Kitabı oku: «La vita italiana nel Trecento», sayfa 14
DANTE NEL SUO POEMA
DI
ISIDORO DEL LUNGO
I
Signore e Signori,
Era un esule fiorentino, che, or or fanno sei secoli, traeva seco in doloroso pellegrinaggio le sventure e la parola d'Italia. E “poichè fu piacere„ scriveva “della bellissima e famosissima figliuola di Roma, Fiorenza, di gettarmi fuori del suo dolcissimo seno… per le parti quasi tutte alle quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicante, sono andato, mostrando, contro a mia voglia, la piaga della fortuna„. Le sventure d'Italia erano con quel cittadino, che le discordie della sua terra avevano, come tanti altri d'ogni terra italiana, balestrato in esilio, strappatagli la famiglia, divietatagli la vita civile: la parola e il pensiero d'Italia erano col Poeta, che affinando e sublimando nelle ispirazioni della sciagura quelle del tempo felice, i fantasmi giovanili d'amore idealizzava in figure di universal significato, civile, religioso ed umano; da' suoi affetti di cittadino, di partigiano, di fuoruscito derivava il concetto e il sentimento d'una patria virtuosa, libera e giusta; l'idioma dei volghi inalzava, laico ardimentoso, alla dignità del latino, e ne faceva verbo di scienza; e il volgare suo nativo, la favella dell'“ingrato e maligno„ suo popolo, il volgar fiorentino, consacrava in una grande opera d'arte siccome lingua della nazione; questa lingua che egli sentiva “stendersi„ alle parti anche remote ed estreme della grande patria italiana ed era vincolo tenace che le collegava per la futura unità. E perchè nulla, a rappresentare in sè l'Italia de' tempi suoi, e le inconsapevoli energie della nazione verso un'Italia avvenire, mancasse in quest'uomo, egli e la parte sua popolare e guelfa erano le vittime nobilissime delle politiche ambizioni della teocrazia romana, e de' mercimonii di questa coi protettori stranieri: egli e la parte sua de' Guelfi Bianchi, che la resistenza a coteste impure ambizioni avea cacciati fra i Ghibellini, erano gl'idealisti dell'Impero; di quella gigantesca ombra del nostro passato, nella quale l'Italia, affermando a nome d'un diritto fittizio il primato antico, veniva, qualunque ella si fosse in effetto, ad affermare sè stessa.
Tali concetti e sentimenti, negli ordini del pensiero e dell'azione, della lingua e dei fatti, della scienza e dell'arte, simboleggia a noi il nome di Dante. E nella schietta e gagliarda italianità di questo simbolo la patria nostra ha ricercato il proprio essere, verso quel simbolo luminoso è stata da' suoi più alti intelletti ricondotta, ne' secoli dolorosi del suo servaggio e dello alienamento da sè medesima; in quello ha costantemente ritemprato il suo pensiero, rinvigorito il sentimento, custodita e difesa, come arra di rivendicazione, la santità dell'idioma. Il nome di Dante ha sonato sempre e suona nelle nostre famiglie, nelle scuole, nelle piazze stesse e ne' campi alle plebi lavoratrici, come un che di supremo, in cui si raccoglie quanto ha di più geniale, di più domestico, la mente e il cuore della nazione, quanto di più intimo e perenne è nelle tradizioni di lei. Di nessun libro fu pronunziato il titolo con egual riverenza, sin dal secolo stesso dell'autore, e con sì profonda religione, come della Commedia, che non esso l'autore, ma i dopovenuti, chiamaron divina; per nessun libro, così spontaneamente e con altrettanta popolarità si fece un sol nome del libro e dell'uomo, il Dante.
E veramente è un uomo in quel libro. Ma perchè quell'uomo vi è per ciò che fu nella vita reale, e per l'idealità dietro le quali visse cotesta vita, è accaduto che quanto si andava, nel volger dei tempi, perdendo della notizia e del sentimento di quella realtà, dalla quale ci venivamo sempre più allontanando, altrettanto si sostituisse, nell'interpretare uomo e libro, di idealità più o meno infedeli e di sentimento soggettivo. Il che ebbe principio, insieme con l'ammirazione e il culto, fin da' tempi stessi dell'Alighieri, e quando ancora “eran calde le sue ceneri sante„. E anche solo a confrontare ciò che con tanta semplicità, ma con sì profondo sentimento del vero, scrive in ricordanza di Dante, di “questo Dante, onorevole e antico cittadino “di Firenze di Porta San Piero e nostro vicino„, Giovanni Villani nella sua Cronica, a confrontarlo con la biografica laudazione che pochi anni più tardi ne congegna il Boccaccio, si vede come in quella pagina di cronica un artefice vissuto con Dante delinea e colorisce una figura viva; subito dopo incominciano i ritratti di maniera, incominciano appunto con la biografia boccaccevole. I tratti di quella irosa vecchia laureata, che Raffaello eternò sotto il nome di Dante Alighieri negli affreschi vaticani, primo a disegnarli può dirsi essere stato il gran novelliere e umanista fiorentino. Nel capitolo del Villani abbiamo quelli nei quali, per l'arte di Giotto, Dante, effigiato fra altri uomini del tempo suo nella città sua, è rivissuto autentico a' giorni nostri, da una parete del Palagio del Potestà. La benaugurata restaurazione degli studi danteschi, la quale è certamente uno de' principali vanti della moderna letteratura civile, ha ormai posto per uno dei sommi principii suoi, che nella interpretazione d'un'opera, com'è la Divina Commedia, dall'un capo all'altro compenetrata della viva e genuina personalità dell'autore, a poco di vero e di positivo approdano gli studi più o meno ingegnosi sul testo, se non si abbia altresì ben presente, che sopratutto rivivendo ne' tempi del Poeta, con lui rivivendo, è possibile appropriarci, far nostro, il sentimento col quale Dante volle essere nel suo Poema, quello che fu nella vita. Di questo Dante nel suo Poema, del Dante storico, del Dante di fatto, quale nella sua poesia riproduce sè stesso io mi accingo a rinvergare le linee. Assommerò per capi principalissimi, e limiterò la materia a quelle sole parti che, in un poema tutto personale per eccellenza, sono le più strettamente personali: per sommi capi, dico, e dentro quei limiti che il tempo e la discrezione impongono a chi non deve abusare della benevolenza, la quale invoco, di un così eletto uditorio, e specialmente della vostra, Signore gentili.
II
Poichè il Poema di Dante, concepito con intendimento mistico verso una figura (Beatrice) e un affetto reali, svolge e atteggia, intorno a questa figura e a questo affetto sovrani, la realtà umana in universale, ma con molto maggiore abbondanza e rilievo di figure e concentramento d'interesse la realtà storica contemporanea; il protagonista di tale rappresentazione non lo possiamo pensare in guisa diversa che come uomo nel quale questa realtà odierna s'individua, per lo meno, tanto potentemente, quanto negli altri personaggi che con lui convissuti egli nel Poema introduce con sè. È questa una necessità estetica del concepimento dantesco, la quale informa e caratterizza la figura di lui che vi opera. Dante, nell'azione del Poema, è l'uomo, la creatura umana, che tende al divino: ma l'uomo del tempo suo: e poi l'italiano; e ancora, il fiorentino; del tempo suo, sempre: anzi è egli stesso lo scrittore, è Dante Alighieri, il cui proprio nome in un luogo solo del Poema, e solamente “per necessità, si registra„, ma la vita sua co' suoi affetti e i pensamenti e i dolori e le colpe quel Poema l'occupa tutto: quel Poema al quale il Gozzi, sotto tale rispetto, foggiava, secondo lo stampo tradizionale, come appropriatissimo, il titolo di Danteide.
E poichè quel vasto rappresentamento della realtà storica contemporanea, al quale diciamo essere ordinato tutto il Poema, si eseguisce mediante episodi lungo lo spiritale viaggio; nei più gagliardi e vivaci di cotesti episodi, dove o il suo cuore d'uomo e di cittadino batte più forte, o la virtù sua di pensatore si leva dietro questi affetti più vigorosa e ferisce più in alto, stanno le linee del ritratto che di sè ci ha lasciato Dante nel Poema immortale.
III
Dante (permettete che brevemente vi ricordi) visse lai 1265 al 1321. Nato da famiglia di Grandi, e d'antica cittadinanza, in Firenze, poco prima che la parte sua Guelfa, sbanditane nel 1260, nel 67 stabilmente vi restaurasse la propria potenza; crebbe egli durante l'espandersi di questa in forme di governo artigiano e progressivamente democratico: accettò quelle forme, e col farsi popolano partecipò al reggimento. Divisi i Guelfi fiorentini in Bianchi e Neri dietro due potenti famiglie Cerchi e Donati; Guelfi temperati i Bianchi, gelosi della indipendenza del Comune, e a questo patto non alieni da conciliazioni coi Ghibellini; Guelfi radicali i Neri, e strettamente legati con la Corte di Roma non senza pregiudizio e pericolo di quella indipendenza; Dante, co' migliori cittadini, è dei Bianchi: cade con essi; e la proscrizione che lo colpisce nel 1302, lo distacca da Firenze per sempre. Il Poema, la cui prima ispirazione antecede all'esilio ed è connessa con le visioni amorose della Vita Nuova, fu scritto durante questo: e all'esilio certamente appartengono il Convivio, commento scolastico alla sua lirica amorosa ed etica; e la Volgare Eloquenza, trattato latino dove, pure con forme scolastiche, indaga e determina le potenze dell'idioma italiano alle opere letterarie: di dubbia data l'altro trattato, pure latino, De Monarchia, su l'autorità imperiale e le relazioni sue con la ecclesiastica.
La vita di Dante, da quanto ne conosciamo e che al desiderio nostro e al bisogno è sì poco, la vita nel mondo vissuta da quest'anima, la quale parve accogliere in sè le virtù più efficaci, i più geniali caratteri, dell'età e della patria che furono sue, appartiene, per la gioventù, alle rime d'amore, al servigio in armi del suo Comune guelfo, all'addottrinamento: per la virilità, alle cure e alle passioni civili, nelle fazioni e nei magistrati di quel medesimo Comune parteggiante fra Guelfi Bianchi e Guelfi Neri, che è il più breve periodo e culminante, e che l'esilio interrompe: per i successivi anni, all'esilio. Intorno a ciascuno di questi aspetti di Dante nostro, dai tre regni ch'egli ha architettato e popolato, si aggirano, figure riviventi intorno a lui vivo, persone a lui note ed egli a loro; e il luogo in quello o questo de' regni eterni ad esse assegnato le caratterizza per ciò che furono e fecero, e che il Poeta pone in relazione con ciò che ha fatto ed è egli. Quindi su loro, e sulla vita da lui insieme con loro vissuta, la poesia dantesca concentra sentimenti di pietà e di sdegno, di reverenza e di dispregio, d'amore e d'odio; e gioie, e dolori, e memorie, e pentimenti, e rimpianti, e disinganni, e speranze; e soavità di preghiere, e asprezza di scherni, e lacrime di patimenti, e violenza di rinfacci, e maledizioni feroci: onda che si rimescola e bolle entro l'animo del Poeta, per traboccarne impetuosa, o pianamente diffondersi, ne' suoni, a tanta varietà di contenuto con mirabil magistero appropriati, d'una poesia che rimane unica al mondo.
IV
I due Poeti sono sulla spiaggia appiè del Purgatorio, in cospetto della marina che tremola a' primi raggi dell'alba. Un lume rosseggiante, con non so che di bianco intorno, si fa visibile sull'orizzonte, e rapidamente s'appressa: è la navicella angelica, e porta le anime che dalla foce del Tevere sacro hanno navigato verso il luogo d'espiazione che dee prepararle alla gloria. Approdano, sbarcano; s'accorgono di Dante, che non è, come son esse, spirito spoglio del corpo; si maravigliano: una di loro si fa avanti; l'un Fiorentino riconosce l'altro; fanno atto, inutilmente, d'abbracciarsi, come una volta nel mondo; e Casella, a richiesta di Dante, intona le note musicali che già appose ad una delle canzoni del Convito “Amor che nella mente mi ragiona„. L'arte, onnipotente anche nel mondo d'oltre la tomba, s'impossessa di tutti quanti là sono ad ascoltarlo: le anime dimenticano il Purgatorio che le aspetta; Dante e Virgilio, il viaggio; se non fosse l'aspra voce di Catone, che li richiama tutti al dovere, e ciascuno al proprio destino. – Altrove, asceso il sesto girone della sacra montagna, fra il verde delle piante cariche di frutta, a martirio e purificazione de' golosi, e innaffiate di acque zampillanti, un rimatore, Bonagiunta da Lucca, anch'egli riconosce in Dante il “cominciatore delle nuove rime„, e Sei tu (gli dimanda) l'autor della canzone “Donne ch'avete intelletto d'amore?„ Al che rispondendo Dante, Io son poeta che a dettatura d'Amore scrivo quel che sento; fa che il rimator di maniera bonamente confessi la cagione della inferiorità sua e degli altri di quella scuola. – Altrove, ancora, ma in luogo ben diverso, nel girone sabbioso de' violenti contro Dio, la natura e l'arte, sotto la pioggia del fuoco infernale, Brunetto Latini ravvisa e con amorevolezza paterna saluta il giovane concittadino, e gli ricorda la ben promettente giovinezza, e questi a lui, con reverenza di figliuolo, gli ammaestramenti e i conforti ricevutine al sapere e alla gloria, che l'altro gli conferma non essere, congiuntamente con la sventura, per fargli difetto: con la sventura, che il maestro prognostica, e il discepolo con franco e sicuro animo accetta, dall'inimicizia della malnata loro cittadinanza. – Da quella cittadinanza, pur riconoscendo ancor esso il concittadino, e “l'altezza d'ingegno„ sua ricordando, da quella cittadinanza astrae, come già in vita nei superbi trascendimenti della filosofia negatrice, messer Cavalcante, sepolto coi miscredenti nel cimitero infocato sotto le mura di Dite; e in Dante non vede se non l'amico del figliuol suo, di Guido poeta; e del figliuolo, non d'altri nè d'altro, gli chiede, “Mio figlio ov'è? e perchè non è teco?„: e nella risposta di Dante, la figura di Guido passa disdegnosa e solitaria, ravvolta nelle ombre d'un verso, come l'anima sua, misterioso. – Ritorniamo a quel sesto balzo del Purgatorio: dove, prima che da Bonagiunta, il Poeta è stato ravvisato, e con troppo maggior cordialità e commozione, da un affine e compagno di vita giovanile, Forese Donati. Forese, al rivederlo, grida “Qual grazia m'è questa?„, come già Brunetto: “Qual maraviglia!„: e Dante ripiange le lacrime sparse quattr'anni avanti per la morte di quel suo carissimo; e ricordano insieme la famiglia e la patria; e insieme si vergognano e si senton gravati di avere, trascorrendo dietro le mondane follìe, partecipato giovenilmente al malcostume fiorentino: e contro questo, Forese, il libertino pentito, inveisce, e del suo pentimento e della grazia da Dio usatagli fa tributo di gratitudine e di amor coniugale alla vedovella sua che ha pregato per lui, alla Nella virtuosa: e Dante, che i tesori di quella grazia fruisce ancor vivo, nomina Colei per la quale gli sono largiti, la donna sua ideale che a sè lo ho ricondotto; col nome suo di persona, e di persona famigliarmente nota, la nomina a Forese, il che non ha fatto con altri: “io sarò là dove fia Beatrice„. – Ed è con Beatrice quando nella stella amorosa di Venere, per entro ad uno di quei fulgori, gli parla lo spirito del giovine principe Carlo Martello d'Angiò, da lui conosciuto, e l'uno all'altro affezionatisi, nella breve e pubblicamente festeggiata dimora che questi fece in Firenze la primavera del 1294: ed anche a questa memoria di giovinezza congiunge il Poeta le dolci sue rime d'amore: e si fa da Carlo, angelicatosi in quel terzo cielo, ricordare l'altra Canzone del Convivio, “Voi che intendendo il terzo ciel movete„, e l'affetto di che s'eran presi, in quel fuggevol conoscersi, egli e cotesto Angioino degenere dalla stirpe sua trista. – Altra conoscenza cara, pur di quelli anni, gli si rinnova nel Purgatorio, nella fiorita valletta de' Principi: Nino giudice, il Guelfo pisano, e nella guerra guelfa contro Pisa tutto cosa dei Fiorentini, e da città a città della Lega continuo sommovitore di maneggi e d'armi; e tuttavia, in tanto arrovellarsi civile e guerresco, gentile spirito, dischiuso ai miti affetti di sposo, di padre, d'amico; e questi nelle parole che Dante gli pone in bocca rivivono: ma nulla vi si risveglia, di quelli altri più fieri e tempestosi, in che si trovaron pure mescolati i due giovani partigiani. – Della guerra guelfa, alla quale nessun Fiorentino che l'età facesse atto o a' Consigli o alle armi potè fra il 1284 e il 93 essere estraneo, della guerra guelfa imagine espressa è invece, sanguinosa imagine e reminiscenza, Bonconte di Montefeltro che al Poeta parla di Campaldino, e della battaglia, tra' cui furori e lo imperversare degli elementi sparisce il suo corpo travolto dal diavolo, mentre dell'anima pentita trionfa l'angelo salvatore.
Di tutti questi episodi che trascelgo al nostro proposito (e se da ciascuno di essi, più che frasi sparse, il tempo mi concedesse addurre versi e terzine, voi cambiereste davvero con vantaggio la mia povera prosa), di tutti questi episodi è evidente il carattere soggettivo, e la loro relazione, anche di quelli dove non è esplicita, con l'uomo la cui giovinezza fu coetanea a que' personaggi e a que fatti; e come a ciascuno di tali episodi il Poeta affidi alcuna parte di ricordanze di quella sua giovinezza; e come dal convergimento delle loro linee si componga, e alla luce che l'affetto vi riflette si colorisca, la imagine viva di cotest'uomo in quelli anni. L'azione poi nella quale Dante, attraverso a quelli e a tutti gli altri episodi del Poema, protagonizza, si aggira tutta quanta e si svolge intorno al più gentile, al più ideale, di quei giovanili fantasmi: Beatrice. Beatrice, che manda Virgilio a soccorrer Dante nella selva mondana; Beatrice, che nella selva paradisiaca gli rimprovera le sue colpe e ne ottiene il pianto della confessione contrita; Beatrice, che seco lo solleva alle sfere celesti per condurlo sino alla visione del mistero supremo; essa stessa lo designa per “l'amico suo„ sventurato, essa sola di tutti i personaggi del Poema lo chiama per nome (ed è quel solo luogo dove si pronunzia il nome di lui), essa ricorda pudicamente le “belle membra„ nelle quali gli piacque, gli “occhi giovinetti„ amorosamente “mostratigli„, i virtuosi “desiri„ che il “sommo piacere„ della sua bellezza mortale ispirava nel giovine, le visioni dopo morte rivocatrici di lui al bene: essa è insomma anche nella Commedia la Beatrice della Vita Nuova; tanto è quella Beatrice, che forse anche la ministra di lei alla purificazione di Dante in Lete e in Eunoè, la “bella donna„ amorosa che “sceglie fior da fiore„ nel maggio perpetuo del Paradiso terrestre, quella Matelda di sì controversa identificazione storica, è, forse, una delle gentili figure femminili essa pure, una delle gentildonne fiorentine, della Vita Nuova.
L'arte, l'amore, la scienza, la patria, irraggiano di sè quella giovinezza lieta e pensosa. La musica di Casella, che rinnovata su la spiaggia dell'isola sacra si perde nella deserta immensità dell'Oceano, fu in altro tempo raccolta dalle donne leggiadre, dai giovani innamorati, festeggianti il maggio ne' verzieri de' grandi turriti palagi, o lungo le rive d'Arno feconde, o sulle colline di Fiesole rosee al tramonto primaverile; quelle note vestirono la poesia fiorentina del “dolce stil nuovo„ tenue e carezzevole in ser Lapo Gianni, incisiva e fantastica col Cavalcanti, informata da Dante al vero sentito nell'anima: e Vanna, Lagia, Beatrice, ispiratrici, se ne compiacquero. – Quel principe giovinetto, mancato, come il Marcello virgiliano, a' suoi alti destini, e il cui spirito è tratto ora in giro co' “Principi celesti„ nella roteazione delle sfere intorno all'“Amor che le muove„, fu in Firenze, splendido di gioventù e di potenza, venuto da Napoli incontro al padre che tornava d'oltremonti, dallo adoperarsi nelle pratiche di pace ch'eran susseguite alla guerra dei Vespri. Si accalcava la cittadinanza repubblicana intorno a que' suoi Angioini, “sangue della real Casa di Francia„, che la fantasia popolare avvolgeva ne' bagliori cavallereschi de' romanzi e delle canzoni di gesta, circonfondeva del nimbo religioso de' Cristianissimi, non disingannata nè allora nè poi, fatalmente, dalle rapine emungitrici, dagl'infidi patronati, dai simoneggiamenti con la Corte di Roma: e il re giovinetto passava per le anguste vie della città operaia, all'ombra de' forti arnesi di vigilante guerra domestica, dinanzi alle botteghe di quei mercatanti magistrati, addobbate della lor propria industria co' panni di Calimala e le sete di Por Santa Maria: da' balconi e dalle loggie, di sotto alle ampie protese tettoie, di mezzo agli archi flessuosi, dalle finestre ogivali, raggiava nel sorriso delle sue donne la idealità di Firenze artista. Passava il re d'Ungheria, se ne ricorda il Villani, “con sua compagnia di duecento cavalieri a sproni d'oro, franceschi e provenzali e del Regno, tutti giovani, vestiti col re d'una partita di scarlatto e verde bruno, e tutti con selle di una assisa a palafreno rilevate d'ariento e d'oro, coll'arme a quartieri a gigli ad oro e accerchiata rosso ed ariento, cioè l'arme d'Ungheria, che parea la più nobile e ricca compagnia che anche avesse uno giovane re con seco. E in Firenze stette più di venti dì, attendendo il re Carlo suo padre e' fratelli; e da' Fiorentini gli fu fatto grande onore, ed egli mostrò grande amore a' Fiorentini, ond'ebbe molto la grazia di tutti.„ Di questa “grazia„ ne' versi di Dante risuona l'eco immortale: “Assai m'amasti, ed avesti bene onde„, che paion inchiuder fiducia del Poeta in una Corte angioina, se Carlo Martello fosse vissuto, ben diversa da quella che poi ebbe ospiti il Petrarca e il Boccaccio. – Quel giovine fiorentino pervenuto ormai “al mezzo del cammin di nostra vita„, che non osa andare a pari con quel vecchio dannato, e dinanzi a lui inchina reverente la testa, ascoltò su nel mondo, in più verdi anni, con egual reverenza la parola di cotesto savio uomo, e fu de' meglio disposti a quel “digrossamento della cittadinanza„, che questi, ser Brunetto Latini, veniva operando con lo interpretare a' laici la parola de' filosofi, de' retori, degli oratori antichi, o col popolareggiare nel diffuso volgar di Francia, nella “prosa de' romanzi„ lo scibile delle scuole e de' chiostri, e farne “tesoro„ accessibile a tutti. In quelle sposizioni della sapienza antica, dischiudevansi all'animo del giovine le visioni della gloria, del “come l'uom s'eterna„: e l'umanista di Firenze artigiana, lo scolastico errante ne' venturosi esigli, il dettator del Comune nella lingua augusta de' padri, compiacevasi di vedere che quel terreno, tuttavia malagevole alla nuova cultura, producesse spontaneo cosiffatte piante, nelle quali “riviveva la sementa santa di Roma„, che dalle nebbie estreme, lentamente sfumanti, della grossa età medievale, si sprigionasse, ombra in sogno dell'imminente Rinascimento, l'imagine di quella universal patria delle genti civili. – Insieme con cotesto giovine di grandi speranze, e “dietro sua stella incamminato a porto glorioso„, ascoltava volontario discepolo anch'egli, ma assai men docile, come a sofferire gli ordinamenti della novella democrazia, così ad accogliere gli ammaestramenti e gli esemplari della civiltà antica, il più caro degli amici suoi, quel Guido Cavalcanti che l'anima del padre, dal mondo di là nel quale non credettero, chiama ora con voce di affetto desolato. Furono lungamente insieme e ne' loro più belli anni della vita mortale; perchè non sono essi insieme a traversare le regioni dell'altra, que' due compagni di gioventù, d'amore, di rime, di parte? Il confidente e partecipe delle visioni amorose; il solutore o, a vicenda, proponitor dei quesiti formulati secondo i dettami del trovare; l'amico, pel quale nell'idioma delle donne gentili la Vita Nuova fu scritta; il compagno d'arte a cimentare le virtù di questo idioma dietro l'orma, che essi sopravanzeranno, del massimo Guidi Guinicelli; come non essere con Dante suo là, dove alle visioni dell'anima è dischiuso l'infinito e l'eterno, dove il più arduo e tormentoso dei problemi ha risposte d'assoluta certezza; in cotesto viaggio, il cui “arrivare„ sarà alla donna di quella Vita Nuova, alla donna di quelle rime del nuovo dolce stile d'amore? Ahimè, troppo è sfiorito, troppo è inaridito, troppo è caduto, di quelle idealità giovanili! Troppo presto è morta Beatrice; troppo presto quelli “occhi giovinetti„ si chiusero, e “le membra belle si fecero terra!„ E la terra ha tirato a sè l'amante infedele: lo hanno traviato le voluttà del senso volgari; e il verso che attratto dal sorriso e dal saluto di Beatrice s'inalzava sino alla patria degli angeli dov'ell'“era desiata„, ha, dopo il ritorno di lei colassù, abbassate le “penne gravate„ giù nelle “vanità brevi„ mondane: peggio ancora, ha sogghignato e motteggiato nel gergo equivoco de' trivii, tenzonando con Forese, non già, come con Guido e Lapo e Cino, sulla spirituale casistica del “diritto amore„, ma sulle avventure dell'amor “folle„ e randagio, sulle realtà, e turpi realtà, della vita quotidiana. Allora, di quella “vita vile„, di quei “vili pensieri„, schivo e sdegnoso, Guido si è ritratto in disparte; altre cose ancora comprendendo in quel suo altero dispregio, ciò erano le cure civili, la partecipazione al governo artigiano del loro Comune, dietro le quali la giovinezza di Dante ha rotto fede alla idealità che ambedue avevano vagheggiato concordemente. Il distacco che si compie tra Guido, il quale resta de' Grandi e persona speculativa, e Dante, il quale si fa uomo di popolo e magistrato; tra Dante che si troverà a sentenziare ed eseguire contro que' Grandi, e Guido ad esserne percosso; neanche potrà cessare, il giorno che Dante, dissonnatosi da quel suo aggirarsi sonnambulare entro la selva delle cose mondane e fallaci, ritornerà per la “diritta via„ alle verità ideali, a Beatrice: perocchè tale ritorno si opera mediante la fede dell'uomo e la grazia di Dio; e Guido è escluso da questa, perchè ricusatore di quella. De' due ascoltatori di ser Brunetto, Dante solo ha potuto farsi seguace al Virgilio che nel mondo dello spirito riconosce e in sè rappresenta la deficienza del sapere umano, anche sublimato sin al grado più alto, di fronte alla rivelazione divina: perocchè Guido si è rinchiuso dentro la speculazione umana, del tutto umana, se non in quanto lo spirito della poesia aleggia su quella materia, e di là ha da sè respinto del pari e i contrasti e le brighe della vita attiva, e, negli ordini della speculazione, le supreme conciliazioni della filosofia religiosa; laddove Dante, dalle idealità e dalle affettività soggettive, passato, od anche, se vuolsi, disceso, alle realità della vita attiva e operante, deviatosi fors'anco dietro i “difettivi sillogismi„ di quella medesima scienza dubitatrice e terminativa in sè stessa, ha poi ritrovato nel cuor suo memore e non corrotto la energia delle prime e pure idealità, e sulla traccia di esse, scorto dalla Scienza sì delle cose umane e sì delle divine si è ravviato verso quella verità comprensiva di tutti gli aspetti di ciò che è, di tutte le dissonanze armonizzatrice, “che saziando di sè, di sè asseta„. E da quelle altezze, donde non vorrebbe esser mai disceso, guarda con occhio di severo giudice il proprio passato; con umiltà di penitente se ne confessa ed accusa.
Ma di cotesto passato, che la Beatrice teologale gli rinfaccia con durezza d'inquisitore, ma della cara sua giovinezza, lasciate al Poeta le ricordanze de' giorni, ne' quali egli contribuì il vigore degli affetti suoi e del braccio alla vita, che era anch'essa una gioventù, alla vita battagliera del suo glorioso Comune; lasciategli il suo Carlo Martello, il suo Nino giudice, il suo Campaldino. Sia pure che a cotesti fantasmi del proprio passato, si riaffacci egli tutt'altro uomo da quando ci visse in mezzo e operò: al mistico viaggiatore, nel riveder Nino Visconti, occorra innanzi tutto il pensiero, e sia prima e maggiore allegrezza, che cotesta anima, pericolata dell'eterna salute tra le fazioni sanguinose e le gare frodolente, nelle sinistre ambizioni del potere e ne' rancori dell'esilio implacabili, cotesta gentile anima, è salva; e salvo è Bonconte, il prode cavalier ghibellino, caduto in battaglia col dolce nome di Maria sulle labbra. Ma quella battaglia, nell'atto che Bonconte gli parla, quella battaglia, nella quale a Toscana tutta si decideva del suo esser guelfa o ghibellina, Dante se la vede ancora turbinare dinanzi, ne ascolta ancora il fragore; palpita nuovamente, fra il timore e la gioia, “pe' vari casi„ che si successero in essa; gli pesa quasi sui sensi quell'afosa giornata estiva, con l'aria gravida di procella, che poi si scatenò sulla fuga de' Ghibellini sconfitti, e accompagnò la caccia spietata data a questi dai vincitori. Egli ha veduto “corridori e gualdane sulla terra vostra, o Aretini„; ha veduto uscir di Caprona i fanti ghibellini che han patteggiata la resa con una delle tante osti fiorentine sommosse da Nino contro la sua Pisa, e in quella oste si ricorda aver egli Dante cavalcato con gli altri del Sesto suo di Porta San Piero. E a siffatti ricordi, nel Dante austero e trasfigurato del viaggio spiritale, Dante giovine rivive e sottentra: rivive cittadino e gentiluomo, rivive milite di Firenze sua, fra le cavalcate dell'oste guelfa; capitani di guerra, sotto la comunal bandiera del giglio che i Ghibellini hanno insanguinato, messer Vieri de' Cerchi e messer Corso Donati, non ancora capiparte l'uno contro l'altro nella città per odio nuovo divisa, e in nuovi travagli, in nuove colpe condotta, a nuove espiazioni serbata.