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Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte III», sayfa 4

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Sugl'Iconoclasti un vecchio amico del Morelli mi narrava pochi giorni fa un aneddoto tipico. Egli lavorava con furia, malcontento della figura di Lazzaro Monaco quando il Palizzi entrò nel suo studio. – Ti piace? – No. – Che devo fare? abbandonar tutto? – Niente affatto. Guarda. Io mi metto davanti alla tua tela. Allontanati. Quando vedrai le tue figure dipinte spiccar su la tela come fa il mio corpo, allora potrai dire d'aver vinto la prova. —

In verità, la gloria di Domenico Morelli è di aver trattato le figure dei suoi quadri non come copie di modelli mascherati o atteggiati, ma come uomini vivi. Troppo egli stesso è esuberante di vita e di passione, per tollerare davanti ai suoi occhi su le sue tele dei fantocci piatti. Non credo di fargli una critica dicendo che questo più che volontà fu istinto in lui. Nei romani, nei greci, negli uomini del cinquecento, nello stesso Cristo egli tornò ad infondere il sangue rosso e palpitante, il suo buon sangue di meridionale beato di sole, e col sangue la passione tutta dinamica, non più statica e di posa, come in quasi tutti i suoi antecessori. Questo romantico, al pari dei grandi romantici d'oltralpe sorti trent'anni prima di lui, ha sentito che il colore è in pittura l'espressione della passione, l'indice della potenza lirica ed emotiva dell'artista. Sebbene talvolta non abbia reso l'intensità della luce solare per aver troppo creduto all'efficacia dei colori puri invece che all'efficacia dei rapporti, pure pochi seguirono col suo amore, con la sua prontezza in un quadro tutti i riflessi e i rimbalzi d'ogni minimo raggio. Dei romantici francesi ha avuto i gusti letterarii e l'amore pel Byron e pel Tasso, in quasi tutti i temi dei suoi primi quadri; e ha avuto la foga nel creare, tanto che fu detto gl'Iconoclasti essere stati dipinti in quaranta giorni; e l'amor per l'oriente che egli ebbe il torto di dipingere sempre di maniera guardando alla Spagna e al Fortuny invece che alla Terrasanta. Venuto poi a maturità in un'epoca di critica religiosa, egli potè con grande successo fondere questo romantico amor dell'oriente alle interpretazioni umane del Cristo, e acquistar nella storia della moderna pittura sacra un posto accanto a Holman Hunt, al Rossetti, al von Uhde, pure tecnicamente così dissimili da lui.

Ma io non posso indugiarmi nella descrizione del suo ingegno per mostrarvi l'importanza dei suoi viaggi tra il '55 e il '62 e la fama sua che saliva con tanta sonorità, che forse nessun altro artista contemporaneo ha tra i giovani del suo tempo ottenuta almeno nell'Italia media una simile suggestione di rispetto devoto.

Quando accanto al Celentano e al Morelli vi avrò rammentato il colore del Faruffini, più nella Vergine al Nilo che nel Sordello della Brera, l'appassionato brio dell'Altamura che venuto dalla sua Napoli divenne così popolare qui a Firenze, la franca pennellata del Pagliano, il quale prenderà al Cogniet l'idea della Figlia del Tintoretto, la forza tragica del Fracassini nei Martiri Gorgomiensi alla Vaticana e negli affreschi non finiti a San Lorenzo fuori le mura, v'avrò indicato tutti i maggiori pittori storici fino al 1861 – se pur non vogliate pensare che già cominciavano a tenere il pennello Barabino e Maccari, un geniale imitatore d'Alma-Tadema come Giovanni Muzzioli e un irrequieto innovatore come Tranquillo Cremona, e che nel 1864 a Parigi con l'ariosa lussuosa riscintillante Passeggiata nei portici del Palazzo Ducale Scipione Vannutelli otterrà in premio un sonetto di Théophile Gautier.

* * *

Dispensatemi dall'enumerarvi tutti i quadri militari che dopo il '48 o dopo il '59 glorificarono i mille episodii di Custoza, di Novara, di Montebello, di Palestro, di Solferino, di San Martino, e i volontari Garibaldini e le truppe Piemontesi, e con Gerolamo Induno perfino i pallidi orizzonti della lontana Crimea e le glorie della Cernaja. Perfino Mussini finirà a fare – purtroppo! – il ritratto di Vittorio Emanuele, perfino Hayez finirà col dipingere la Battaglia di Magenta. Qualunque critica fatta oggi da noi giovani a quei pittori di battaglie i quali quasi tutti le avevano combattute prima di dipingerle, e al carminio della loro tavolozza potevano paragonare il buon sangue delle loro ferite, sarebbe irriverente. Ma un fatto posso osservare ed è che, anche quando la loro pittura sembrerà un po' squallida e il loro pennello poco pronto a rendere l'uragano d'un assalto, il lampo delle artiglierie, le contorsioni d'un'agonia, pure la necessità dello studio del vero, l'intensità della passione presente ed urgente, negl'individui centuplicata dall'eco di tutt'un popolo, furono in Italia i maggiori coefficienti della nuova sincerità artistica e della mutazione del gusto. Qui a Firenze fra tutti costoro, io voglio ricordare un veterano sempre valido e giovanile, Giovanni Fattori, che oggi è rimasto il maggior pittore militarista d'Europa, e che nella sua austera gamma di colori ha per primo veduto i soldati e i cavalli dentro un paesaggio, non, come gli altri teatrali, sopra un paesaggio, e li ha avvolti d'aria e di luce cioè li ha fatti vivi in mezzo alla vita, vivi e degni di vivere nell'avvenire.

I fratelli Girolamo e Domenico Induno, dei quali un anno fa descrissi l'opera, col loro stile gustoso facile e simpatico unirono questa gloriosa pittura militare all'ingloriosa pittura di genere, nella quale però Domenico più sentimentale e più mesto riportò maggior vanto «porgendo,» come dice con frase tipica il Caimi che è lo storico degli artisti lombardi di questo periodo, «l'edificante esempio di quelle abnegazioni che nobilitano il tugurio del proletario.» E intorno agl'Induno col Trezzini, cognato di Domenico, col Castoldi, col Giacomelli, col Clerici, e in Piemonte con lo stesso Gamba, col Beccaria, col Balbiano e massime con Federigo Pastoris fu per vent'anni un diluvio di emozioni graziose ora ridenti ora meste, anzi per lo più meste che stancarono talvolta anche i contemporanei, tanto che nelle Tre Arti quel bizzarro ingegno del Rovani ne parla francamente così: «La pittura di genere è l'arte sorella di quella letteratura pallida ed esile che credette di ingenerare il gusto imbandendoci quei cari romanzuoli cotti nell'acqua di mele cotogne che non passano l'epidermide nemmeno alle maestrine degli asili d'infanzia.»

Ma l'ironia non giovò, perchè in Italia la pittura di genere durò anche più a lungo che in Francia dove, per verità, essa era nata solo dall'imitazione degli inglesi, del Wilkie, del Leslie, del Mulready che tra il fanatismo dei compratori smollicavano al pubblico la grande eredità di Hogarth, – e dove il suo cicaleccio pettegolo fu presto sopraffatto dall'ampia sonora voce della pittura paesana di Millet. Forse in Italia una lode le si può dare, – che, cioè, servì ad abituare definitivamente gli spettatori alle pitture dei costumi moderni visto che ancora nel 1857 il buon Pietro Selvatico credeva d'essere audace, dissertando della opportunità di trattare in pittura oggetti tolti dalla vita contemporanea.

Ma i veri ribelli, i veri fondatori della modernità, i veri apostoli della sincerità, furono in Italia i paesisti. Da Nino Costa a Telemaco Signorini, dal Palizzi al Vertunni, dal de Nittis al Rossano, dal Fontanesi al Pasini, – noi intorno al '60 già vediamo raccolta una falange di artisti tali, che per cento modi, attraverso a cento temperamenti appaiono tutti concordi a proclamare la libertà d'essere originali purchè si sia sinceri, ad indicare quanta può essere la gioia dell'anima di chi con sereni occhi contempla i suoi sogni riflettersi in un mattino aprilino raggiante di speranza, in un meriggio estivo ardente di letizia, in una sera autunnale fosca di pena. Lungi le mascherature classiche e medievali, lungi le lagrimucce pettegole, anche lungi l'inferno delle battaglie! Un mandorlo fiorito sopra un cielo turchino; un cespuglio di ginestra oro e verde contro un mare color del cielo; un gregge giallastro sopra un tenero prato di marzo; una casetta rosea lungo una strada candida di polvere sotto il sollione; una luna che di dietro un monte violaceo sorge a spegner le stelle nei pallidi sereni: tutte le gentilezze e le grandezze, le profondità dei firmamenti e le tenuità dei fiori parvero allora per la prima volta dopo quasi tre secoli riapparire all'anima degli artisti che tornava ingenua.

Non vi parlo dei piemontesi che dal più facile commercio intellettuale con l'estero oltralpe avrebbero dovuto più prontamente degli altri udire la soavità di quest'invito alla sincerità, e, se non giungere a intendere la bellezza dei creatori inglesi del Paysage intime come Turner, de Wint, Constable, John Crome o Bonington, almeno imitare i loro imitatori francesi, – invece di fermarsi a Ginevra a vedere i Souvenirs de Suisse grandi e piccoli che dipingeva pei forestieri quel monotono arido calligrafico e scenografico Alessandro Calame. Nè Francesco Gamba, nè il Beccaria, nè il Piacenza, nè il Perotti, nè l'Allason, nè il Bennison e tanto meno il Camino si liberarono da questa teatralità che raramente, e quasi a loro insaputa. «Un Calame, deux Calames, trois Calames, que des calamités!» disse allora un critico arguto. Bisogna aspettare che Alberto Pasini parta per la Persia con la missione francese del Bourrée, per vedere il colore; e anche in lui tanta fu, a volte, l'arte, che divenne artificio, e fece preferire ai rutilanti quadri compositi la fresca sincerità delle sue tavolette. Bisogna aspettare che Rayper, d'Andrade, Issel e Giordano raccogliendosi nella solitudine di Rivara fra gialle rupi e verdi vigne tentino di dimenticare il malo esempio degli antenati. Bisogna aspettare che nel '55 Antonio Fontanesi dopo essere a Ginevra caduto anche lui nel suo Calame, vada all'Esposizione di Parigi a entusiasmarsi di Decamps, di Rousseau e poi a Londra a entusiasmarsi di Turner, e ottenga così una sapienza di tecnica cromatica ancora nuova in Italia e crei quei suoi paesi solidi meditati preparati con abilità ed eseguiti con spontaneità, quei paesi di cui dieci o quindici anni dopo doveva innamorarsi Giovanni Segantini.

A Napoli prima del Vertunni ampio e solenne, prima che il poetico verde nebbioso Rossano e il pallido nervoso de Nittis e Adriano Cecioni da Giosuè Carducci chiamato «dell'arte operatore e giudicatore superbo» fondassero la cosiddetta scuola di Resina, era e regnava Filippo Palizzi senza il quale tutta la moderna arte napoletana, compresa quella di Morelli non sarebbe stata com'è. Quando nel 1832 egli era venuto a Napoli da Vasto d'Abruzzo era ancora vivo l'olandese Antonio Pitloo che il Borbone aveva al suo ritorno, per consiglio del Camuccini, nominato professor di paesaggio nella riordinata Accademia, e che aveva tra grandi entusiasmi fondata la scuola detta «di Mergellina e di Posillipo» lodatissima allora per una trasparenza d'aria e una larghezza di cieli per verità poco visibili ora nelle sue tele. Fra costoro, Filippo rimase al riparo dall'imperversar delle lagrime romantiche e la Vacca che nel 1839 a ventun anno egli dipinse pel primo concorso biennale fu come la serena voce d'un poeta fra un clamoroso sermocinar di rètori.

Da allora non mutò mai di pensiero dando un esempio d'unità di vita estetica ignota a tutti gli altri artisti italiani di questo secolo fino allora. Voi pensate, senza sorridere, all'audacia che occorreva a dipingere a Napoli nel 1839, invece degli Ajaci, delle Lucrezie, delle Virginie, degli Ezzelini e dei Crociati, una pura e semplice testa di vacca! Senza alcuna destrezza di composizione, senza alcuna scienza della faccia umana, egli doveva essere e fu un limitato maestro di tecnica. La fermezza sempre maggiore del suo disegno, la pennellata più e più brava, la nitidezza dei particolari, la vivezza e la varietà d'espressione negli occhi e nelle attitudini degli animali – dai pulcini intorno alla chioccia fino alla famosa testa di leone che eseguì a Parigi nel '65 al Jardin des plantes, – o nei fiori o nelle foglie dei vegetali che paiono veramente empir di una vita umana certe sue minuscole tele, tutta la crescente profondità del suo occhio non ebbero, in realtà, sull'indirizzo della pittura tra il '40 e il '70 l'importanza morale che ebbe la sua persistenza nello studio degli animali e dei fiori e dell'erba. Questa rude franchezza, questo bel bagno d'animalità – odor di fieno e di timo – era necessario alla pittura italiana che quando egli apparve poteva davvero ripetere quel che poi egli scrisse nella sua sala alla Galleria nazionale d'arte moderna: – Vorrei rinascere per ricominciare. —

Il movimento dei macchiaioli qui a Firenze fu davvero una rinascita. Spenti oramai gli odii, i biasimi violenti, gli antagonismi feroci di venti o di trent'anni e caduta sul bollor dei superstiti la neve della canizie, tolto ormai ogni significato bernesco a quell'appellativo dato loro dall'arguzia fiorentina, riappare oggi tutta la vivace sincerità di quelli ostinati nemici dei «raschiatori delle tele vecchie,» come essi chiamavano tutti gli accademici classici puristi e romantici, senza rispetto per nessuno, anzi aumentando di ferocia in proporzione di quanto quelli aumentavano di disdegno.

Nel '55 l'Altamura e il Tivoli tornando dall'Esposizione di Parigi si fermarono a Firenze a predicar con tanta fede ai giovani frequentatori del Caffè Michelangelo la libertà artistica ormai da più che trent'anni concessa al popolo di Francia da Delacroix, re del chiaroscuro e dalla sua corte, – che quando quei giovani entusiasti poterono andar a godere nella Villa di San Donato la galleria del principe Demidoff e i Daubigny, i Decamps, i Troyon, i Delacroix, i Marilhat, i Meissonnier che essa conteneva, la rivelazione giunse ai loro occhi come un fulmine e appiccò il fuoco a tutti gli animi.

Al Caffè Michelangelo, come narra Telemaco Signorini in un libro che ogni giorno va acquistando rarità di documento e valore di storia, la guerra di idee si sarebbe fatta grave anche tra gli amici più fraterni se la guerra per la patria non avesse chiamati tutti i generosi a combattere l'Austria. Tutti i reduci – dal Signorini al Fattori – non dipinsero per mesi che bivacchi e accampamenti, scaramucce e battaglie, ipnotizzati dal fuoco e dal sangue come gli innamorati dall'amore.

L'Esposizione nazionale fatta, come ho detto, il '61 qui a Firenze e l'apparizione di paesisti come Palizzi, Fontanesi, Costa e Pasini, ridettero fiamma alle critiche e alle lodi e i congiurati così detti della Macchia scesero per le vie e fecero la loro rivoluzione. Purtroppo le rivoluzioni quando corrono in piazza sono già compiute negli animi. Il dogma che gli avversari a momenti volevano ardere con tutti i suoi apostoli in piazza della Signoria non appariva, in realtà, già applicato in quell'Esposizione del '61 con quello che i critici più codini e più miopi, chiamarono allora il «colorire a spizzico,» dal Morelli, dal Celentano, dal Fontanesi? E in realtà questi giovani che si dicevano veristi e insultavano i romantici d'Italia e perciò sembravano audaci, non erano con qualche ritardo imitatori dei più romantici paesisti di Francia, dal Rousseau al Corot? E la tecnica della macchia che dieci anni dopo Manet spingeva agli effetti estremi con l'«impressionismo,» non era stata inventata appunto dai romantici d'oltre alpe? E la fiera massima dei macchiaioli, «senza maestri e senza discepoli,» non era la più sincera affermazione di quel diritto all'originalità più sfrenatamente spontanea che il romanticismo aveva sancito pel bene degli artisti? Ahimè! quanti presunti nemici ai critici del duemila sembreranno fratelli appassionati! Ma la colpa dell'equivoco fu dei pretesi romantici d'Italia vecchi, legnosi e incolori quanto i neoclassici camucciniani, non dei nostri veristi la cui lotta era benedetta da Dio.

Adriano Cecioni, Diego Martelli e Telemaco Signorini diffondevano con limpidezza le nuove teorie: «il colore non mutar mai, divenir soltanto per la luce più chiaro e più scuro, l'affare più importante nel dipingere esser dunque di vedere e di rendere bene le macchie di chiaro e di scuro, non facendo mai nemmeno le figure più grandi di quindici centimetri, vale a dir di quella dimensione che assume il vero guardato a tale distanza da non esser possibile di percepirlo altro che per masse, cioè per macchie, di chiaro e di scuro…»

Con questa frenetica passione per problemi di pura tecnica si può davvero dire che il Banti, il Cabianca, il Borrani, il Lega, l'Abati, il Moradei, il Signorini, perdessero sul pubblico ogni forza di commozione così che, non essendo essi più che mani, il pubblico avesse il diritto di non esser più che occhi? No. Basterebbe considerare l'opera di tre superstiti: Nino Costa che veramente non fu tra i macchiaioli ma venendo a Firenze nel '59 fu maestro di sincerità a molti di loro, Vincenzo Cabianca e Telemaco Signorini. Quale paesista anche tra i più giovani e i più deliberatamente patetici – come Fragiacomo o Sartorio – raggiunge la profondità di passione delle vedute dipinte verso il '55 sotto Albano, all'Ariccia, da Nino Costa quando come un eremita visse là per cinque anni con lo svizzero David – delle Donne che cavano il lino dal macero, delle Donne che in una sera di pioggia vanno alla fonte e infine di quella sua Veduta della spiaggia di Porto d'Anzio dove il cielo opalino, il mare grigio nella distanza e l'arena giallastra dappresso formano una musica così piana e pure così solenne? E in quali acquerelli più che in quelli del Cabianca, perduta col largo pennellare tutta la minuzia calligrafica e femminile dell'acquerello, si è mai veduto, direttamente dal colore più che dal soggetto o dal gesto, venire per gli occhi al cuore dello spettatore tanta gentilezza d'affetto quanta dalle Monachine fatte nel '61, dalla Neve a Venezia dipinta nel '55, o dalla Chiesetta in riva al mare dipinta tre anni fa? E infine prima di Telemaco Signorini il paesaggio italiano ebbe mai tanta chiarità di sole e di azzurri quanta se ne vede sulle sue vedute delle coste e della marina di Spezia, tanta sicurezza di carattere quanta nei suoi quadri del Ghetto fiorentino, che restano nella memoria netti come ritratti d'un volto umano?

Signori, questo fanatico amor per la natura, questa passione per le solitudini verdi, per gli animali dai placidi occhi, per gli alberi da gli occhi di fiori non definiscono quale sia stata veramente l'anima del nostro gran secolo? L'arte del paesaggio nell'avvenire lo redimerà dalla fama di avaro, di scettico ed egoista, che gli storici superficiali gli hanno già tribuita. Quest'arte, tornando ad immerger la figura umana nella luce, tornando a considerarla sotto l'ampiezza dei cieli simile agli alberi e alle rupi e alle acque nella gioia dei meriggi e nella melanconia delle sere, ha ridato agli uomini la nozione serena e sincera del loro destino, ha ricostruito una specie di religione naturale placida e limpida da ogni paura e da ogni vana superbia. Veramente, educato dai grandi paesisti, oggi l'uomo quando al tramonto col cader della luce nel silenzio sale l'oscurità della morte e filtra per gli occhi nel cuore e il cielo impallidito è più profondo e più ampio e gli umani fatti ciechi sono più sperduti e più piccoli, pronti a confondersi con l'ombre vane, – veramente, dico, allora l'uomo si sente sulla sua minuscola terra come in esilio, e nella coscienza gli salgono come un ricordo istintivo e un rimpianto d'un tempo immemorabile di fraternità, d'un tempo in cui tutto il mondo – cose che sembrano vive e cose che sembrano morte – era un sol fatto, una sola entità, un sol divenire sotto gli occhi, forse, di Dio.

A questa unità del destino di tutto, a questa tristezza solenne e quasi divina, i grandi paesisti, da Turner a Segantini, da Constable a Corot, da Fontanesi a Signorini, hanno educato l'anima moderna. Quali filosofi hanno dato tanto ai loro discepoli?

LE PRIME GLORIE DI GIUSEPPE VERDI

CONFERENZA
DI
PIETRO MASCAGNI
tenuta a Firenze il giorno 14 aprile 1900

Tutte le volte che entro nel Teatro «alla Scala» di Milano, mi fermo all'atrio a guardare le quattro statue di marmo che rappresentano i nostri sommi maestri melodrammatici: Rossini, Bellini, Donizetti e Verdi. E tutte le volte provo una medesima, stranissima sensazione, che mi forza ad ammirare le figure di Rossini, di Bellini, e di Donizetti, mentre, nello stesso tempo, mi rende uggiosa, quasi antipatica, l'effige di Verdi. Ho tentato di giustificare la mia sensazione invocando l'estetica. – Infatti: quell'abito a coda di rondine, quel rotoletto di musica fra le mani e quel paltoncino ripiegato sul braccio sinistro possono dar campo a qualsiasi ribellione del gusto artistico. Ma non sono riuscito a capacitarmi, perchè, volgendo appena lo sguardo, ho veduto la statua di Rossini colla mazza nella destra, l'enorme cappello a staio nella sinistra, ed il portamusica attaccato ai polpacci.

La ragione del mio strano sentimento non deriva dalla espressione artistica degli scultori. Ammiro profondamente le figure di Rossini, di Bellini e di Donizetti, perchè sono il simbolo rappresentativo di tre genii che io non posso conoscere di persona; mentre detesto un Verdi di marmo quando lo posso venerare in carne ed ossa, bello e florido come il destino benedetto lo conserva all'amore dell'Italia nostra.

Forse però, quella statua è di buon augurio. Rammento un tipo originalissimo della mia Livorno che, per avere lunga vita, si fece preparare la tomba e ci fece mettere sopra il suo busto in marmo, opera pregevole e rassomigliantissima. Tutti i giorni, prima di colazione, quel bel tipo se n'andava fino al Camposanto, fissava a lungo la sua effigie, ed esclamava: «Per oggi mangio io.»

E vinse tanto bene la scaramanzìa, che, quando morì, dovettero cambiargli il busto perchè… non gli somigliava più.

E speriamo che così sia della statua di Verdi; per quanto io credo che si potrebbe di già cambiare, perchè fu inaugurata nel 1881. Per lo meno, non si potrà dire che Verdi, nella sua vita, abbia avuto un quarto d'ora di statua.

Ma, nel dire tutto questo, non intendo menomamente di diminuire l'importanza che ha e che merita il fatto, nuovo nella storia dell'arte, di un onore così grande reso ad un vivo. Anzi, aggiungo che non si poteva con nessuno, meglio che con Verdi, che è la più grande gloria vivente, rompere il pregiudizio e distruggere alla fine i due noti versi di Orazio, parafrasati troppe volte dai poeti di tutti i tempi e di tutti i paesi:

 
Virtutem incolumem odimus
Sublatam ex oculis quaerimus invidi.
 

Però, a me ora pare di essere qui a fare la figura della statua di marmo dell'atrio della «Scala.» Qualunque cosa io possa dire di Verdi, sia pure (magari per combinazione) superiore nel concetto ed elevata nella forma, apparirà sempre povera o piccina alla mente delle gentili signore e di tutti gli egregi qui convenuti, se ciascuno richiami appena nel pensiero la nobile fisionomia del nostro grande maestro.

Ed io non tenterò nemmeno di riuscire eloquente nel mio discorso. Sarebbe vana fatica. Già, prima di tutto, non ne sarei capace; eppoi, a che cosa mi servirebbe? Quale eloquenza può sussistere di fronte all'opera immensa di Giuseppe Verdi? Quale eloquenza può sostenersi al cospetto della sua persona, sintesi vivente delle sue creazioni, che ha portato superbamente fino ai giorni nostri i ricordi più belli dell'entusiasmo dell'arte e del patriottismo?

La vita, la storia artistica di Verdi parrebbe una leggenda, se ancora non fosse fra noi Lui, maraviglioso documento di quelle vicende che saranno credute favolose dalle future generazioni.

Ne ho letto di libri su Verdi! Ne ho letto di storie, di episodii, di aneddoti! Ma tutto mi è apparso infinitamente scialbo e meschino, quando mi sono trovato alla sua presenza. Il suo solo sguardo mi ha detto delle cose, mi ha suscitato nel cuore dei pensieri che non ho mai trovato, che non troverò mai in nessun libro.

Ed in questo momento l'animo mio è tutto pieno di quelle memorie, ma rimane paralizzato dalla coscienza della propria inettitudine ad esprimere i sentimenti troppo alti.

Chiedo, dunque, venia al cortese uditorio per tutto quello che nel mio dire apparirà disadorno ed anche non conveniente al soggetto ed all'uomo di cui si tratta. Resti nella mente di tutti soltanto l'idea dell'omaggio reverente che ho voluto tributare, accettando, forse con leggerezza, ma certo con tutto il cuore, l'incarico di questa conferenza.

A Verdi ho già domandato anticipatamente il perdono per l'atto che sto per compiere. Perchè sono sicuro di dargli un dispiacere. Ei non vorrebbe che si parlasse mai di Lui.

Quale è la persona che non ha sentito parlare della modestia di Verdi?..

Ma, a questo proposito, debbo fare una osservazione.

Sono già parecchi anni che io studio la modestia degli uomini (colla modestia delle donne non ho mai scherzato!), e potrei raccontare molti aneddoti che mi hanno sempre confermato le diverse qualità di modestia. Ma mi fermerò ad uno solo, che mi serve precisamente alla dimostrazione che voglio fare.

Un giorno del 1882 (anch'io comincio a citare epoche remote!) mi trovavo a Milano in casa del mio illustre maestro Amilcare Ponchielli, quando si presentò un giovane musicista che voleva sottoporre al giudizio del Maestro una sua composizione. Ponchielli non era punto di buon umore: afferrò sgarbatamente il fascicoletto che il giovane gli porgeva, e si mise a scorrerne le pagine, mugolando e borbottando. Il giovane musicista attese ansioso qualche minuto; e poi timidamente disse al Maestro: «Si tratta di un pezzetto senza importanza; una cosetta buttata giù alla meglio.» Ponchielli alzò la testa e, maltrattandosi terribilmente il pizzo caratteristico, si mise a gridare: «Ah, sì?.. Si tratta di una cosetta?.. Vuol fare il modesto forse?.. E perchè è venuto a mostrarmi questo nonnulla?.. I compositori debbono sempre aver fede nell'opera propria, e debbono sempre stimare capolavori le loro composizioni… Io non amo la falsa modestia.» E riprese a sfogliare le pagine, mugolando e borbottando. Il giovane era rimasto stecchito. Dopo poco, Ponchielli rialzò la testa e parve rabbonito. Restituì il fascicolo all'autore, e gli disse quasi dolcemente: «Lei è modesto; ma il suo lavoro è più modesto di lei.» Il giovane se n'andò subito, profondendosi in inchini ed in ringraziamenti; e mi parve che avesse preso per un complimento l'ultima frase di Ponchielli.

Per parte mia, da quel giorno, ho cercato tutti i modi per non essere modesto…

Ma, intanto, avevo potuto studiare questo caso di modestia che credo sia il più diffuso: un imbecille che fa il modesto davanti ad un uomo superiore, col solo fine di ottenere un elogio da lui, e di credersi, nella stupida vanità, a lui ed a tutti superiore.

Guardiamo invece, per sommo contrasto, la modestia degli uomini veramente grandi, quella modestia che è il solo raggio che si possa aggiungere alla gloria!

Verdi, togliendo anche di mezzo l'indole naturale, deve essere modesto per forza: perchè nessun inno di lode potrà destare in Lui il più piccolo sentimento di orgoglio: anche l'inno più grandioso sarà meschino agli occhi suoi.

Come potrà mai sentire ricordata la sua vita gloriosa, come potrà mai sentire raccontati tutti i suoi trionfi, senza che la sua mente non veda impallidita dal ricordo quella vita da lui stesso vissuta, senza che il suo cuore non trovi rimpiccioliti dal racconto quei trionfi da lui stesso riportati? È facile, dunque, comprendere lo stato di inquietudine dell'animo mio in questo momento: al dubbio di riuscire gradito al colto pubblico va aggiunta la certezza di dispiacere a Verdi.

A buon conto, gli ho chiesto perdono anticipatamente; ma non oso sperare di passarmela liscia. Me la potessi almeno cavare con una lavata di testa!..

Oggi io non devo parlare genericamente di Giuseppe Verdi e di tutta la sua luminosa produzione: l'attuale conferenza è limitata da due date, che nell'arte del nostro Grande e nella storia della nostra Nazione rappresentano due epoche. Dal 1849 al 1861: quale stupendo periodo di arte e di patriottismo! E quale mirabile fusione di nobili sentimenti nella espressione dell'anima e del genio di Giuseppe Verdi!

Nella visione subitanea dello svolgimento di tutto il periodo storico ed artistico, la mia mente, forse per effetto di costante ammirazione o forse per effetto di spontanea ispirazione, vedo tre punti capitali sui quali deve soffermarsi per la dimostrazione della sua idea.

E questi tre punti si trovano: al principio, alla metà ed al termine del periodo, che ne resta interamente abbracciato e diviso con simmetria: per quanto, rispetto alla produzione di Verdi, il periodo abbia fine nel 1859.

Primo punto, la Battaglia di Legnano (27 gennaio 1849); secondo punto, i Vespri Siciliani (18 giugno 1855); terzo punto, Un Ballo in Maschera (17 febbraio 1859).

Se l'idea di parlare primieramente e specialmente di queste tre opere può sembrare a prima vista strana o non giustificata, si pensi che devo occuparmi di un periodo della vita italiana tutto pieno di santo amor di patria: e si pensi all'influsso potente che la musica di Verdi seppe esercitare sopra ogni cuore italiano.

Ho scelto i tre punti capitali perchè: il primo rappresenta tutta la trepidazione, tutta la commozione, tutto l'ardore di un popolo oppresso ed anelante alla redenzione; il secondo rappresenta il trionfo dell'arte italiana all'estero, anche esplicata in un soggetto glorioso per l'Italia e nefasto per il paese che lo domanda; il terzo rappresenta il supremo entusiasmo di una nazione intera, che, eccitata dal genio di Verdi, nel nome di Verdi combatte l'ultima battaglia e vince.

Quando scoppiò la rivoluzione italiana del 48, Verdi era a Parigi; alle prime notizie della gloriosa insurrezione di Milano, il suo animo generoso non resse: e partì per l'Italia. Si fermò a Lione dove sapeva di trovare una lettera di un amico che gli doveva dire le ultime vicende della sua patria. Trovò, infatti, la lettera e conobbe il doloroso voltafaccia delle cose. Rattristato dalla delusione della sua fervida speranza di arrivare a Milano e salutare libera la città dei suoi primi successi, restò alcuni giorni a Lione; ed all'amico che gli aveva mandato la sciagurata notizia rispose semplicemente: «Spero che avrete fatto il vostro dovere.»

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
22 ekim 2017
Hacim:
110 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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