Kitabı oku: «La vita italiana nel Trecento», sayfa 15
V
E l'altro aspetto del Dante storico emerge da questa nuova malaugurata disposizione di avvenimenti, e per altri episodi o per altre, talvolta anche fuggevoli, imagini è lumeggiato nel Poema. La vita civile di Dante, che è essa quest'altro aspetto di lui nel Poema, la vita sua di poco più che un lustro, fra gli ultimi anni del XIII secolo e i primi del successivo, questi e quelli tempestosissimi, comprende l'opera di lui ne' Consigli, nelle commissioni pel Comune, nel Priorato, e il suo mescolarsi tra i Bianchi nelle fazioni della città guelfa, co' Bianchi difendendo la indipendenza del Comune contro le violenze di papa Bonifazio e dell'instrumento suo Carlo Valese, e co' Bianchi terminando involto nella loro caduta. Per tal modo la vita civile di Dante è, nel breve periodo ch'ella occupa, quasi non altro che una preparazione all'esilio, o piuttosto un precipitare verso di esso: e le imagini per le quali nel Poema e vita civile ed esilio riflettonsi, si mescolano siffattamente e s'intrecciano, da non potere la osservazione, sia storica, sia estetica, separar ciò che uno è nella intenzione del Poeta, come nella realtà dei fatti dolorosamente fu uno.
Riconosciuto da Ciacco siccome un dei “cittadini„ di buona famiglia (“buoni e gentili uomini della città„ dicevano), de' quali al parassita era altresì nota per lungo uso la mensa, da lui primo gli è nell'Inferno non nominata Firenze, ma indicata con amara perifrasi “la città piena d'invidia„, cioè d'odio fraterno: e di questo, che è già al colmo sicchè ormai “il sacco trabocca„, Dante si fa predire le imminenti catastrofi, per le quali dee consumarsi, fra l'anno che corre 1300 e il 1302, la scissione di parte guelfa in Bianchi e Neri. Son per “venire al sangue„: i Cerchi cacceranno i Donati: poi questi, parte Nera, trionferanno di parte Bianca, e la terranno soggetta: la cittadinanza ha appena due giusti sui novantamila che la compongono, e quelli non sono ascoltati: in fondo alla scena del dramma che si apparecchia, veglia, cupa sinistra figura, il Pontefice, che in apparenza “piaggia„, si sta di mezzo, fra le due parti, ma giunto il momento, farà preponderare quella, e la men degna, con la quale è segretamente legato. È la prima predizione di sciagure civili che percuote l'animo di Dante, là nella trista pianura intronata dai latrati di Cerbero trifauce, flagellata dalla pioggia sporca sotto la quale giacciono nella melma fetente i ghiottoni.
E poco si fa aspettar la seconda: la quale Dante riceve non dalla bocca lorda di Ciacco, che lo guarda con occhi stravolti, e ciondolando la testa ricade giù al suo gastigo, ma da Farinata magnanimo. Si affaccia l'Uberti alla tomba infocata, con superba noncuranza de' tormenti infernali; altero della sua vecchia fede ghibellina, per la quale ha dato anche l'eterna salvezza; pronto a disperdere, se potesse, una terza volta i Guelfi esecrati. Il giovine guelfo, che gli sta, non meno baldanzoso, dinanzi, raccoglie quella allusione alle cacciate anche de' suoi Alighieri, e crudelmente motteggia sugli Uberti che hanno finalmente disimparata “l'arte„ del ritorno. Ma Farinata ribatte il motteggio con la visione che egli ha di un non lontano avvenire: i Guelfi Bianchi tentare affannosamente di forzar le porte della città che gli ha cacciati; ed esserne dai Guelfi Neri respinti: “tu saprai quanto quell'arte pesa„. Poi, non senza una nota d'affetto che quasi oscilla in quella fiera voce di partigiano, gli chiede ragione dell'odio senza tregua al quale Firenze ha in modo speciale e nominatamente consacrati, come per anatema, gli Uberti. Al che Dante ricorda l'Arbia sanguinosa: ma Farinata il consiglio d'Empoli, e sè rimasto “solo„ a difendere dai furori matricidi la patria, “Fiorenza„: e nel nome materno di lei paiono acquetarsi dall'una parte e dall'altra gli sdegni; e Dante s'inchina dinanzi al “magnanimo„ augurando alla sua travagliata discendenza riposo. E non senza sgomento della predizione, che questa volta è a lui personale, continua il viaggio pe' regni eterni.
Anche più personali le affettuose anticipazioni che del doloroso avvenire gli fa ser Brunetto: la città partigiana inimicarsi tutta quanta all'uom virtuoso, degno di ben altra cittadinanza; opposte fazioni anelare con pari ferocia allo strazio di lui: “tanto onore„, gli dice con filosofica alterezza il Maestro “la tua fortuna, tanto onor ti serba„. E Dante con gagliardo animo scrive anche quel testo; e a Beatrice, quando giungerà a lei, ne riserba la chiosa.
Ma non degna di tanto, sebbene imprecatagli contro e proprio in pieno petto scagliatagli (“e detto l'ho perchè doler ten debbia„), la predizione che Vanni Fucci gli fa d'uno di quelli episodi guerreschi ne' quali si consumarono, tra vane speranze, i primi anni del suo esilio: e l'accenno a quella rotta di Bianchi per un Malaspina capitano della Taglia guelfa Nera, si perde fra le bestemmie del pistoiese feroce, soffocate dall'avvinghiarglisi al collo i serpenti della settima bolgia. Così pure una rapida e indiretta allusione al suo esilio, con la quale Corrado Malaspina gli prenuncia le cortesie ospitali de' potenti Marchesi; e l'altra con che Oderisi da Gubbio gli fa presentire le strettezze e le umiliazioni di quella vita raminga, il “condursi a tremar per ogni vena„ nello stendere altrui la mano supplichevole; e un'altra, forse, allusione pure all'esilio, contenuta nel predirgli Bonagiunta che una giovine donna gli farà piacere il soggiorno di Lucca; non sono rilevate dal Poeta, come sole ha rilevato le due vere e proprie profezie: di Farinata e di ser Brunetto.
E tutte poi, finalmente, le “parole gravi di sua vita futura„, o siano formali profezie o rapide e quasi guizzanti allusioni, tutte le accoglie e vi pone il suggello, e le converte in enunciazione espressa, non Beatrice veramente, come Virgilio aveva assicurato al discepolo che sarebbe, ma l'antenato suo messer Cacciaguida, morto in Palestina crociato. Questo cambiamento, o discordanza, di personaggi si suole enumerare tra quelle disavvertenze che nella complessa e laboriosa macchina de' cento Canti immortali, anche rispetto ad alcun altro particolare, si osservano. Ma chi non perdona questa, che forse è di tutte la più osservabile, chi non la perdona all'autore? Il quale, determinate meglio in altro luogo, e pure per bocca di Virgilio, le attribuzioni che avrà Beatrice, di chiarire a Dante quanto è “opra di fede„; deposto a' piedi di lei, sulla vetta della montagna conquistata col pentimento, tutto quanto egli umanamente ha peccato, così ne' trascorsi del senso arrendevole, come ne' deviamenti della ragione ribelle, come nella subordinazione delle idealità speculative alle cure e alle brighe della vita operativa; nell'atto stesso che quasi sottrae al maestrato di Beatrice, trasferendolo in Cacciaguida, questo manifestamento che gli è largito de' suoi futuri travagli fra gli uomini; la fa a quel filiale abboccarsi di lui col crociato trisavolo partecipare mediante le più care manifestazioni di donna amante verso l'amante Poeta. Sin dalle prime parole di Cacciaguida al pronipote, gli occhi di Beatrice ardono di siffatto riso, “ch'io pensai co' miei toccar lo fondo della mia grazia e del mio paradiso„. Quando Dante nelle memorie della vecchia Firenze si esalta col suo nobile progenitore, quasi dimenticando per esse le realtà sovrumane alle quali è stato inalzato, Beatrice sorride amorevolmente di quella sua debolezza. Quando infine egli, con l'animo attristato, medita sulle sciagure da lui predettegli, è Beatrice che lo conforta distornandogli il pensiero da quelle alla giustizia divina, ed egli non ha virtù di ridire quel che gli occhi di lei in quel punto gli dissero: “e quale io allor vidi negli occhi santi amor, qui l'abbandono„. Per tal modo ciascuno de' due, Cacciaguida e Beatrice, hanno nell'episodio ufficii appropriati. A Cacciaguida, l'introdurre quel suo privilegiato discendente fra le care imagini del buon tempo antico, nell'antica cerchia della loro Firenze, fra la cittadinanza sobria, virtuosa, legittima, non ammorbata dai venturieri di gente nuova, non pericolata dalla “fellonia„ de' fattisi potenti ne' traffici, non sovvertita dalla feudal grandigia dei discesi dalle castella, e che forte di concordia e d'integrità portava alto il giglio tuttavia bianco del suo gonfalone: a Cacciaguida altresì, lo annunziargli l'esilio e presignargliene le vicende, dal suo macchinarsi nella Corte mondana di Roma, e poi attraverso alle agitazioni burrascose, lungo le stazioni più o men fide, tra le amarezze e i conforti, e le speranze ingannevoli, sino alla morte, che tutte le schianta, di Arrigo VII. A Beatrice, lo accompagnare i sentimenti che nel cuore di Dante si suscitano per quelle comunicazioni tra sè e l'onorando vegliardo, accompagnarli ella con cuore di donna, che le cure civili abbandona all'uomo, ma col trepido affetto le vigila; soccorrere ella al conturbarvisi di lui, e sorreggerlo e rialzarlo, con la superiorità dell'idea che essa rappresenta, e che a quelle cose contingenti sovrasta, come appunto l'idea ai fatti, l'eterno e il divino al transitorio e al mondano.
Quanto espresse e ripetute e variamente atteggiate menzioni ha il Poeta fatte del proprio esilio, altrettanto è nel Poema, non che scarsa, ma del tutto priva, e non che di espresse testimonianze, ma pur anco di allusioni, la sua vita civile fiorentina. Inutilmente vi cercheremmo traccia della sua partecipazione ai Consigli del Comune, sebbene di uno di quelli l'atto sopravvissutoci paia a noi oggi una gran cosa, perchè ci troviamo lui Dante opporsi che Firenze mandi aiuto di cavalieri alla crociata di papa Bonifazio contro i Colonnesi. Fu pel Comune ambasciatore: e dell'ambasciata sua a San Gimignano in servizio della Taglia Guelfa rimangono documenti; dell'altra a Bonifazio nell'autunno del 1301, testimonianze sicure: ma se quelli e queste non possedessimo, nulla ne avremmo potuto da parole sue argomentare. La soprastanza di lui all'addirizzamento d'una strada, che da Porta Guelfa doveva agevolare la venuta delle milizie di contado ad ogni chiamata de' magistrati per la esecuzione degli Ordinamenti di Giustizia, è da credere non fosse il solo ufficio in che egli si facesse solidale del reggimento popolare contro i Grandi, dai quali s'era staccato per voler essere appunto di popolo e di reggimento: ma il documento rimastocene, che con parole come queste, “via e porta fatte e messe, con grande caldo e spesa, per trattato e mossa della Signoria„, ci fa rilevare la importanza politica di tale ufficio, resa maggiore per averlo Dante tenuto nella primavera del fatale anno 1301, imminendo alla città la catastrofe di parte Bianca; non certo alcuna allusione, che da qualche verso della Commedia noi desidereremmo di poter collegare con quel documento. Come finalmente non meravigliarci che nel Poema non abbia trovato luogo qualche accenno al suo Priorato, e che sur una sì notevol pagina della vita di Dante non possiamo noi leggere una linea che sia di lui stesso, se non trascrivendovi, sulla fede di Leonardo Aretino suo biografo, quelle di una lettera perduta, a ogni modo bellissime, dove l'esule rivendica a que' suoi “infausti comizi„ e l'esserne egli stato degno per lealtà di buon cittadino, e l'essergliene derivate tutte le sventure che lo hanno percosso? E come non rilevare un po' crucciosamente, che il Poeta, il quale non fermò pur con uno de' suoi versi potenti questi solenni ricordi della propria vita, abbia invece, e in uno de' più fieri e concitati canti, quello de' Simoniaci e della dannazione predestinata ai papi Bonifazio e Clemente, abbia consacrate due intere terzine, e appostele formalmente come “suggel ch'ogni uomo sganni„, al fatto d'aver egli una volta, trovandosi “nel suo bel San Giovanni„, rotto un pozzetto del battisterio per salvare “un che dentro v'annegava?„
Vero è, bensì, che ai poeti non tanto sono da chiedere menzioni espresse de' fatti i quali abbian dovuto ispirarli, quanto imagini riflesse, che dai cuori più sdegnosi e più profondamente feriti, e come più i fatti son gravi e tragici usciranno più indirette ed oblique. Così è, forse, che lo avere, egli solo, in quel Consiglio del 19 giugno 1301 negato i soccorsi d'arme al Papa per le sue profane crociate. Dante lo ripensa scrivendo
Lo principe de' nuovi Farisei,
avendo guerra presso a Laterano,
e non con Saracin nè con Giudei,
chè ciascun suo nemico era Cristiano…
Così agli uffici del Comune, degnamente addossatigli e con fede sostenuti, egli non poteva in cuor suo non contrapporre, nell'atto di bollarle, col verso, le volgari ambizioni dei “non chiamati„, che “solleciti„ e da sè candidandosi, gridano “I' mi sobbarco„. E quando all'esule riappariva, in sogno tormentoso, la patria; quando i gradi da balzo a balzo del suo Purgatorio gli ricordavano l'erta di San Miniato, sopra Rubaconte, e le “scalee„ costruitevi da' buoni virtuosi vecchi, e appiè del monte “lungo il bel fiume d'Arno„ la “gran villa„, venuta a mano di “guidatori„ troppo diversi da que' suoi primi, di uomini che la santità de' civili ufficii profanavano con le frodi ne' libri di fede pubblica e nella misura delle biade (onde le famiglie poi “arrossavan per lo staio„); non credete voi che Dante, scotendo per tal modo da sè la sozzura di cotesta tralignata cittadinanza non affermasse e a sè medesimo e al mondo la integrità sua di cittadino, e non la gettasse in faccia a coloro che sotto la infame accusa di barattiere gli avevano rapita quella povera patria rimasta in loro balìa? E se veramente fu in Corte di Roma, ambasciatore de' suoi Bianchi, ne' giorni medesimi in che Bonifazio, dando ad essi buone parole, spingeva contro Firenze il prezzolato paciaro francese, e le preparava i furori fratricidi e le vendette di messer Corso; tra le ricordanze che l'eterna città ha impresse nel Poema, quali raccoglieremo con maggior sentimento, quali più intimamente collegheremo alla vita del Poeta, quelle espresse attinenti al giubileo e alle sue processioni lungo Ponte Sant'Angelo, o alla “pigna„ vaticana, o all'apparita di Montemario, ovvero quella tenebrosa imagine de' maneggi curiali, con la quale Cacciaguida gli predice appunto la storia di que' giorni funesti?
Questo si vuole, e questo già si cerca,
e questo verrà fatto a chi ciò pensa,
là dove Cristo tuttodì si merca.
E se, non dal proprio Priorato, ma da quello che fu ultimo di parte Bianca, entrato pel consueto bimestre il 15 d'ottobre e rovesciato il 7 di novembre del 1301, se è da questo, com'è certamente, desunto quello scherno “de' sottili provvedimenti„, pe' quali in Firenze “il filato d'ottobre non giunge a mezzo novembre„, noi non possiamo credere che il Poeta motteggiasse amaramente di quella magistratura priorale, senza che il pensiero e il cuore gli corressero col bimestre da giugno ad agosto del 1300, quando egli n'avea sostenuto il peso fra le gare ormai scoperte della città partita, e inutilmente al confinamento de' capifazione (che fu fatale col suo Guido) avevano egli e i compagni suoi tentato di saldare le piaghe di quella malsana compagine, inutilmente proseguire la difesa, già dai predecessori iniziata, delle giurisdizioni del Comune contro il Pontefice che con le teorie e co' fatti ne invadeva il terreno.
Vi hanno, del resto, nella Commedia, luoghi, e sono de' più luminosi d'affetto e di poesia, dove tutt'altro che obliquamente e indirettamente, anzi con pieno abbandono alla passione che lo domina, il Poeta parla in nome del proprio passato; e quale egli fu nella vita, tale investe apertamente e violentemente la realtà delle cose. Anzi in cosiffatti luoghi è dove al personaggio ideale, al protagonista della fantastica azione, al viaggiatore pe' tre regni, si sostituisce il Dante vero, che non escogita artista, ma uomo sente e pensa e soffre, le cose che dice, che vive le atteggia nel verso, che del verso fa il grido dell'anima sua; e in quelle soggettive “digressioni„ (così egli stesso le ha chiamate) dal dramma oggettivo, in quelle inserzioni liriche alla materia e alla forma del Poema, in quelle sole, cessa il contrasto che è in tutto il rimanente dell'azione, e che potremmo chiamar cronologico; e che nella primavera del 1300, quando più Dante era mescolato e trascinato fra i commovimenti della vita civile, sotto quella data appunto egli rappresenti sè stesso in forma di convertito e penitente contemplatore delle cose eterne, dispregiatore delle “presenti„, “da esse tutto sciolto, e suso in cielo, con Beatrice, cotanto gloriosamente accolto„, ne' giorni ne' quali invece egli partecipò, più intensamente che mai in altri, alle agitazioni cittadine. Ma nel Sordello (cito quelle splendide liriche) nel Sordello, dove apostrofa, prima alla servitù e alle discordie d'Italia, evocando le grandi memorie della potenza e dell'unità imperiali di Roma; e poi alla sua Firenze, strascicandole attorno sarcasticamente il tributo dell'ammirazione dovutale per l'eccellenza de' suoi ordinamenti politici e per le virtù de' suoi cittadini, finchè dal cuore, che a quei sarcasmi crudeli si ribella, esce invece la imagine pietosa, che troppo meglio le si adatta, d'una povera irrequieta inferma; – ma nell'omaggio, pure ironico, al nome di Firenze, che di sè empie “il mare, la terra„, e “l'inferno„; omaggio, la cui ironia si spunta anche questa volta nell'amor cittadino, con l'augurio che il gastigo immanchevole della patria non amareggi al Poeta la vecchiezza infelice (“che più mi graverà com' più m'attempo„); – ma nell'Ugolino, dove delle dantesche invettive contro questa o quella città d'Italia, la più feroce impreca a Pisa ghibellina che la natura inorridita commetta agli elementi la vendetta dello strazio che nella muda della Fame fu fatto di lei; – in queste, vere e sublimi, liriche del grande Poema, come la favola e la scena e la data dell'azione scompaiono, così dal poeta emerge l'uomo; cessa ogni contrasto fra il sentimento reale di lui, e l'attribuitosi in quel dato momento dall'artista; trionfa insieme con l'arte, sopra l'arte forse, il cuore di Dante.
Ma il cuore di Dante è in più d'uno anche degli episodi, del tutto appartenenti al dramma, e aventi relazione storica, come il Carlo Martello, il Nino giudice, il Campaldino, alla sua giovinezza, così questi alle vicende tra le quali passò burrascosa, per entro alle quali naufragò, la sua vita civile: – è nella profezia di Guido del Duca, dove son ritratte le crudeltà di Fulcieri da Calboli, Potestà in Firenze in sul primo trionfo de' Neri, e feroce instrumento delle loro vendette (Fulcieri entrerà nella “triste selva„ cacciatore di lupi: ne mercanteggerà la viva carne, li trascinerà al macello: n'uscirà sanguinoso e disonorato: Firenze ne rimarrà diserta per secoli): – è il cuore di Dante nella visione che Forese Donati ha della morte di messer Corso, il maggior colpevole di quella “trista ruina„ (il superbo barone sarà trascinato dal cavallo, sul quale vorrà sottrarsi all'ira del popolo, e giacerà, là presso San Salvi, informe cadavere, “corpo vilmente disfatto„): – è dal cuor di Dante il furore col quale egli, nella ghiacciaia infernale, fa strazio di Bocca degli Abati traditore della bandiera fiorentina a Montaperti: – è dal cuore il grido che egli manda verso Firenze nell'incontro coi tre maggiorenti guelfi del primo e secondo popolo, quando alla dimanda se “cortesia e valore dimorano ancora nella nostra città„, come a' tempi loro, un cinquant'anni prima, soleva, egli risponde levando la faccia verso il mondo da dove è sceso all'Inferno, e apostrofa “Fiorenza te„, che “la gente nuova e i subiti guadagni„ hanno guasta; e a quelle sdegnose parole i tre, quasi invidiandone a Dante la rappresentativa efficacia, “guatâr l'un l'altro, com'al ver si guata„.
VI
Se non che, quanto più e il cuore e il pensiero si discostano da quelli anni, ahimè gli ultimi, vissuti nella patria; quanto più Firenze, desiderata, sospirata pur sempre, lo è da più lungo tempo; tanto più fiero prevale nell'animo del Poeta un sentimento che tutti gli altri involge e tramuta, e che rimarrà come per tradizione caratteristico di Dante uomo e di Dante poeta: il disdegno o, diciam meglio, il dispregio. Tale sentimento, del resto, fin dai primi canti del Poema, qualunque sia il tempo in che e' li abbia scritti, non che trapelare, trabocca da quell'anima, che forse anche senza l'esilio avrebbe respinto da sè molte cose; anche in patria, rispetto a molte, si sarebbe sentita, e fatta, anima di esule; anche se men duramente avesse sperimentati gli odii civili, avrebbe con eguale alterezza aspirato alla lode, che si fa dare da Virgilio, di “alma sdegnosa„; nè dell'ammonimento di lui avrebbe abbisognato, perchè sulla “cieca vita„ di troppi egli stesso dicesse a sè “guarda e passa„. Forse la famiglia avrebbe in patria ammansite o temperate certe sue selvagge energie: e il “lasciare ogni cosa più caramente diletta„, lasciarla per sempre, dovè disusarlo da quelli affetti, nei quali col declinar della vita, l'uomo acqueta la parte di sè più ribelle e più acre. Fieri affetti anche gli affetti della famiglia, in quei tempi, è vero: e un fosco episodio dell'Inferno dantesco potrebbe quasi farci pensare, che se Dante rimaneva in patria, alla morte d'un suo congiunto, Geri del Bello, sarebbe stata affrettata la vendetta, vendetta di sangue. Ma come la ferocia di tali propositi, che il Poeta in cotesto episodio liberamente manifesta, non toglie la religiosità de' suoi sentimenti; così pure avveniva, che il focolare domestico alimentasse e cosiffatti odii efferati, e amori tenaci e profondi. E come la religiosità di Dante non solo informa il concetto organico della Commedia, ma ne atteggia tanti altri episodi ben da quello diversi, specialmente gli attinenti nel Purgatorio alla preghiera delle anime o alla loro redarguizione per voci o per figure; e vi colorisce imagini soavissime, quali le malinconie del tramonto elegiache, o la invocazione quotidiana della Vergine, “il nome del bel fiore„ (imagine e frase, nelle quali il Poeta nostro può dirsi anticipi, dall'uso che già ne correva, la denominazione di Santa Maria del Fiore, molto più tardi pubblicamente decretata); così, dagli affetti domestici non avess'egli tratto altre ispirazioni che quella delle austere madrifamiglia de' tempi di Cacciaguida, favoleggianti alla culla le leggende di Roma; non altre imagini n'avesse colorite, che del più santo fra quelli affetti, l'amor di madre (la madre che sospira sul figliuolo infermo, o che al figliuolo pericolante soccorre col conforto pur della voce; – la madre che ignuda salva dalle fiamme il figliuolo; – la ninnananna delle mamme, che con gli anni delle loro creature conteranno, d'ora innanzi, gli anni, lieti od infausti, della vita propria; – il bambino che impara i primi affetti nel tendere le braccia alla mamma che lo allatta; – la lode del figliuolo “benedizione alla donna che in lui s'incinse„; – intristirsi gli affetti umani dove l'amore alla madre si spenga; – desiderare i beati la resurrezione de' corpi, non tanto per sè, quanto per rivedere corporalmente, prime fra i loro cari, le “mamme„; – la madre di Maria Vergine sentire anche nel cielo la sua privilegiata maternità); dico che basterebbe questo a farci pensare, che se la ideal Beatrice, la Beatrice teologica, era sua guida per le fantasticate sfere celesti, il ricordo di due donne lo accompagnava fra i dolori della vita: il ricordo della madre sua, il ricordo della madre de' suoi figliuoli. La retorica novelliera del Boccaccio, le saccenterie critiche odierne, su quella povera Gemma Donati, valgono le une l'altra.
Ma anche se rimasto in patria, e che nulla gli avesse disturbate le dolcezze di marito e di padre; non sappiamo, invero, tornando a lui come a cittadino, se tra i “lupi„ guelfi della sua città “guerreggianti l'ovile„, egli avrebbe proprio “dormito agnello„. Ben sappiamo, che l'affettuosa parola “vicino„, sinonima, nel linguaggio statuale e comune d'allora, di “concittadino„, è, in più d'un luogo del Poema, cosparsa d'ironia antifrastica; alla quale fa dichiarazione troppo eloquente la sfuriata retorica di ser Brunetto contro le “bestie fiesolane„, che, padrone di lacerarsi fra loro, ma non devono toccare lui Dante, “pianta„ eletta, che, per miracolo, “surge nel loro letame„. E dall'un capo all'altro del Poema vediamo: dileggiati i Guelfi, e la loro Parte di Santa Chiesa, “la gente che dovrebbe esser devota„, e la cui devozione dovrebbe addimostrarsi nell'obbedire a Cesare secondo i precetti di Dio; – e rivendicata la sacra insegna imperiale dalle disoneste ambizioni dei Ghibellini, che sotto quella “fanno lor arte„. Sul Papato mondano e sulla Corte di Roma aggravarsi il più terribil flagello che mai abbia rotato mano di poeta; intorno alla figura di Bonifazio aggrupparsi dannate le altre dei Pontefici infedeli al ministerio spirituale; contro Bonifazio, su dal cielo San Pietro, non già “figura di sigillo su privilegi venduti e mendaci„, ma Papa vero ed autentico, pronunziare anatema di sede vacante; – e quello stesso Poeta, non solamente inveire, per la bocca augusta di Beatrice, contro le “pecore matte„ indocili e ribelli al Pastore, e verso “il Pastor della Chiesa che vi guida„ inculcare sottomissione cieca, ma dinanzi a Bonifazio, umiliato in Anagni, inchinarsi come a vicario di Cristo in passione, e sugli offensori imprecare la vendetta divina. Della Parte Nera, che lo ha cacciato, personificare in Corso Donati le scellerate passioni, lui costituire verso la patria il maggior “colpevole„, nella sua strage raffigurare la pubblica nemesi; sulla famiglia di lui, la sorella, la dolce Piccarda, ribadire la cognominazione popolare di Malefammi, “uomini al mal più che al bene usi„; – ma non perciò potersi dire del Poeta, “benigno a' suoi ed a' nemici crudo„, perchè della Parte Bianca, che pure fu sua, i Cerchi capiparte e' li accomuna coi Donati nel biasimo di “fellonia„ alla patria, la quale gli uni e gli altri avrebbe dovuti avere cittadini fedeli e concordi. Negli ordini della cittadinanza, dileggiare come inetta al governo la instabile democrazia artigiana, dopo essersi egli pure, sull'esempio e sotto gli auspicii di Giano della Bella, “raunato col popolo„; parodie romane sembrargli, nella persona d'un popolare, il valente giurista messer Lapo Salterelli, quei magistrati de' quali pure aveva nel Priorato e nei Consigli partecipato gli onori, il carico, i pericoli, e derivatone, insieme con cotesti uomini (fosser pure censurabili) che ora schernisce, l'esilio e la condanna nel capo; – ma non però rimpiangere il ceto de' Grandi dal quale si è scisso, non risparmiare nelle giustizie del Poema “quelle oltracotate schiatte„, e le loro magnatizie superbie scolpire nella figura di messer Filippo Argenti degli Adimari, diguazzante furioso, con una geldra di mascalzoni alle costole, nella “morta gora„ di Stige. Nell'esilio, travolto co' Bianchi, si mescola fra i Ghibellini: – ma gli uni e gli altri sono “la compagnia malvagia e scempia„; con la quale egli “è caduto in quella valle„; compagnia “tutta ingrata, tutta matta ed empia„, che gli è fieramente contraria, che gli fa più gravi le amarezze del “pane altrui„, più molesto “lo scendere e 'l salir per le altrui scale„, più increscevole la lontananza di quanto egli ha amato più caramente: e quando Bianchi e Ghibellini, strette insieme in uno sforzo disperato le armi, vengono sotto le mura della città, e sono respinti, ed è versato sangue loro; di fuggitivi sulle colline della Lastra e verso Val di Bisenzio; di prigioni, per opera di Fulcieri nel tetro Palagio del Potestà; Dante (rincresce il dirlo, ma è così) non riconosce nemmeno quel sangue de' suoi compagni di Parte: è questa, non lui, che “n'avrà rossa la tempia„: egli l'ha ormai abbandonata al “processo di sua bestialità„, la quale giungerà a tali estremi, che “a te fia bello (gli ha predetto Cacciaguida, e questa è in ultimo la sua bandiera) averti fatta parte per te stesso„.
I gratificatori a Dante del titolo di Ghibellino avrebbero dovuto ripensare nel Poema di lui almen questo verso anche prima che la critica storica, positiva, la critica degna di tal nome, non ghibellina nè guelfa, circondasse, come oggi fa, di caute eccezioni così quella come l'altra appropriazione a lui del nome di Guelfo. Il Guelfo Bianco, che coi migliori della città e dell'età sua difese le libertà del Comune contro la fazione Nera e le intrusioni della Corte di Roma, e fra quei contrasti (secondochè vien facendosi sempre più probabile) scrisse il De Monarchia, non aveva bisogno o, diciam meglio, non poteva consentire, di diventar Ghibellino, quando questo nome inchiudeva un altro, e anche più assoluto, assoggettamento di quelle libertà. Arrigo VII, l'imperator cavaliere, ultimo fra i Cesari medievali, la cui corona abbia qualche pallido riflesso di romanità, scendendo in Italia per quella corona, “parte guelfa o ghibellina non volea udire ricordare„: son parole d'un concittadino e compagno a Dante di parte e di morte civile, degnissimo; parole di Dino: e fu Arrigo VII l'Imperatore di Dante.
Così, senza più nessuno al suo fianco, attraversa il Poeta le solitudini dell'esilio sconsolate. Per quali paesi, lungo quali stazioni, noi non sappiamo così appunto come vorremmo: e troppe memorie del passaggio di quel glorioso, non sono che o un trascorso della retorica, o industrie d'erudizione, ovvero gentili inganni della tradizione, o delle ambizioni al natìo loco caritatevoli. Ma di due regioni italiche, le quali certamente videro passare l'“esule senza colpa„, Toscana e Romagna, – le signorie, i tiranni di questa, covo per covo, – le democrazie, o fosser ghibelline o fosser guelfe, di quella, lungo il corso dell'Arno dalla Falterona al mare, – furono da lui, nel XIV del Purgatorio e nel XXVII dell'Inferno, retribuite alla medesima stregua. Tanto più preziose le vestigia della sua gratitudine, che sopravvive alla potenza di due grandi casate: Scaligeri e Malaspina. E se un altro palagio di Signori, ultimo suo “rifugio ed ostello„, non ha, nel Poema, eguale o fors'anche più affettuosa testimonianza, potè il buon Guido Novello, o egli medesimo esser testimonio del trovarsi ormai quasi “piene tutte le carte, ordite„ alle tre Cantiche, od anche tenersi pago che in quelle carte fosse già vergato il canto, pel quale il nome dei da Polenta è, nella colpa e nella morte di Francesca infelice, consacrato alla pietà di tutti i secoli.