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Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte II», sayfa 8

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IV

La fama del Guerrazzi, già grande, divenne grandissima e popolare dopo la comparsa dell'Assedio di Firenze, che fu dovuto stampare a Parigi con lo pseudonimo di Anselmo Gualandi. E quella fama consolidarono o accrebbero le varie opere pubblicate da lui successivamente nel giro di pochi anni: Veronica Cybo, una di quelle storie di sangue che piacquero troppo all'autore, ma forte e rapida, senza divagazioni e senza lirismi; Isabella Orsini, altra domestica tragedia quasi gemella alla precedente, ma più lenta e più faticosa di quella; poi le Orazioni funebri di illustri italiani, sempre nobili di pensiero e calde di sentimento civile; e poi I nuovi tartufi, modello di narrazione acremente umoristica, e battaglia politica contro i seguaci di idee moderate. Ma della sua potenza di grande umorista il Guerrazzi aveva già dato un saggio mirabile fin dal suo esilio di Montepulciano, ove scrisse quel minuscolo capolavoro che è ancora La serpicina. In questa breve novella è svolto un concetto estremamente pessimistico dell'umanità, con una forza di humour a cui conferisce grazia quel sapore d'antico che è nello stile, e ne tempera l'amarezza. Quando, per altro, l'autore volle insistere troppo su quello stesso concetto, diluendolo nell'interminabile arringa dell'Asino contro il genere umano, riuscì fastidioso e pesante, e tutto quello sforzo di erudizione e di satira arguta non potè dar ragione all'immane raquisitoria dell'indignato e sapiente quadrupede.

Quanto meglio, qualche anno dopo, rifulse l'estro umoristico del Livornese in quel raggio di sole che è Il buco nel muro, vero raggio di sole in mezzo a tutta la tetra opera sua, e vero inno alla pace serena della famiglia, di cui non pareva capace quell'orco, quel parricida, quel rorator di fanciulli che fu predicato il Guerrazzi!

Nè, fra le molteplici occupazioni letterarie e forensi, cessava l'attività politica del cittadino, come non veniva mai meno nello scrittore il pensiero della patria, inspiratore diretto o indiretto di ogni suo libro. Così nel '47, pubblicando l'elogio di Amelia Calami, traeva anche da esso occasione a ribattere il suo Delenda Carthago, e terminava lo scritto con queste fiere parole: «Chè se alcuno osserverà, nè pietoso nè savio essere stato il consiglio di mescere tanto odio nel discorso funerale di mitissima donna, io gli rispondo che la mia religione mi insegna acuire sopra le tombe, sopra gli altari, sui fonti battesimali, su tutto, la spada che deve alla fine affrancare l'Italia dallo abborrito straniero. Catone il Censore costumava concludere ogni sua orazione col motto: Vuolsi sovvertire Cartagine; sicchè, poco prima che spirasse, l'anima sua esultò delle puniche fiamme. Così gl'Italiani finiscano prece, lettera, orazione, tutto, con le parole: Fuori stranieri! E gli stranieri, sotto lo indomabile odio, anderanno dispersi. Allora poi favelleremo d'amore.»

In quello stesso anno 1847, nell'imminenza di quelli avvenimenti politici che egli aveva cooperato a maturare, lanciò per le stampe il Discorso al Principe e al Popolo, col quale chiedeva al Granduca una costituzione. Se non che, di lì a poco, accusato di macchinazione pericolosa contro il Granduca medesimo, venne arrestato di nuovo e di nuovo mandato a Portoferraio. Prosciolto per insufficienza di prove quando già era stata promulgata la costituzione, riuscì deputato al Consiglio toscano, ma non pei suffragi dei Livornesi. E poichè a Livorno erano scoppiati disordini, egli vi andò paciere, sedò quei tumulti, spadroneggiò, e si creò nuovi nemici. Intanto, mentre egli era già al potere come ministro dell'interno col Montanelli, Leopoldo II fuggiva da Firenze l'8 febbraio del '49, e si formava un governo provvisorio col noto triumvirato, che fu in realtà una vera dittatura del solo Guerrazzi.

Deputato e ministro, triumviro e dittatore, la sua vita di quel tempo appartiene alla storia, e la storia la giudicherà. I contemporanei lo fecero segno ad accuse che è carità di patria non raccogliere; lo accusarono, fra altro, di malversazione del pubblico danaro, e fu luminosamente provato che lo amministrò con tanta rettitudine da averci rimesso del suo. Potè commettere errori, non colpe; ma è certo che temperò molti eccessi, frenò molti abusi, e impedì con gran senso pratico la proclamazione della repubblica toscana, resistendo al Mazzini che gliela imponeva. Non eran quelli i momenti da pensare a repubbliche; tanto è vero che il mese appresso ogni concetta speranza cadeva a Novara, e che il Granduca tornò a Firenze, e ci tornò con gli Austriaci. E il Granduca e gli Austriaci seppellirono il Dittatore nel mastio di Volterra, lo sottoposero a iniquo processo, per delitto di lesa maestà, e dopo quattro anni d'iniquo processo lo condannarono all'ergastolo, commutatogli nell'esilio perpetuo.

A questa quarta prigionia e a questo lungo processo dobbiamo uno dei libri più belli del Guerrazzi, l'Apologia della sua vita politica, e il più tristo di tutti i suoi libri: Beatrice Cenci.

«Scritto in carcere e generato perciò fra lacrime e sangue» disse l'autore questo romanzo; e il romanzo, pur troppo, gronda di sangue anche più che di lacrime. Vera orgia di atrocità mostruose, dove par che il poeta abbia davvero voluto versare tutto il fiele dell'anima sua invelenita da tante persecuzioni, la Beatrice Cenci fu letta anche troppo, con la bramosia delle cose malsane, attraendo con la satanica bellezza di molte sue pagine. Oggi non la ricorda più alcuno, ed è mera giustizia. La fama del Guerrazzi non ha bisogno di esser raccomandata al ricordo di un libro così malefico, e l'autore non tardò a farne degnissima ammenda con le storie di argomento côrso, inspirategli dalla forte isola che gli fu terra d'esilio: La torre di Nonza, il Moscone e il Pasquale Paoli.

Questo grande romanzo di libertà, pubblicato nel '60, è degno fratello all'Assedio di Firenze per l'argomento e per l'indole, e lo supera come opera d'arte matura, più schietta, più impersonale, più semplice. Ma i tempi erano mutati, e cessate le più forti ragioni che avevano fatto cercare con tanta avidità i volumi del fiero scrittore; onde il Pasquale Paoli, che è giudicato la più bella prosa narrativa di lui, non suscitò gli entusiasmi che avevano accolto i suoi primi romanzi.

Dalla Corsica lo smanioso esule era fuggito, con pericoli e stenti incredibili, fino dal '57, e si era ridotto a Genova a aspettarvi gli eventi che avrebbero dovuto permettergli di tornare in Toscana. Ma il '59 arrivò, le sorti d'Italia cambiarono con rapido quanto felice rivolgimento, e al poeta dell'Assedio di Firenze non fu ancora concesso il sospirato rimpatrio, che i governanti d'allora temevano pericoloso. Ed egli se ne crucciò tanto più, perchè, amante della patria davvero e non dei partiti, aveva voluta e promossa efficacemente l'annessione della Toscana al Piemonte e l'unità della nazione con la Dinastia di Savoia. Vittorio Emanuele dovette comprendere il giusto risentimento del cittadino benemerito e illustre, e volle vederlo e parlargli. Chiamatolo a Torino, cercò di persuaderlo a restarvi, con qualunque carica avesse potuto desiderare, offrendosi pronto a crearne magari una apposta per lui. Ringraziava commosso il Guerrazzi, ma rispondeva al gran Re non desiderare e non chiedere altro che potersene tornar con onore a casa sua e a' suoi studi, non volendo tornarvi con l'amnistia che il governo provvisorio gli aveva largita.

E a Livorno potè rientrar finalmente nel '62, per la deputazione conferitagli da' suoi concittadini, i quali più tardi, con manifesta ingratitudine, gliela ritolsero. Forse non era piaciuta l'attitudine violenta che egli aveva presa anche in Parlamento contro quella che usava chiamare l'empia setta dei moderati. E il vecchio gladiatore allora si ritirò dall'arena, confinandosi nel suo romitorio di Cecina, stanco di mente, offeso di cuore, scontento di sè e di tutti. Ivi passò i suoi ultimi anni «in compagnia del mare, delle foreste scarmigliate dal vento, e della malaria», invocando pace, e non ottenendola che dalla morte il 23 settembre 1873.

Dodici anni dopo, Livorno gli eresse una statua, che lo rappresenta seduto come chi medita e scrive. No, no! Alto in piedi e diritto doveva sorgere dal suo piedistallo chi nacque alla lotta e lottando invecchiò. Guerrazzi in poltrona, io non me lo so figurare neanche di marmo!

V

Non ho neppure accennato alle ultime opere guerrazziane, perchè nulla esse aggiunsero alla fama letteraria dello scrittore. L'assedio di Roma, uscito nel '64, è già segno della stanchezza di quel poderoso intelletto. L'animo però vi apparisce sempre fiero, e fiero l'odio contro ogni avanzo di vecchia tirannide. Egli non poteva esser pago finchè tutta quanta l'Italia non fosse stata degl'Italiani; e perciò la voce dell'antico leone, come aveva ruggito nel Parlamento contro la cessione di Nizza alla Francia, così continuava a ruggir nell'Assedio di Roma contro il dominio papale e borbonico: – «Se il Demonio potesse o volesse venire al mondo per istrascinar nel suo inferno Papa e Borbone e d'ogni risma stranieri, ben venga il Demonio: noi lo saluteremo Demonio Iº Re d'Italia; purchè venga armato di ferro e di fuoco». Costanza e coscienza mirabile di scrittore e di cittadino, che aveva proclamato doversi ogni uomo proporre lo scopo più immediatamente utile alla sua patria, e a quello tendere sempre con ogni sua forza. Nè mai in alcun uomo alle belle parole risposero i fatti come in quest'uno.

Discendente legittimo di Dante e di Machiavelli, d'Alfieri e di Foscolo, come scrittore sentì in pieno petto l'ondata del Byron, che gli scemò la schiettezza dell'arte, ma non la tenace italianità degli spiriti. E a riuscir degno davvero dei sommi italiani da cui discendeva, non gli mancò nè l'ingegno nè l'animo, ma solo una più equilibrata armonia tra le sue facoltà: chè in lui la fantasia prepotè troppo sul gusto, la passione sul raziocinio, la carità della patria su l'amore dell'arte. Difetto glorioso quest'ultimo, che il Guerrazzi ebbe comune col Berchet e col Niccolini, per non citare che i due poeti ai quali somiglia di più, e che sono i più degni di essergli paragonati fra quanti nel periodo nel nostro risorgimento intesero a fare opera di patriotti più che d'artisti.

Quella organica sproporzione di forze che era nel suo cervello, e quella soverchia preoccupazione costante di un fine politico estrinseco all'arte, oltre che le vicende d'una vita d'azione così combattuta, impedirono a lui di lasciare un'opera perfetta che abbia vera probabilità di resistere al tempo. Anzi, se si eccettui più d'una delle sue cose minori, che l'Italia dovrà tornare a leggere e ammirare più che oggi non faccia, la sua produzione è quasi già tutta invecchiata, mentre egli avrebbe potuto restare uno dei più grandi prosatori del secolo decimonono. Basterebbe a provarlo l'episodio del buon Romeo dantesco, parafrasato nella Battaglia di Benevento in alcune pagine semplici e commoventi che valgono tutto il romanzo e attestano le straordinarie doti d'artista che erano già in quel giovine di 22 anni. Perchè anche il Guerrazzi, come è accaduto sempre, prima d'Orazio e dopo d'Orazio, riesce tanto più grande scrittore quanto meno se lo propone e quando meno ci pensa. Professus grandia, turget!

Delle sue doti fu sempre conscio e superbo, ma ebbe anche sempre un concetto assai chiaro di ciò che aveva voluto essere e di ciò che poteva valere l'opera sua. Basti, fra tanti accenni, quello che si legge in una sua bellissima lettera al Cantù, pubblicata recentemente, ove è detto che i suoi libri «dureranno, come opera un rimedio, fin che dura la malattia. Quando sorgerà il giorno della vera, della grande libertà, cesseranno, come il lume della lucerna sviene all'apparire del sole».

Uomo e scrittore, ebbe ambizioni e virtù d'altri tempi; onde tutto gli parve così meschino nel tempo in cui visse, che, trovatosi a governare l'intera Toscana, gli sembrò di recitare una tragedia di Alfieri coi burattini, e scrivendo storie o romanzi, ne fece parlare gli eroi come parlavano gli eroi di Plutarco. Ma ambizioni e virtù gli sorresse e scaldò un unico infinito amore all'Italia e un unico odio infinito per tutti i nemici di lei. E a quell'amore e a quell'odio votò la sua vita, «scrivendo, cospirando, soffrendo, operando (ammonisce il Carducci) come da gran tempo non usava in Toscana».

Di tutto questo egli non domandò nè sperò altro premio che quello dovuto dopo la morte a coloro che hanno spesa nobilmente la vita in prò della patria; «un solo premio, diceva, ma grande e divino: quello di sentirsi ricordare dai superstiti con amorosa benevolenza».

E noi, o Signori, andiamo dimenticando quest'uomo, come abbiamo dimenticata oramai quasi tutta una schiera gloriosa di pensatori e di poeti, che, dall'Alfieri al Guerrazzi, si affaticarono a crearci, se non altro, la volontà d'esser liberi; oppure ci ricordiamo di alcuni di loro per frugar nella loro vita e nel loro sepolcro con indiscreta curiosità di eruditi o di anatomisti…

Noi siamo una generazione di piccoli critici e di grandissimi ingrati.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
27 aralık 2017
Hacim:
140 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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