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Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte III», sayfa 2

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III

Vi tedierei inutilmente enumerandovi ora anche soltanto i principali dei drammi in versi che furono applauditi negli anni di cui sto parlando: nulla, dopo quegli applausi, dovuti per massima parte ad attori eccellenti, ha retto a lungo sulle scene, nulla ne è letto oggi da chi non faccia professione di logorarsi gli occhi sulle stampe dimenticate.

Che importa, per esempio, a voi di Aroldo il Sassone di Napoleone Giotti? Era il suo primo lavoro, nel 1846, e lo dedicava al Niccolini: piacque, e tre sere fu dato nel teatro del Cocomero, che ancora non si onorava del nome di lui. E che v'importa della sua Monaldesca? Al Guerrazzi la dedicò il Giotti nel 1853, e furoreggiò: Adelaide Ristori, che ne resse la parte principale, non è difficile credere che ne dovè trarre effetti mirabili; ma cosa più pazza (sia detto col debito rispetto alla memoria di quel pover uomo, morto di recente) non credo facile immaginarla, nè verseggiarla con peggiore rettorica romantica in più rimbombanti endecasillabi. Un po' dell'Hernani e un po' della Beatrice Cenci vi si mischiano nell'azione di un Leonello che, per vendicare un fratello ucciso da un marito geloso, si fa amare dalla moglie di lui, la fa complice dell'assassinio col quale lo toglie di mezzo, e poi le sghignazza in faccia che non l'ha amata mai e non l'ama. Tutto questo con balli mascherati, usci segreti, temporali, e canzonette sulla mandòla.

E meno v'importa, credo, dei drammi di Giuseppe Pieri, e del Francesco Guicciardini, del Dante Alighieri, della Beatrice Cenci, di Pompeo di Campello. Neppure il Nerone del Cossa valse a far rammentare dai critici il Nerone Cesare di lui: mentre invece richiamò l'attenzione di qualcuno al Paolo di Antonio Gazzoletti, gentil poeta ma un poco sbiancato e freddo, come lo definì il Tenca a ragione.

Il Gazzoletti e Antonio Somma (di cui la Parisina, del resto, era uscita nel 1835), e Giulio Carcano ed Ermolao Rubieri, meriterebbero, nella storia di questi tempi, almeno qualche parola. Un Arduino del Carcano sarebbe, per esempio, da raffrontare con l'Arduino d'Ivrea di Stanislao Morelli, che Tommaso Salvini improntò della sua gagliardia e fece tanto applaudire, costringendo (gli scriveva l'autore riconoscente) il pubblico a inchinarsi ad un ragazzo come innanzi ad un gigante. Ma si tratta, insomma, di opere morte da un pezzo e sepolte; gli ultimi guizzi furono esse di un genere destinato a spengersi, in quelle forme, per sempre.

Veniamo a ciò che fiorì, o almeno era degno di annunziare una primavera nuova.

Vincenzo Martini, padre di Ferdinando, fu dei primi a tentare una forma che la necessità del presente e i modelli francesi concordasse con la tradizione italiana. Nel carnevale del '53 Adelaide Ristori ne diè La donna di quarant'anni; cioè la marchesa Malvina; che fin dai cenni dell'autore sui personaggi suoi ci è presentata con «tutta la squisita ricercatezza di vesti e di modi cui si affida una donna elegante sul declinar dell'età.» In quell'anno stesso Il misantropo in società, dove il cavalier Maurizio, a soli ventisette anni, si veste e si atteggia elegantemente, ma ha modi riservati e severi, in curioso contrasto con quelli dello zio marchese Riccardo, che, verso la settantina, mantiene una fresca giovialità. L'anno dopo, Il cavalier d'industria, un tipo d'avventuriero vivamente raffigurato in mezzo al moto d'una società viva di gentiluomini e di speculatori. «Io avrò torto (scriveva il Martini) ma ho per articolo di fede in arte drammatica che la commedia debb'essere il quadro della società e dei costumi: quindi abborro dai grandi colpi di scena, dalle commedie a grande interesse. Chi vuole di questa roba avrà ragione, ma non vada al teatro quando si recita una commedia mia. Il tempo deciderà chi sia sulla vera strada. Io sono convinto (lo dico senza falsa modestia) di essere nel buon cammino, e se casco, come casco pur troppo, egli è per debolezza delle mie gambe, non per avere sbagliata la via.»

Suo figlio Ferdinando, cui la carità filiale non offuscò l'occhio acuto del critico, riconoscendo che Vincenzo talvolta si fermò alla superficie senza approfondire l'osservazione nell'intimo dei costumi e degli animi, ebbe piena ragione a lodare, specie nel Cavalier d'industria, la larghezza almeno di quella osservazione, e ben potè compiacersi di rammentare che Paolo Ferrari già ormai celebre scriveva all'autore di quella commedia: «Voi siete l'ultimo a cui ho detto che vi riguardo come maestro; e perchè l'ho detto a tanti altri che neppur vi conoscono fuor che per fama, mi dovete pur permettere di ripeterlo anche a Voi.» Peccato che poco egli desse al teatro; e peccato che altre cure ne abbiano via via distratto il figlio suo, così pronto e destro osservatore e analizzatore, e così elegante ed arguto maestro del dialogo.

Non mi fermo su David Chiossone che fe' piangere molto; e trascuro, affrettandomi, anche Giuseppe Vollo, veneto, cui, dopo un tremendo dramma in versi La famiglia Foscari, del 1844, nel '55 una certa opportunità dell'argomento e la bravura della Ristori fecero applaudire a Torino I giornali, amarissimo dramma in prosa più tragico che satirico. Li metto da parte perchè, dopo il garbo del Martini, quando insistessi sul Chiossone e sul Vollo, al quale del resto non mancò la forza d'un alto concetto, troppo parrei disposto alla censura e: Che serve, direste, incrudelir coi morti?

Alla Toscana ci richiamano le prime prove di Luigi Alberti, che nel '58 raccolse i suoi Studi drammatici, dove nulla è più che mediocre, ma il mediocre non è almeno di cattiva lega. Val troppo meglio di lui, Tommaso Gherardi del Testa. Poco ormai, e assai di rado, se ne rappresenta; e Il vero blasone, Oro e orpello, Moglie e buoi dei paesi tuoi, La vita nuova, che sono le migliori commedie di lui, escono dal limite cronologico di questa lettura: oggi (m'insegna Piero Barbèra, amico suo ed editore postumo) si vendono alcune di quelle tenue azioni, schiettamente dialogate, solo come libri su cui in Inghilterra s'insegna la buona conversazione italiana: il che, per lo meno, conferma una stima nobilmente meritata e saldamente fermata. Cominciò a mettersi innanzi nel '46; nel '48 combatte, fu prigioniero; tornato, si pose a rappresentare, non di ardite linee nè di colori vivaci, ma di paziente e corretta matita, la società toscana che si vedeva intorno, cioè la borghesia quieta e un po' gretta. Non è risata la sua, è appena un sorriso; ma non vi stanca ne nausea mai. È una verità piccina la sua; ma è verità.

Se il bravo Luigi Suñer avesse, dopo le prime prove felici, seguitato l'esercizio del fare, in cambio di restringersi a quello del consigliare gli altri, con drittura e con sagacia, quanto volentieri vi parlerei, a questo punto, di lui, che tanto prometteva! Ma mi conviene tacerne anche perchè l'opera sua si svolse da Spinte o sponte a Ogni lasciata è persa, dal 1860 in poi.

Due sovrastano: Paolo Giacometti e Paolo Ferrari. Il Giacometti ebbe dalla natura una forza drammatica come pochi; e lavorò indefessamente come pochi. Nato nel 1816, si diè giovanissimo al teatro, seguendo le compagnie e scrivendo durante più anni, per centoventi svanziche al mese, cinque sei lavori ogni anno; onde ottanta fra commedie, tragedie, drammi! Quando nell'82 morì, poteva vantarsi non tanto di avere scritto così in fretta, quanto di avere, anche in quella corsa, rispettato sè stesso e l'arte. Nel 1841, per esempio, diede Un poema e una cambiale, Cristoforo Colombo, Il poeta e la ballerina, Quattro donne in una casa! cioè del cattivo, del mediocre, del buono, non del pessimo. La morte civile, che anche oggi, rappresentata dal Novelli, ci commuove, è del 1861; la pose in scena, a Fermo, Cesare Dondini. Successore di Alberto Nota come scrittore nella Compagnia Reale Sarda, gli fa perfetto contrapposto; quegli un grave impiegato, questi un artista vagabondo: e, del pari, quegli compassato e monotono, questi multiforme e diseguale. Quanto a potenza di fare, non è possibile tra i due neppure il parallelo; ma per la felicità dell'esecuzione, come al Nota avrebbe giovato la mano rapida e audace del Giacometti, così al Giacometti un poco almeno della correttezza e agghindatura del Nota. Nondimeno, abbia pure parecchi difetti e sieno gravi, La morte civile offre scene mirabili. E nella storia del nostro teatro al Giacometti non potrà non spettare un luogo notevole anche perchè, prima di Paolo Ferrari, per due o tre decennii fu egli l'unico che avesse sortito dalla natura tutte quante le doti precipue che fanno il drammaturgo intiero; il senso del comico e del tragico insieme, il movimento dell'azione e del dialogo, la virtù del riconnettere le parziali osservazioni a un concetto superiore.

Di questo ultimo pregio Ferdinando Martini gli fece un'accusa; perchè a lui, nel teatro, non sembra un pregio. Discorrere di ciò con lui è attribuire a lui la vittoria e a sè la sconfitta, perchè pochi sono così destri dialettici e così arguti ragionatori: se non che, dentro me, rimango dell'opinione mia, e concedendo che una tesi, per eccellente che sembri agli occhi del moralista o del sociologo, non rese mai nè sia mai per rendere buono un dramma male ideato per l'arte, sempre più con gli anni son venuto nell'opinione che si onora del Manzoni e del Mazzini, quanto all'essenza etica che deve costituire quasi direi l'anima onde le membra del dramma si agitano vitali. Poco importa, pel giudizio dell'esecuzione, se la tesi sia o no giusta in sè; basta che giusta la creda chi la sostiene: in tale sua fede è il calore che dalla mente dell'artista passa nell'opera sua e la fa sorgere e muovere.

L'amore delle tesi nocque, non è dubbio, a Paolo Ferrari nell'ultimo svolgimento del suo teatro: ma la colpa non fu di esso amore, fu della maniera di costrurre il dramma sopra una tesi prestabilita, in cambio d'incarnare un concetto morale nei personaggi organicamente. Nè dir concetto morale è lo stesso come dire tesi; e la vita rappresentata con onesta schiettezza porge sempre da sè medesima un insegnamento, tanto meno volgare quanto più acuta e profonda sia stata l'osservazione.

Del Ferrari, al quale spetterà, io credo, un'intiera lettura nella serie che la benemerita Società vorrà forse darci l'anno venturo, non ho tempo di parlarvi come egli si meriterebbe; tanto già nei primi anni del suo lavoro drammatico fece di bello e di buono. Non è molto che Giovanni Sforza ha edito e, come egli sa, illustrato Baltroméo calzolaro, una commedia in dialetto di Massa che il Ferrari compose in quella cara città nell'inverno del 1847-48, padroneggiando non pur quel dialetto, ma altresì, di primo impeto (come accade solo alle nature generose), il palcoscenico. Il Goldoni riviveva in quel giovane venticinquenne; il Goldoni delle Baruffe e del Campielo, stupendo fotografo della vita popolare. In alcune scene Baltroméo calzolaro è cosa perfetta. Ma curiosità singolare gli viene dall'esservi già dentro il nucleo anche di quel marchese Colombi, di gioiosa memoria, che avrà poi tanta parte in La Satira e Parini. Perchè il Ferrari tendeva intorno a sè l'occhio e l'orecchio; e non altrimenti notava gl'ingenui costumi ed affetti del calzolaio ubriacone, che gli spropositi del violinista Filippo Chelussi, marito d'una marchesa, e fattosi mecenate di bande cittadine. Bartolommeo, ne' fumi del vino, esclama, come aveva fatto più d'una volta costui, e come farà il marchese Colombi: – Oh! Tasso! oh! Tasso! io resto attonito e non posso attribuire. —

Innanzi di lasciargli rappresentare il suo grande emulo nella pittura de' costumi, Giuseppe Parini, volle il Goldoni dal suo discepolo Ferrari l'omaggio d'una commedia: e nel 1851 gli fece suggerire da un amico di leggere le Memorie sue. Queste inspirarono la commedia famosa in cui rivissero e il Goldoni e la sua Nicoletta e i gentiluomini e i critici veneziani del 1749 in una tale snellezza di scene e di dialogo, in una tale intima ed esterna comicità, che poche commedie nostre possono certo starle a pari. Donde scappassero fuori questa, esuberante di vita e di forza comica, e due o tre altre commedie del Ferrari rigogliose e promettenti, si chiese il Carducci, e rispose che non si saprebbe ben dire. E se il Carducci non lo seppe, davvero non posso dirvelo io. Fatto sta che doverono cooperarvi e infondervisi, alcun che dell'anima stessa del Goldoni assorbita dal Ferrari su dai volumi delle Memorie, l'indole nativamente comica di lui, alcun che degli esempii recenti francesi e italiani che ho accennati sopra. Resta a ogni modo dinanzi anche a me, non solo quell'«irreducibile» che gli estetici confessano a malincuore nell'analisi di qualsiasi opera d'arte, ma altresì un piccolo problema di critica storica che metterebbe il conto di tentare quando, non foss'altro, ne avessimo oggi il tempo e fosse questo il luogo più adatto.

Una poltrona storica è del 1853, La satira e Parini è del 1857, La medseina d'onna ragazza amalèda, in modenese, è del 1859. E come del Baltroméo calzolaro si ebbe poi la riduzione in lingua letteraria (troppo letteraria) nel Codicillo dello zio Venanzio, così la vispa commediola modenese dovè adattarsi all'italiano nella Medicina d'una ragazza malata. L'aver maneggiato i dialetti giovò, comunque sia, al Ferrari, per la realtà dell'azione, per la vivezza del dialogo: chè il raccostarsi al popolo, come dà forza per tanta parte della vita sociale e morale, così anche per la vita artistica porge utili consigli e una vigoria schietta e fresca. La satira e Parini, se non vale forse quanto Goldoni e le sue sedici commedie, restò bell'esempio di commedia storica in versi, e ha gettato nella memoria di tutti un personaggio, il marchese Colombi, co' suoi proverbiali spropositi.

Il resto dell'opera del Ferrari non tocca a me accennarlo; e lascio ben volentieri che altri, dopo queste sue prime e bellissime prove, lo studii, come si conviene, l'anno venturo, mostrandocelo nei pregi e nei difetti: principe, per anni parecchi, della scena italiana.

IV

Se non tutto buona, dunque, ma curiosa e promettente, e nel Ferrari più di una volta quasi perfetta, fu la produzione drammatica dal 1848-49 al 1861, già ci è qua e là apparso che gli attori valsero allora quasi sempre più degli autori: onde, mentre le nostre tragedie e commedie non varcarono le Alpi, li varcarono essi con la fama e con la persona loro, e seppero vincervi aspre battaglie, con vittorie onorevoli alla patria oppressa. Dopo il De Marini, Gustavo Modena; dopo Francesco Augusto Bon, Cesare Dondini e Cesare Rossi; dopo la Internari e la Pelzet, Adelaide Ristori; e con la Ristori, Ernesto Rossi e Tommaso Salvini.

Senza porre odiosi e impossibili raffronti, tutti convengono nella eccellenza e preminenza del Modena. Una mente come egli ebbe, e la dimostrano anche oggi le lettere sue; un animo quale egli ebbe, di patriotta, e lo dimostrano i casi della sua vita; un cuore, quale egli ebbe, di uomo, e lo dimostra l'indomabile amore della giovinetta svizzera che, lasciando gli agi della vita paterna, volle seguirlo su' palcoscenici e nelle campagne di guerra, e fu compagna sua sempre innamorata, e fu per lui innamorata dell'Italia, non mai stanca nel servire i feriti delle nostre battaglie; mente, animo, cuore, cioè un tutto indivisibile di singolare altezza, erano troppo più di quel che occorresse a un attore drammatico. E il Modena fu apostolo e milite di libertà non meno che attore. A lui attore scriveva reverente il Manzoni; a lui oratore eloquente nella Assemblea toscana, cui Firenze lo aveva eletto con oltre diecimila voti, non so se applaudì, ma certo consentì trepidante di commozione, la maggior parte di quel consesso.

Il racconto del come egli rappresentava il Saul non è un aiuto critico, come pochi ne abbiamo, per intendere meglio quella nobile figura dell'Alfieri? E a leggere come declamava dell'Adelchi la narrazione del diacono Martino traverso le Alpi, facendo sentire la solitudine enorme delle valli, e aprirsi al sole sorgente con un crepitìo i coni silvestri de' pini; a leggere come declamava Dante, traendo dal verso possente gli effetti che noi vi rintracciamo, ohimè, con la critica paziente; ci riempie anche oggi di stupore.

Ma egli era nato nel 1803, e la sua figura, voi lo vedete, esce quasi dal quadro commessomi.

Vi rientrano gli altri, il Rossi, il Salvini, la Ristori. Del Rossi solo, perchè morto, mi è lecito parlarvi un po' a lungo; ed anche perchè egli fu ed è il più discusso dei tre. Nè Tommaso Salvini nè la marchesa Capranica Del Grillo hanno davvero bisogno delle mie lodi, e basterà loro, se leggeranno queste pagine, che sappiano come anch'io, con molti di voi, o signore e signori, ho ringraziata la sorte dell'avermi concesso il piacere di ammirare almeno nel tramonto quegli astri che raggiarono fin dal sorgere di tanta luce, e che splenderono così possenti nel pieno meriggio.

Il Rossi, io credo, valse meno di loro: ma forse ebbe più merito a levarsi là dove si levò, perchè mosse di più basso, e si fece con ardore e costanza la via tra ostacoli che essi non ebbero a superare. Basta leggere le memorie nelle quali egli, narrando i suoi Quarant'anni di vita artistica, si rappresentò così al vivo come avrebbe potuto farlo in uno de' drammi che gli piacevano tanto, per sentire la verità di tale mia affermazione. La miseria, la vanagloria infantile, gli studii frettolosi, talvolta le stesse qualità sue gli nocquero; eppure fu e si mantenne a lungo un attore grande. Guardatelo nei principii, quando a Foiano nel 1846 deve fare da Paolo nella Francesca da Rimini, e non ha neppure un po' di vestito: «Aprii il mio bauletto, e dissi a me stesso: – Su, signor abate, pensi, immagini, e trovi qualche cosa per vestire il signor Paolo da Rimini! – fruga, fruga, esamina, trovo un paro di mutande di lana rosse: benissimo! ecco le maglie! un paio di brodequins, ecco le scarpe; ma erano scarpe moderne, e bisognava dar loro una foggia antica: trovo due pezzi di cartone, li taglio a forma di barchette, li cucio e impasto insieme, con della tinta da scarpe li lucido: ed ecco fatto la sopra scarpa! – ma il vestito? – Aveva una giacchetta di velluto nero! ecco il sottabito. – Con uno scialle di falso Cachemir, che la mia povera mamma mi aveva dato per coprirmi dal freddo nel viaggio, faccio una specie di pianeta, tale e quale i preti portano in chiesa per dire la messa: ecco la pazienza. – Alla mia berretta da viaggio, che era di panno nero, levo il tettino, ci metto una penna d'oca: ecco fatto il berretto. – Così vestito, Paolo se ne venne da Bisanzio e dalle guerre sante, disse la bella apostrofe all'Italia, ed il pubblico andò in visibilio.»

Così fece poi sempre: andò innanzi senza mai timori; baldanzoso, mise il piede, occupò. Ciò che meno in lui mi piacque, un certo tal quale istrionismo, le Memorie mostrano che fu una parte così integrante dell'indole sua, che, senza di esso, non avrebbe potuto mai fare quanto fece. – Faccia franca! – è uno de' suoi motti preferiti; e sarebbe cattivo motto per la vita; ma sul teatro riesce opportuna la prontezza dello spirito.

La Ristori lo ebbe compagno nel 1855, e nelle Memorie dell'uno e dell'altra è compiacenza leggere le lodi reciproche per quelle vittorie contro le gelosie della Rachel, su cui l'attrice nostra ottenne gli onori tanto come attrice quanto come gentildonna: e il Rossi sentiva un po' di onesta gelosia pel trionfo di lei che la aveva seguita contro il consiglio del suo maestro, il Modena. Ma a questo punto del suo racconto rompe in parole che gli sgorgano dal cuore, e fan bene a rileggerle:

«Io stimai sempre la Ristori, l'ammirai sin da giovinetto… più volte mi presi a dispute e battibecchi con critici e pubblico, per difenderla imparzialmente dagli attacchi ingiusti, severi o avventati: l'amai anche come donna, senza mire o scopi indiretti: le fui sempre devoto, e non voglio neanche oggi dirle con la mia penna quanto mi fece soffrire. Ella dimenticò, che io era giovine più di lei: che, entrato nell'arte con tutte le illusioni di una anima non corrotta (che per me tutto era color di rosa e poesia), me ne era fatto un ideale di perfezione: che l'invidia, la maldicenza, l'orpello, l'ipocrisia, erano per me cose ignorate: che la verità, quella verità che non offende, ma che stabilisce i fatti e chiarisce le posizioni, fu sempre la mia guida: che amava io pure di farmi strada, di progredire, di diventare un grande artista come lei; e come era pronto a stenderla, io pure desideravo una mano che mi sollevasse, un braccio che mi sostenesse. Ella nell'ebbrezza della sua felicità non scese nel suo cuore, e glielo perdono per la sua grande arte, che ammirai e ammiro sempre in lei anche oggi, benchè sia vecchia e finita come taluni dicono: ma è tal fine, che potrebbe essere principio a molte e molte attrici, le quali si vollero chiamare di lei maggiori. Povere stolte! e più che stolte, impertinenti!»

La Rachel, andata a sentire la rivale, non ci resse, e al terzo atto della Mirra, afferrando per un braccio il suo cavaliere, se lo trascinò via fuor del palco e del teatro: la Ristori, quando la Rachel, il giorno dopo, aprendo una pericolosa gara, annunziò il suo ritorno sulle scene con la Fedra, prese un palco, ascoltò attenta, tranquilla applaudì.

Aveva ragione dunque il ministro di Sardegna nel fare un brindisi a quegli attori italiani che allora a Parigi così avevan fatto, diceva egli, più assai che una bella rappresentazione d'una bella tragedia.

Signore e Signori,

Nel 1855-56 i due fratelli De Goncourt percorrevano l'Italia pigliando qua e là curiosi appunti con la penna e con la matita. L'impressione conclusiva del loro libro fu questa: «Finale. Pulcinelleria universale di tutto quanto il popolo napoletano, mascherato da Pulcinella, in atto di brandire fantocci di pasta da maccheroni, e che con l'altra chiede la buona mano ai forestieri

Mentre il Piemonte si preparava a combattere insieme con la Francia, virilmente trattando le armi per l'Italia; mentre l'Italia tutta, a chi l'avesse osservata con occhio più acuto, sarebbe apparsa un enorme focolare dove le ceneri mal nascondevano la brace ardente; quegli attori a Parigi ci vendicavano dall'oltraggio immeritato: e lode sia e gratitudine a loro.

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22 ekim 2017
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