garibaldi, che sosteneva di denaro e di consigli Farini nell'Emilia, d'Azeglio in Romagna, corrispondeva con Ricasoli in Toscana. Villafranca lo colpì come una defezione. Fu il dolore grande della sua vita, gli parve d'aver mentito ai popoli fidanti in lui. L'esaltazione tragica del suo animo salì all'irreverenza verso i sovrani; quel potente dubitò di sè: vide nell'opera sua una ruina.

Il popolo d'Italia fu, in quei giorni più sereno e tenace di lui, ma lo intese. Disse: è un uomo di cuore costui, e veramente ci ama. Lo vendicò. D'altronde, Napoleone III che aveva sacrificato al dovere verso la Francia la promessa: «dall'Alpi all'Adriatico» si tenne fedele allo spirito del trattato di Parigi.

Se Villafranca significava la pace coll'Austria, egli aveva dichiarato che non intendeva di frapporsi fra il popolo e le sue aspirazioni. Quando Gioacchino Pepoli fu spedito a Parigi per annunziare i propositi degli Italiani e già i governi provvisorii delle provincie centrali, irremovibili nell'indipendenza, meditavano l'unità coi plebisciti, l'Imperatore movendogli concitato incontro:

– Sur quel air venez-vous? – chiese.

– Sur l'air de Villafranca, Sire, rispose Pepoli prontamente. E di rimando:

– Il n'y aura pas d'intervention, – dichiarò recisamente Napoleone.2

Il non intervento condannò l'Austria alla immobilità, favorì la politica delle annessioni. L'opera di Cavour ne usciva intatta, e questi, che nell'impeto del patriottico sdegno, aveva abbandonato il governo, vi ritornò il 16 gennaio 1860.

Era forse giunto il tempo che dovessero avverarsi tutte le profezie? Che anche la parola di Carlo Alberto trionfasse? Suonava per l'Italia l'ora di fare da sè?

Ahimè! Diciotto mesi ancora, e poi il risorgente popolo è percosso dalla negra ala della morte.

«Una congestione cerebrale,» scrive il venerando patriotta ungherese Luigi Kossuth «e la mente che oggi s'innalza co' suoi progetti fino al cielo, la mano che arditamente spinge la ruota della fortuna delle nazioni, domani è un corpo esanime che ridona alla terra ciò che di terrestre conteneva.»

Ma in quei diciotto mesi quale maestosa onda di fatti!

L'epopea dei volontari, l'ardita marcia a traverso l'Umbria e le Marche e Vittorio Emanuele che stringe la mano a Garibaldi sul Volturno, intanto che i plebisciti creano il regno d'Italia e il primo parlamento italiano acclama Cavour, che si mostra al braccio di Alessandro Manzoni!

Questo è miracolo voluto, combinato, eseguito con una perspicacia che sorveglia sè stessa acutamente, con un'attività pensata a un tempo e turbinosa, fucinata sul maglio di un'energia indomabile, in una terribile tensione dello spirito.

– Oh! – sclamerebbe la forte e dolce Nennele, la simpatica eroina, la nuova creazione di Giuseppe Giacosa – oh veramente colui si dava alle cose!3

Per tal modo, il giovanile prorompere dell'ufficialetto di Bard, imprimendosi nella maestà della storia, coronava la vulcanica esistenza, dominata da un pensiero!

Cavour era ministro del regno d'Italia! E nei clamori della prima festa nazionale, in onore di quello Statuto, che era stato per la sua volontà un miracoloso talismano, nella letizia dei compiacimenti ufficiali che dall'Europa venivano al nuovo regno, si dileguava nell'eternità gloriosa l'infaticabile spirito nel quale il sospiro dei secoli aveva assunto robusta e vitale forma.

Temperamento fatto di logica e di libertà. Spaziò in un campo intellettuale supremo, dove non setta, non pregiudizio, non volgarità di onori, ma solamente la fatidica progressione della storia lo guidava. E questa lo condusse al premio ineffabile, e dona alla memoria di lui, rompendo l'ombra e rischiarandola, la serena popolarità che circondò la sua persona.

Ma egli maturava nell'ampio e profondo cervello immensi e benefici disegni!

Avete udito, sul letto di morte, le ultime sue parole?

– Frate, frate, – e appuntava su padre Giacomo il fuoco supremo dei suoi occhi spalancati: – libera Chiesa, in libero Stato.

Egli poteva darci una salutare riforma religiosa!

Fino dalla gioventù, la preoccupazione delle forze morali che sorreggono le comunioni umane aveva sollevato il suo animo alla vertigine delle altezze, il sublime lo tentava nel magnifico miraggio: la religione e la libertà!

La sua formula, incompresa o trascurata, racchiude forse il segreto di una risurrezione di fede, quale non videro le mistiche età, di una spiritualizzazione del sentimento religioso, quale non sanno concepire coloro che abbassano la Chiesa al livello di una Società politica.

– Santo Padre! – esclamava in cospetto dei nuovi eletti d'Italia, il conte di Cavour – Santo Padre, noi vi daremo la libertà, che da tre secoli invano chiedete alle potenze cattoliche; date a noi Roma la madre alma, la stella polare nostra: noi proclameremo la libertà della Chiesa! —

Era una promessa degna della mente politica più vasta e comprensiva dell'età nostra, della mente che rispecchia l'immagine più schietta e completa, più morale del mondo moderno!

Pochi, pochi anni, troppo pochi anni durò quella fioritura vivida e generosa di colore, di luce; durò quel governo intellettuale contesto di persuasione e di fàscino.

Ma la forza di una dominazione fondata sulla vivace parola, sul dibattito aperto, in parlamento, azione di avveduta pazienza e di indomabile fede. non è mirabile, stupenda, misteriosamente seduttrice, efficace e illustre assai più di quella che si suole richiedere agli eserciti ed alle burocrazie?

Il significato morale dell'opera di Cavour, equilibrata, sana, condotta secondo ragione, non è qualche cosa di molto elevato, di veramente edificante e buono, che ravviva la confidenza nelle qualità umane, nella possibilità di un destino che corrisponda agli intimi soavi accordi dell'intelletto e del cuore?

Oh, di certo, una nazione redenta, un popolo restituito a dignità, il sangue dei caduti vendicato coll'onore della patria raggiante nella coscienza di cittadini risorti alla serietà del dovere e alla letizia della libertà, codeste sono opere immortali.

Ma lo spiritual significato di un'esistenza utile, laboriosa, onesta e grande come quella di Cavour non è forse anche più ragguardevole cosa e degna di rimanere in perpetuo esempio?

Di codesta purissima luce, effusa sulla nuova storia della nostra patria, dobbiamo rendere grazie a quell'uomo, e, sia benedetta la Provvidenza, che la rivoluzione d'Italia si impersona in una delle figure più elette del secolo.

Nè consentiamo alla puerile bestemmia che egli sia morto a tempo per la gloria sua.

Per la sua felicità, forse.

Ma, per la gloria? Che possiamo dirne noi? Che ne sappiamo?

Che cosa possiamo noi prevedere di una intelligenza, di un'anima entro la quale ardeva e folgorava così potentemente il raggio di Dio?

Un giorno, standosi il conte di Cavour sulle rive del lago di Ginevra, lo accostò un alto e biondo bernese, soldato della libera Elvezia repubblicana.

Lo fissò, e poi gli chiese:

– Sie sind Cavour? —

E, avutane risposta affermativa, gli occhi del popolano si velarono di lacrime. Afferrò le mani del grande liberale, le baciò precipitosamente, commosso. Poi si allontanò.

Si era al 1860: l'Italia sorgeva.

Oh come felici, se nella sconsolata via, venisse innanzi a noi il trionfante fantasma ideale!

Con quale trepidante desiderio, anche noi, interrogheremmo:

– Sie sind Cavour? —

L'EPOPEA GARIBALDINA

CONFERENZA
DI
GIUSEPPE CESARE ABBA

Tentare in una breve ora l'epopea garibaldina, che vuol dir tutto Garibaldi, sarebbe come voler cogliere in un'occhiata tutta la giogaia delle Alpi. Chi lo potrebbe e da quale altezza? Fra Rio Grande e Digione, i suoi furono trentacinque anni di guerre con intermezzi di solitudini da Nume, o sull'Oceano o sullo scoglio dov'Ei sapeva incatenarsi da sè; e solo la lirica, col suo gesto da folgore, varrebbe forse a pigliarli nella sua luce. Ma se è vero che dell'Epopea il poeta può, se vuole, coglier soltanto il nodo; allora questo nella garibaldina è la Sicilia, la Dittatura, Lui, che privato, povero, disconosciuto, dispetto o adorato, ma in sè gigante cui sono sproporzionati uomini e cose, leva via un re inutile, e fa possibile e sicura l'unità dell'Italia.

Se lo stato dell'anima quale ce l'han fatto i secoli, per quel tanto di scienza che s'acquista via via da tutti, ci lasciasse ancora concepir l'Eroe nel senso antico, certi pochi uomini, da duemila anni in qua, meriterebbero d'esser chiamati eroi quanto Garibaldi: ma forse piace di più riconoscere in lui l'Uomo quale un giorno sarà, perchè ebbe al sommo la pietà, l'amore, l'oblio di sè, e un sentimento vivissimo del misterioso legame che ci giunge con l'Essere da cui emana tutta la legge e tutta la vita, la quale deve divenir alla fine sola bontà.

Non lo vediamo a sette anni, mentre si trastulla con tra le mani un grillo, piangere per avere strappato le ali alla povera bestia innocente? Non offesa dunque a ciò che vive, non far patire. È già quello stesso che negli anni gravi e glorioso si leverà nel cuore della notte, per andare in cerca di una capretta che udirà belare smarrita, su pei greppi della sua Caprera. Di mezzo a questi due fatti che paiono fanciulleschi, sta l'episodio di quel barbaro americano Millan, che aveva fatto torturar lui prigioniero, e che caduto poi nelle mani sue egli rimandò libero, senza volerlo vedere. A otto anni salva una lavandaia pericolante in un fosso; e a tredici si getta in mare per soccorrere una barca di compagni già lì per naufragare. E li salva. Quando a settantacinque anni sarà morente, dirà le ultime sue parole, raccomandando ai suoi le due capinere venute a posarsi sulla sua finestra!

Cominciò presto per lui la grande scuola di farsi da se; e presto lo vide la Costanza, il brigantino che lo portò marinaio in Levante, sogno degli italiani, passato dai libri di Marco Polo nella poesia cavalleresca. Anch'egli mirerà di Angelica ridente il velo

 
Solcar come una candida nube l'estremo cielo;
 

ma poi la sua Angelica la troverà in Italia, a diciassett'anni. Navigherà col padre, marina marina, sino a Fiumicino e da Fiumicino farà una corsa a Roma. Col quel po' di storia romana che ha nell'anima, passerà tra i monumenti della vecchia Roma e quei della nuova, si desterà in lui lo spirito di Cola di Rienzo, concepirà che sulle due Rome, può e deve sorgere una nuova Roma italiana. E in quell'età della vita che ogni uomo si pianta nel cuore una fede propria, in lui si pianta quella della gran madre, per cui penserà, lavorerà, combatterà fino al «Roma o morte» d'Aspromonte; fino alla tetra sera di Mentana. Il dì che Roma diverrà italiana, egli non ci sarà, ma i secoli diranno che stava a combattere per l'onore di quella Francia, che a Mentana aveva provate le armi sue nuove contro di lui. Mai uomo fu defraudato del suo diritto come lui, in quel giorno che l'onore di entrare in Roma toccava ad altri!

Gli anni giovanili di Garibaldi paiono andati via rapidi, per chi li legge nelle sue biografie; ma come furono densi di azione! E il nostro pensiero lo segue ancora su' mari di Oriente dove navigando coi Sansimoniani proscritti, si nutre del Cristianesimo nuovo ch'essi portano per il mondo. Un anno appresso, a Taganrok (1833), un asceta del patriottismo gli rivelerà la Giovane Italia e la formola Dio e Popolo lo conquiderà. Da allora, Garibaldi sarà il Paolo di quella fede.

Passiamo via rapidi su quel momento della sua vita in cui egli entrò nella marineria del Re di Sardegna con propositi di ribelle. Ma chi gli diede in quel momento il nome di guerra di Cleombroto, lo dava a caso, o ravvisava in lui qualcosa del giovane che letto il Fedone di Platone si uccise per accertarsi dell'immortalità dell'anima, o qualcosa del re Spartano di quel nome, morto alla battaglia di Cintra? O forse quel nome gli fu dato per quel senso di procella che par esprimere?

Il pensiero di Garibaldi non era stato bello, ma sublime fu la pena che si inflisse da sè. Nell'ora di agire, di gridar la rivolta sulla nave del Re, la sua natura nobilissima gli diede il raggio che salva: egli scese a terra, andò a cercar altrove per Genova il luogo da spendervi la vita o conquistare la libertà; andò e cercò invano… la rivoluzione promessa era ancora un sogno. Ebbene, se tutto è finito in nulla, egli si riconferma nella sua fede, se la porta via nel cuore, anderà a fecondar l'idea pel mondo. E allora comincia l'Eroe. Curioso fatto! Egli, come gli Eroi dei poemi cavallereschi, inizia la storia delle sue imprese scorrucciato col suo Re, anzi in nome del suo Re condannato contumace a morte, come bandito di primo catalogo: e queste son parole della sentenza.

Infermiere dei colerosi negli Ospedali di Marsiglia, quando non ci è da far quel bene, s'imbarca per l'America, e là sarà l'eroe byronesco, Lara, Corrado, Leandro o quasi Mazeppa, quello che si vorrà. Oh! quando combatte per Rio grande, e quando vinto attraversa per nove giorni la foresta dell'Antas, fra temporali che la schiantano a colpi di fulmine! Cavalcava al fianco della sua donna, portando in un panno al collo il loro primo figlioletto di tre mesi; e questa ci pare una scena di cui si potrebbe leggere nella Bibbia. E di tratti biblici ne ha parecchi. A San Gabriele, al passo di un torrente, vede un uomo che sta facendo asciugare al sole i propri panni. «Tu sei Anzani!» grida egli a quell'uomo, «E tu Garibaldi!» risponde l'altro. S'erano per fama invaghiti l'uno dell'altro; ora saranno uniti per la vita e per la morte. Eccoli sulla via della grandezza. Montevideo ha bisogno di braccia. Vanno. Garibaldi è guerriero da terra e guerriero da mare. Dove lo mandano? Dovrà risalire il Paranà, con quei gusci che la Repubblica gli può dare; ed egli va, s'incontra con la squadra nemica, passa, naviga su pel fiume due mesi, e sotto il cannone ogni giorno; all'ultimo a Nueva Cava, dopo aver combattuto tre notti e tre giorni farà saltar le sue navi, ma il nemico non potrà dire di averlo vinto. Oh! perchè ventiquattr'anni di poi, ammiraglio a Lissa non fu lui?

Poi divenne guerriero di terra e creò la Legione. Romano d'anima non poteva chiamarla che così. Intanto gli anni incalzavano, veniva il 1846, e nel crepuscolo mattutino di quell'anno nel cui meriggio Pio nono doveva benedire l'Italia, là nell'America un pugno d'Italiani scriveva con le spade la giornata di Sant'Antonio, uno dei più nobili fatti d'arme che la storia del valore possa mai raccontare.

Ai primi annunzi dell'amnistia di Pio nono, egli era là, in quel mondo delle ricchezze, povero come Giobbe. Fabrizio rifiutò i doni di Pirro, ma insomma li rifiutò per non tradire la patria. Garibaldi non aveva voluto nessun compenso d'aver salvata la patria altrui. Egli si sentiva pago abbastanza del campo franco avuto, a provare in guerra il cuore italiano: e ora sentiva con sicurezza che se i giorni della patria erano venuti davvero, egli avrebbe saputo servirla. E «sovente s'arrestava soprapensieri, e gli sfuggiva un leggero sorriso, come a chi attende una lieta fortuna.» Lo scrive Giambattista Cuneo, suo compagno in quei giorni. Cosa vedeva, egli oltre il mare in qua, nell'Italia lontana? Allora egli e l'Anzani offrirono le loro spade a quel Pontefice, cui poco appresso il Mazzini offriva la mente. Avesse il Pontefice accettato; e se non la indipendenza che non era da lui, avrebbe forse guarita l'Italia di quella gran miseria per cui paiono inconciliabili l'amor della patria e la religione, che sono ancor la forza degli altri popoli, pur di noi più civili.

Quando non potè più reggere od aspettare, Garibaldi imbarcò quanti della legione vollero seguirlo, e sul brigantino Speranza, veleggiò a tornare. Canterà mai la poesia l'ora grande che, di qua da Gibilterra, egli vide una nave che batteva bandiera tricolore, la gran bandiera! e seppe Milano insorta, gli Austriaci in fuga, tutta l'Italia in rivoluzione?

E poi Nizza e la vecchia madre non riveduta da quattordici anni: e dopo brevi giorni di gioie domestiche, l'entrata nel mondo del Quarantotto, tutto canti e grida e deliri, ma con poche armi, assai poche! Ei corse presto a Milano. E perchè? – domanda oggidì la storia d'allora, – perchè dovette andare sino al campo di Carlo Alberto per chiedere un posto quale si fosse, e combattere? Non trovò per via gente armata che gli si offrisse? Ahi! Orlando era tornato, ma già si trovava ai primi disinganni. Dal campo fu mandato a Torino dove gli si disse d'andar a chiudersi in Venezia… Nessuno indovinava in lui quel ch'egli era, neppure il governo provvisorio di Milano, dove tornava il 15 luglio, e dove alla fine gli erano dati i tremila volontari sparsi qua e là sino a Bergamo, con questo però che egli se li raccogliesse. Ma allora tutto già volgeva a male in Lombardia; Carlo Alberto si ritirava dal Mincio, gli Austriaci tornavano grossi, Milano ricadeva nelle loro mani; e a Garibaldi non rimaneva che la gloria di cader l'ultimo a Morazzone. E si narrò poi che il D'Aspre, il quale appunto a Morazzone lo aveva assaggiato, dicesse che l'uomo che avrebbe potuto essere utile all'Italia, nella guerra d'indipendenza del 1848, era stato disconosciuto.

Dunque tutto era una grande illusione? No! Roma chiamava, ed ei vi corse co' suoi di Montevideo. E anche là, quando la Giunta Suprema di Governo seppe che Egli giungeva, tremò. Pure dovette accoglierlo e se non altro illuderlo, mandandolo, a capo di bande armate a Macerata, a Rieti. Egli andò. Di là eletto deputato di Macerata alla Costituente, scese in Roma, il 5 febbraio, nell'assemblea ascoltò il discorso d'apertura del ministro Armellini, e di scatto s'alzò, proponendo che si proclamasse la Repubblica. Ecco il dittatore! E tutti lo temono, e pochi si fidano di quell'uomo così nuovo, così sicuro, così fatto per comandare.

Il 21 aprile quando si viene a sapere che partivano i francesi da Marsiglia per Civitavecchia, Egli era già molto sdegnato contro la patria, e se ne era confidato ad Anita, scrivendole da Anagni. Ma non dubitava dei suoi destini. E coi suoi milledugento armati, gli pareva d'essere invincibile. «Roma prende un aspetto imponente, Dio ci aiuterà.» E in Dio veramente credeva.

Sbarcano i diecimila francesi, con sedici cannoni da campo, sei da assedio. Sono amici, sono nemici? Venivano per restaurare il Papa. E allora cominciarono i forti giorni. E fu quel 30 aprile che rimase gloriosissimo nella storia dell'armi italiane. Ma cominciava anche la gran caccia di mezza Europa, contro Roma. Gli Austriaci passavano il Po, la Spagna imbarcava gente per l'Italia, il Borbone invadeva la Repubblica. Vero è che vi furono Palestrina e Velletri, bei nomi a ricordarsi, più che per le vittorie in sè, come primo colpo anticipato da lui al trono borbonico. E la poesia vi si fermerebbe a raccogliere il fior del sentimento, cantando che a certa ora del fatto d'arme, una compagnia di adolescenti salvò Garibaldi caduto, travolto dall'onda della cavalleria nemica.

E poi la ripresa degli assalti francesi il 3 giugno a tradimento; e villa Panfili, e San Pancrazio, e villa Corsini, e il Vascello, e le inaudite gesta d'uomini come Masina, Manara, Mellara, Dandolo, Bixio, Morosini, Mameli, Sacchi, Bassini e mille altri; e i 19 ufficiali morti i 32 feriti, e cinquanta gregari tra morti e feriti, e Lui che ai fuggenti sulla via della disperazione grida: «Voi sbagliate strada! il nemico non è qui!» Avevano letto l'Adelchi del Manzoni, o il Manzoni aveva indovinato che gli eroi parlano così.

Il gran dramma dell'assedio durò ventisei giorni di combattimenti, fino al 29 giugno. E quel giorno, quando l'assemblea chiamò Garibaldi nel proprio seno, egli, lasciate a malincuore le mura, corse e gridò ai rappresentanti del popolo che bisognava eleggere un Dittatore. Quanto a sè, dichiarò che altrimenti sarebbe uscito da Roma a tener alta dove che fosse la bandiera della patria fino all'estremo. Ma l'assemblea, pur dichiarando di volere stare al suo posto, deliberò di cessare la resistenza divenuta impossibile. Dunque anche in Roma, tutto era finito!

Ma non per lui. Prima che i Francesi entrino in Roma egli n'uscirà. Non vuol morire di quel dolore. E sul mezzodì del 2 luglio, raccolta sulla piazza del Vaticano la sua divisione, griderà quelle sue grandi parole: «Io esco da Roma; chi vuol continuare la guerra mi segua. Non offro nè gradi, nè stipendi, nè onori, ma fame, sete, marce forzate, battaglie, ferite e morte; per tenda il cielo, per letto la terra, e per testimonio Iddio.»

In tutte le sue biografie sono taciute le ultime parole di quel discorso: eppure le disse. Le ripetevano ancora, tra i Mille, alcuni veterani che le avevano intese.

La sera di quel giorno uscirono con lui tremila, da porta San Giovanni per la tiburtina, ben sapendo tra quali strette d'eserciti nemici andavano a porsi. Marciarono ventisette giorni, marciarono ventisette notti, sempre lì per dar negli agguati, sempre riuscendo a scansarli. Meravigliosa marcia che rivelò il Capitano, e più che il Capitano l'Uomo fatale: perchè grandissima cosa tra le grandi compiute in quella fuga da leone, egli non disperò un istante d'un mondo non ancora degno di lui, nemmeno in quel fiore di valorosi che avevano voluto seguirlo.

Il 31 luglio riparava in San Marino. Parevano rifiniti tutti quelli che non rimasti per via, s'erano rifugiati lassù. Egli no. Dice ancora ai Reggenti: «Che se i Tedeschi non lo attaccheranno, egli non li attaccherà.» Non è il sommo dell'ardimento?

Ma insofferente d'indugi, sdegnoso di scendere a patti con lo straniero; mentre gli Austriaci gli stringono il cerchio intorno fin sul territorio della piccola Repubblica, egli piglia la sua risoluzione. Anita è quasi morente ma non si lagna, con Lui le è vita ogni stento. E via di notte pei balzi dirotti del Titano, scende, passa tra le schiere nemiche, traversa la terra fedele di Romagna fino al mare, vi imbarca i dugento che potè condur seco; mèta Venezia… Là si combatte ancora.

Ma, cade in quel giorno del 4 agosto l'episodio pietoso che tutti sanno. Dal mare gli tocca a ripigliar terra, inselvarsi con Anita, morente tra le braccia; solo, tra il mondo e Dio, la porta, la affida, non sa quasi bene se viva ancora o già morta, a chi potrà seppellirla. Egli deve sè all'Italia, e non può lasciarsi uccidere dai croati su quella povera morta. Fu forse il momento più amaro della sua vita. «Ma quando la disperazione starà per entrar nel tuo cuore, chiamami ed io sarò con te:» e al mondo, per far come egli fece in quell'ora, bisogna avere il cuore pieno di quelle voci che Dio mise nei grandi.

Salvato per una sequela di miracoli, sin che potè por piede in Piemonte, s'accorse che neppur lì poteva star più, sebbene in terra di libertà. Egli era venuto a riportare in Europa il tipo del cittadino guerriero, e pareva che non ci fosse più terra per lui. Peggio che Mario! Non fu incatenato come Prometeo, ma fu gettato alla solitudine tremenda dell'anima. E non sapevano che egli aveva in sè un mondo, in cui egli si moveva e sapeva vivere come in un imperio infinito.

Riprese la via dell'esilio, seppe cosa vuol dire non aver da sfamarsi, lavorò colle mani da semplice candelaio, alla fine potè riavere una nave e gli oceani. E nella solitudine del Pacifico, un giorno del 1854, gli avviene uno di quei fatti interiori, che paiono accidentali, ma che forse provano come a certi gradi di perfezione l'anima umana sia servita forse da sensi misteriosi che non sappiamo d'avere. Egli è in pieno Oceano Pacifico e sente in sè che a Nizza muore sua madre. Quella morte sentita così, gli mise la nostalgia della patria!

Rivedrà l'Italia in quello stesso anno 1854; non si sentirà più di staccarsene, ma per altro nessuno gli dirà più d'andar via. Il Cavour è alla testa del Piemonte, sa dove vuole andare il suo Re, e sa pure che per avere con sè la Nazione, il Re deve tener conto sopratutto di quel proscritto. Ebbene, se nessuno vieta più omai a Garibaldi il suolo del Piemonte, divenuto asilo di tutti i profughi, Garibaldi non vi si fermerà. Egli non è fatto per vivere tra gli uomini la vita d'ogni giorno. C'è là nel mar di Sardegna un'isoletta, ch'egli ha veduta sin dal '49; e là con un po' di terra da coltivare, una casetta da starvi ch'egli fabbricherà da sè, umile come quella di Montevideo, e la quiete e la speranza potrà aspettare. Aveva allora quarantasette anni, un'altra primavera d'Italia pareva vicina, ma che venisse presto finchè c'era ancora un resto di gioventù! Passarono gli anni: fu la guerra di Crimea e la spedizione piemontese, della quale forse neanch'egli capì gli intenti, perchè non uso a pigliar vie così traverse; ma l'atteggiamento del Piemonte, quel piantarsi di Vittorio Emanuele da Re italiano in faccia all'Austria, dovette por nel gran cuore del solitario generale la certezza d'una ripresa d'armi, come egli la vagheggiava.

2.Aneddoto raccontatomi dall'illustre presidente della Camera italiana: Giuseppe Biancheri.
3.Come le foglie. Atto III.
Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
27 aralık 2017
Hacim:
140 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 1, 1 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 5, 1 oylamaya göre