Kitabı oku: «La vita italiana nel Trecento», sayfa 8
XIV
Primeggia, fra tanti feroci uomini, una donna così energica e valorosa che guelfi e ghibellini si uniscono ad ammirarla. È la Cia o Marzia, degna moglie di Francesco degli Ordelaffi, signore di Forlì e di Cesena che un anonimo contemporaneo chiama “perfido cane patarino, ribelle della Santa Chiesa… uomo disperato„; ed aggiunge che “aveva odio mortale a li prelati… e non voleva… vivere a discrezione di preti„. Amico del Boccaccio, da trent'anni si rideva così delle scomuniche come delle ribenedizioni pontificie, allorquando nel 1353 venne il cardinale Egidio d'Albornoz, mandato da Innocenzo VI, a sottomettere i tiranni di Romagna, i quali, approfittando della lontananza della Corte pontificia, trasferitasi da 46 anni in Avignone, s'erano fatti sempre più riottosi e indipendenti. L'Ordelaffi, che da principio aveva stretto in lega gli altri signori, rimase poi solo, coi Manfredi di Faenza, a negare obbedienza al legato, che bandì una crociata contro di loro; anche i Manfredi, perduta la lor città, dovettero schierarsi fra i suoi avversari; ma egli aveva seco la moglie, la quale aveva già dato prova di valore combattendo (dice Matteo Villani) “non come femmina ma come virtudioso cavaliere; ed a lei affidò la custodia di Cesena. Essendovi entrato il nemico col favor del popolo levatosi a tumulto, Cia si ritirò nella murata, o ricinto intorno alla rôcca, e la difese (continua a narrare il cronista fiorentino) “ella sola guidatrice della guerra, stando il dì e la notte coll'arme indosso„. Durò un mese, dal 29 aprile al 28 maggio, a contrastare il passo alle genti del legato; quindi “avendo fatto meravigliosamente d'arme e di capitaneria alla difesa, si ridusse con 400 tra cavalieri e masnadieri nella rôcca, acconci a' comandamenti della donna, per singulare amore, sino alla morte„. Otto macchine scagliano una grandine di pietre sì che le torri squarciate minacciano rovina. Il padre di Cia, Vanni Ubaldini, signore di Susinana, che milita nell'esercito pontificio, supplica la figliuola d'arrendersi. “No, risponde essa, quando mi deste in moglie al mio signore, non mi raccomandaste voi di obbedirlo ad ogni costo? Ora egli ha affidata questa rôcca a me: io la difenderò sino alla morte.„ Quando dopo 22 giorni di disperata resistenza i suoi connestabili le dimostrarono non esservi più riparo e dichiararono che non intendevano perir schiacciati tra le macerie, “la valente donna… non cambiò faccia nè perdè di sua virtù„. Ma prese essa stessa a trattare col legato e ne ottenne che tutti i suoi soldati potessero uscir liberi, portando seco ciò che volevano. Nulla chiese invece per sè nè pei suoi figli e congiunti; e menata con essi in prigione nel castello d'Ancona “così contenne il suo animo non vinto e non corrotto, come se la vittoria fosse stata sua„. Trattata onestamente, ricusò, a quanto affermasi, di essere immediatamente liberata “temendo la subitezza del marito„. Il quale continuò dal canto suo a sostener con eroica fermezza lo sforzo delle armi nemiche, e soltanto dopo ventitrè mesi (il 4 luglio del 1359) sopraffatto dal numero, rese al legato la rôcca di Forlì, e implorò umilmente il perdono che, trascorsi pochi giorni, gli fu largamente concesso a prezzo di tenue penitenza. Assolto dalle condanne e creato vicario pontificio in Forlimpopoli e Castrocaro, tornò a ribellarsi; militò agli stipendi dei Visconti, e quindi della repubblica di Venezia, dove fu raggiunto dalla fida consorte e dove finirono ambedue l'avventurosa lor vita in sì povero stato che ne furono fatte le esequie a spese della Serenissima. I loro nomi restarono popolari tra gli antichi sudditi; i quali tutti, compreso il clero, ne accolsero con grandi onoranze le ossa, quando il figlio Sinibaldo le riportò, l'anno 1381, nella città di cui aveva racquistato l'ereditaria signoria. I Forlivesi, secondo l'espressione del Villani, erano pazzi dell'Ordelaffio; e ne fa testimonianza anche un cronista anonimo che, pur non risparmiando al tiranno ingiurie e calunnie, conchiude col dire: “era incarnato coi Forlivesi ed amato caramente: dimostrava modo come di pietosa caritade; maritava orfane, allocava pulzelle e sovveniva a povera gente di sua amistade.„
In questa coppia, e non è la sola della sua specie, riscontransi in sommo grado l'indomita energia, le ardenti passioni, i subitanei trapassi delle nature medievali. E si vede pure come in mezzo ai casi della fortuna e non ostante le crudeltà necessarie, i tiranni riuscissero a conciliarsi l'affetto delle moltitudini, che preferivano l'arbitrio d'un unico e forte padrone alla discorde e faziosa sovranità comunale. Il bellicoso legato, il quale per ingegno non meno che per prodezza era degno di affrontare i tiranni romagnoli, vinti e umiliati che li ebbe, non trovò miglior partito che restituir loro le antiche signorie perchè le tenessero col titolo di vicari pontificii.
XV
Una fra le cause della sconfitta dell'Ordelaffi furono i mercenari tedeschi del conte Lando e d'altri condottieri ch'egli aveva assoldati nel 1357 colla promessa di 25 mila fiorini, e che quindi l'abbandonarono, essendosi venduti per una somma doppia all'Albornoz; e come prima avevano suscitato colle loro rapine i malumori degli abitanti di Forlì, così poi dettero il guasto alle campagne, amici o nemici ugualmente funesti.
Era, in simil forma, una nuova forza malefica, sopravvenuta da quindici anni, ad accrescere la confusione della vita politica italiana: stava per diventare una vera e propria istituzione nazionale che doveva nel secolo XV sorgere ad insperate fortune. Il primo germe, a dir vero, risale al feudalismo, che essendo, sotto apparenze gerarchiche, una costituzione sociale sciolta e disordinata, richiedeva il braccio e favoriva le ambiziose voglie di venturieri. E venturieri ungheri e saraceni si ritrovano in Italia fin dai tempi carolingi; come erano venturieri i Normanni che conquistarono le due Sicilie. Alla medesima specie appartengono, dopo il 200, le guardie sveve che aiutarono i ghibellini in Toscana stessa, in Romagna e in Piemonte. Con quelle schiere avvezze al mestiere delle armi, le quali fecero da battistrada alle compagnie di ventura, mal potevano competere le milizie cittadine; scemato l'antico ardore che un tempo chiamava grandi e popolani sotto le insegne, per correr gualdane, per far cavalcate, per andare a oste intorno al carroccio, invalse, nel trecento, fra i Comuni come fra i Signori il più comodo costume di assoldare mercenari: in tal modo i più doviziosi apparvero i più potenti, e Venezia colle ricchezze de' suoi traffici, Firenze che (come disse Bonifazio VIII) era la fonte dell'oro, poterono stare a fronte di sovrani che possedevano molto più vasti dominii. Le guerre del secolo XIV furono quasi esclusivamente condotte da soldatesche prezzolate, specialmente tedesche. Alcune di queste masnade, licenziate da Pisa, nel 1342, pensarono di stare unite in compagnia, per andar guerreggiando i più deboli e facoltosi, mettendo in comune i guadagni da distribuirsi secondo il merito e il grado di ciascuno. Guarnieri duca d'Urslingen, che aveva fatto l'accorta proposta, ne fu eletto capo; Pisa gli offrì di soppiatto le paghe di quattro mesi; da varie parti lo aizzarono contro i signori di Romagna e contro i comuni di Siena e di Perugia; ingrossato d'altre genti, traversò la Toscana, taglieggiando, saccheggiando e devastando ogni luogo. Similmente passò in Lombardia e, fatti grassi accordi, con ricco bottino, tornò in Germania. A far pompa della sua ferocia costui portava sul petto una scritta a lettere d'argento che diceva: “Duca Guarnieri, signore della Gran Compagnia, nimico di Dio, di pietà e di misericordia.„
Il bell'esempio naturalmente trovò imitatori; e questo fu il principio delle compagnie di ventura straniere; perchè non ebbero la stessa natura le precedenti dette del Ceruglio e della Colomba; nè ebbe importanza il primo tentativo italiano della Compagnia di Siena. Bensì alle straniere si sostituirono le italiane dopo che nel 1377 il giovane conte Alberto da Barbiano fondò la sua sotto il titolo di San Giorgio, e la mise ai servigi di Urbano VI. La grande rotta ch'egli dette in Marino alle masnade dei Brettoni che minacciavano Roma, risollevò l'onore delle armi italiane e iniziò un nuovo periodo nelle vicende della milizia.
Ma io non dovevo qui se non indicarne le origini; poichè la storia dei condottieri italiani, se incomincia nella seconda metà del secolo XIV, si svolge e si compie nel XV; nè le due parti si possono separare.
XVI
Tutti i signori si servirono di mercenari, ma niuna casa quanto quella dei Visconti, che con Matteo, cacciati per sempre i Torriani, nel 1315, si erano stabilmente insediati a Milano. Accadde al successore di lui, Galeazzo, che le sue masnade gli si ribellarono, e lo spodestarono nel 1322, ad istigazione del suo cugino Lodrisio Visconti; il quale, dopo un mese, mutato proposito, coll'aiuto delle stesse soldatesche, lo rimise in seggio. Per il che Galeazzo chiese ed ottenne di assoldare 600 cavalieri tedeschi a quel Lodovico il Bavaro che doveva poi, cinque anni appresso, imprigionarlo per un tempo nei famosi forni di Monza.
Altri già v'intrattenne, meglio ch'io non potrei fare, delle origini di questa casa e delle sue gare coi Torriani. Or qui ricorderò soltanto come Azzo figlio di Galeazzo, ingrandisse coll'acquisto di Brescia lo stato che aveva ricomprato da Lodovico il Bavaro; e come poi l'arcivescovo Giovanni v'aggiungesse Bologna vendutagli da Taddeo Pepoli e Genova ricevuta in dedizione. Morendo nel 1354 egli lasciò tre nipoti, Matteo, Galeazzo e Bernabò; gli ultimi due avvelenarono il primo e si divisero i dominii, tenendo in comune Milano e Genova. Giangaleazzo, succeduto al padre Galeazzo, incominciò, secondo le tradizioni domestiche, con carcerare e assassinare lo zio Bernabò e due suoi figli; così riunì le varie parti dello Stato; e parve ancora raccogliere in sè tutti i vizi e le qualità di quella singolare famiglia. Gli altri tiranni, pur servendosi di mercenari, solevano guidar l'esercito in campo e combattere di persona. Egli invece, rinchiuso nel suo castello, coll'opera di ministri e di condottieri, volse l'animo a fondare una grande monarchia. Bensì col sagace ingegno aveva inteso l'importanza di crearsi un esercito nazionale che capitanato da soli italiani, Ugolotto Biancardo, Facino Cane, Ottobuono Terzo, i due Dal Verme, e il maestro di tutti, Alberico di Barbiano, gli dette infatti la vittoria sulle milizie straniere. Profondo dissimulatore e destro statista, spiava ogni occasione propizia, non risparmiando denaro nè sangue, per conseguire il proprio intento. La sua crudeltà non può mettersi al paragone con quella del suo zio Bernabò, tristamente famoso per l'uffizio dei cani e per quelle quaresime, che erano 40 giorni di lenti tormenti, cui sottometteva le sue vittime prima di finirle; mentre egli dimostrò pure il suo gusto per la scienza e per l'arte istituendo un'accademia di architettura e di pittura, raccogliendo codici, ampliando l'università e fondando la certosa di Pavia, iniziando la costruzione del Duomo di Milano. Prese Verona e Vicenza agli Scaligeri, Padova e Treviso ai Carraresi; occupò Siena e Pisa; poi Perugia ed Assisi, ed infine Spoleto e Bologna; anche Lucca stava per cadere in sua balìa. Firenze sola resisteva gagliarda, ma incominciava a sgomentarsi. Egli aveva comprato, per 100 mila fiorini, dall'imperatore Venceslao il titolo di duca; ma ambiva quello di re; e già ne aveva ordinato la corona, quando improvvisamente morì nel 1402; e l'edifizio da lui innalzato andò in isfacelo.
Uno stuolo di poeti in Lombardia, in Toscana, nell'Emilia celebrava il gran principe e lo stimolava a compiere il suo vasto disegno; e vorrei potervi dare qualche maggior saggio di tal letteratura viscontea, così ricca che ha dato materia ad una speciale bibliografia. Persino la vita e la morte dell'odioso Bernabò aveva acceso la fantasia di novellieri e di cantastorie; a lui non mancarono rime politiche, che lo animassero nelle sue imprese dicendogli: “Al punto se' d'Italia dominare„; nè lamenti che moralizzassero poi sulla sua misera fine o che ne facessero l'epico racconto. Ma anche più numerosi e importanti sono i versi indirizzati a Giangaleazzo. La canzone di Saviozzo, che abbiam citata in principio, lo invitava senz'altro a prender la corona d'Italia, col favore delle stelle, dei Numi, dei Santi e dei Beati, anzi faceva che l'Italia stessa gliela offerisse:
Ecco qui Italia che ti chiama padre,
Che per te spera omai di trionfare,
E di sè incoronare
Le tue benigne e preziose chiome.
Similmente un Tommaso da Rieti lo esortava a seguire il leggiadro e bel destino a cui i Cieli lo chiamavano
Per onorare il gran nome latino,
E far vendetta della lunga offesa
D'Italia nostra, dopo lunghi affanni.
E ripetevagli:
Correte alla corona
Che vi promette chi corrusca e tona.
Un anonimo rimatore gli rappresentava le città lombarde, che schiave ed afflitte, aspettavano salute da lui:
Stan le città lombarde con le chiavi
In man, per darle a voi, Sir di Virtute.
e Roma stessa lo chiamava Cesar mio novello e gli chiedeva di coprire la sua nudità, per dar principio all'affrancazione di tutta Italia.
Infine, riproducendo sott'altra forma la stessa idea, un padovano, Francesco di Vannozzo, gli dedicava una corona di otto sonetti, il primo a nome d'Italia, gli altri delle principali città: Padova, Vinegia, Ferrara, Bologna, Firenze, Rimini, Udine, Viterbo, Roma, tutte unanimi di una sognata concordia; per cui il poeta concludeva:
Dunque, correte insieme, o sparse rime,
E gite predicando in ogni via
Che Italia ride e che è giunto il Messia.
Ma il Messia di Francesco di Vannozzo, come il Veltro di Dante, erano di là da venire. Spirato che fu Giangaleazzo, nel 1402, apparve chiara la vanità di quelle speranze e di quelle profezie. I valorosi capitani che lo avevano servito passarono subito agli stipendi de' suoi nemici: il Barbiano fu assoldato dai Fiorentini, il Del Verme da Venezia, Carlo Malatesta dal Papa; altri si fecero signori di alcune città ribellatesi, come Facino Cane a Alessandria, Ottobono Terzi a Parma, Pandolfo Malatesta a Brescia. La vedova di lui, Caterina, morì in prigione: ai due figliuoli legittimi, che si erano diviso lo Stato, restò soltanto un'ombra d'autorità; ed un terzo, naturale, che comandava in Pisa, ne vendette la cittadella ai Fiorentini. In tal modo si avverò pure questa volta il detto del Villani sulla formazione e sulla fine delle signorie.
XVII
Anche per noi è tempo di por fine al discorso e di raccoglier le vele. Abbiamo veduto come, dopo essersi sostituito al feudo, il Comune, travagliato da fazioni interne e circondato da potenti nemici, avendo oppresso parte de' suoi abitanti ed escluso dal governo le genti soggette, fosse tratto necessariamente a perdere le proprie libertà ed a trasformarsi in signoria; e come trovasse molti ambiziosi pronti ad assumerne o a usurparne la sovranità col favore d'una fazione o dei più. Abbiamo veduto come questi signori o tiranni sorti cogli accorgimenti, colle violenze o più spesso con gli uni e le altre, fossero costretti a servirsi degli stessi mezzi per mantenersi, e governassero generalmente senza alcuno scrupolo nè freno morale, creando una forma originale di Stato, che per altro conteneva in sè il germe della propria rovina. Abbiamo veduto infine come con tale condizione di cose si collegasse per varii rispetti l'uso delle armi mercenarie e l'origine delle compagnie di ventura; e come le minori signorie andassero a mano a mano inghiottite dalle maggiori.
Questo moto di fatti storici, a cui fa riscontro in altri paesi d'Europa, la costituzione di monarchie nazionali, non produsse in Italia il medesimo effetto; perchè incontrò un invincibile intoppo, non tanto nel papato (come sentenziò il Machiavelli), quanto nell'indole individuale degli Italiani, contrastando alla unità il sentimento proprio delle diverse città e regioni, e mancando tuttavia una coscienza politica nazionale. E qui mi fermo. Non temete che, raffrontando il passato al presente, io vi ripeta ciò che sta scritto nel cuore d'ogni italiano. Qualsiasi più gustoso sapore, diventerebbe stucchevole, se fosse ammannito a tutto pasto.
Aimez-vous la muscade? on en a mis partout!
Dirò soltanto che occorreva si avverasse, per tutta quanta la patria nostra, la profezia predicata a Firenze dal Savonarola. Bisognava che l'Italia per rinnovarsi fosse flagellata a sangue; e la flagellazione doveva durare più secoli. Così possano le memorie del passato e lo studio della storia (per amor del quale avete oggi dato una prova di longanime pazienza), spronandoci ad emulare la feconda operosità intellettuale e la mirabile spontaneità artistica del primo rinascimento, premunirci dal rinnovare, sott'altri nomi, le discordie intestine e le intolleranze faziose dei Comuni, le crudeltà e le perfidie dei tirannelli, le male arti e le interessate scorrerie degli avventurieri senza patria, senza fede, senza ideali!
LE CONSORTERIE NELLA STORIA FIORENTINA DEL MEDIO EVO
DI
MARCO TABARRINI
Signore gentili e signori,
La vita morale dell'uomo ha presso a poco le stesse leggi che governano la natura fisica. Tutti più o meno abbiamo l'età in cui fioriscono le facoltà della mente, come piante vigorose in terra vergine; alla quale succede poi quella che ne matura i frutti; finchè si arriva alla vecchiezza che non ha più nè fiori da sbocciare, nè frutta da cogliere. Chi nacque col bisogno di fare qualche cosa nel mondo, di non seppellire nell'ozio il danaro dell'ingegno che gli fu concesso, se rifà con la mente la storia della sua vita intellettuale, si accorgerà facilmente che tutte le risoluzioni più efficaci di operosità di pensiero, tutti gli argomenti di studi geniali, si produssero in lui nella gioventù, vera primavera della vita, quando le forze dell'intelletto sono ancor fresche, e si ha fiducia in sè stessi e negli altri. I disegni più arditi, gli studi più faticosi son propri di quella prima levata dell'ingegno giovanile, che poi si coloriscono e si compiono nelle età successive, se un felice concorso di circostanze favorisce la buona volontà. È questa presso a poco la legge di produzione dei frutti dell'ingegno, dai più alti ai più umili.
E anch'io, per quanto ultimo degli ultimi, quando fui onorato dell'invito di fare una conferenza di argomento storico in questa cara Firenze, ove, se non ebbi la fortuna di nascere, ricevei però il battesimo della vita civile, dolente di rispondere con un rifiuto, mi diedi a riandare i miei studi giovanili, per vedere se tra i lavori incominciati ed interrotti per le vicende della mia vita, che ho dovuto consumare tutta in cure disparatissime, alcuno ne trovassi che potessi riprendere oggi, e ridurre alle proporzioni di una conferenza tollerabile. Fra il disordine di carte polverose trovai certi studi sulle consorterie del medioevo, incominciati con molta pazienza trent'anni sono, quando non mi mancava il tempo di consultare biblioteche ed archivi. Su questo tema mi aveva messo il mio maestro di diritto romano Pietro Capei; il quale mi ammonì che poco avrei trovato nei libri, e che bisognava cercare la materia negli statuti e negli atti pubblici e privati dei secoli XIII e XIV. Mi posi con grande amore in queste ricerche, e tanto mi si allargarono tra mano che il materiale raccolto fu piuttosto eccessivo che abbondante. Ma ripresi oggi quelli studi, presto dovei accorgermi che tutta quella congerie di testi e di documenti non faceva ora al caso mio, e che, tenendomi su quella via, non ne avrei potuto cavare un discorso tollerabile anche da uditori indulgenti. Allora pensai che altro non mi rimaneva da fare che trarre da quelle minute ricerche le conclusioni più logiche ed evidenti, lasciando da parte quasi tutta la preparazione erudita. Così se il mio discorso perderà gran parte della sua importanza scientifica4, avrà però il merito di non annoiarvi soverchiamente, e, sacrificando la vanità di erudito, di trattenervi sopra un argomento poco noto di storia patria, senza tedio e stanchezza.
La gran mole dell'Impero romano nel quale si era conchiusa la sintesi della civiltà pagana, era caduta pezzo per pezzo sotto la spada dei barbari, aiutata dall'odio delle provincie soggette a Roma. La rovina fu lenta, perchè le forze che sostenevano quell'enorme edifizio vennero meno a poco a poco; e la distruzione si arrestava talvolta per qualche tempo, per riprendere poi con maggiore impeto l'opera sua. Il Cristianesimo guardava quasi con indifferenza questo sfacelo di un mondo che non era il suo, aspettando di poter ricostituire sopra altri fondamenti una nuova civiltà. Alla fine del VI secolo si può dire che la dissoluzione dell'Impero romano fosse compiuta. Roma, presa due volte dai barbari, privata dell'Imperatore e dei Consoli, non era più il capo del mondo, e con lei si spegneva lo spirito latino che aveva informato la civiltà da lei imposta alle nazioni. Un avanzo dell'Impero durava ancora sul Bosforo, nella città di Costantino, ma poco o nulla aveva di romano; e la sua vita morale si alimentava degli avanzi della civiltà greca ed orientale, infeconda nella sua decrepitezza, e sulla quale i Teologi consumavano l'opera deleteria dei Sofisti antichi.
La caduta dell'Impero latino lasciò un gran vuoto nel mondo, e l'umanità smarrita non sapeva per qual via incamminarsi per trovare nuove ragioni di civiltà e nuove forme di reggimento. Di costituito non c'era altro che la Chiesa, la quale, forte del principio che le dava vita, custodiva la tradizione latina, e preparava l'avvenire. Questo periodo di sgomento e di incertezza, è rappresentato nella storia da due secoli di oscurità e di paura, nei quali non si scorge altro che la violenza di chi opprime e l'avvilimento di chi si lascia opprimere.
Finalmente allo spirare del millenio, sopra questo campo insanguinato, in questo rimescolarsi confuso di vincitori e di vinti, cominciano a disegnarsi le prime forme civili, e si mostra l'embrione d'una società nuova. È naturale che dalle genti germaniche le quali avevano disfatto l'Impero romano, venisse il concetto dei nuovi organismi sociali; poichè la forza era nei vincitori, e chi vince colla spada nel campo dei fatti seguita a vincere nel campo delle idee. Senza fermarci a discutere quali elementi di vita propria portassero nel mezzogiorno dell'Europa le razze germaniche conquistatrici, a noi basterà notare come al finire dell'XI secolo, anche in Italia, la nuova società si fosse costituita a forma feudale, la quale era quella che meglio rispondeva ai sentimenti e al costume di quelle genti. Debolissima e quasi obliterata l'idea dello Stato unitario, della suprema potestas, come i Romani l'avevano intesa, i feudi la rappresentavano frantumata nelle famiglie. Non più la respublica divisa in provincie, in municipii, in colonie, ma un impero nominale diviso in marche, ducati e contee.
È inutile per noi la ricerca se il feudo venisse dal beneficio latino, se il colonato si mutasse in vassallaggio. Quello che importa di stabilire è chi fossero i marchesi, i duchi, i conti; chi fossero i vassalli, di chi si componesse il popolo libero.
Le irruzioni dei barbari in Italia avevano proceduto con forme diverse, producendo molta varietà di effetti. Alcune erano di eserciti che si aprivano la via con la spada; altre di popoli che scendevano ad occupare le terre abbandonate o non difese. Le prime eran passate come uragani distruggitori, le altre con occupazioni violente, avevano sovrapposto un popolo sull'altro. Gli Eruli e i Vandali, dopo aver corsa l'Italia, si erano dispersi nell'Africa; i Goti, dopo un regno effimero semi-romano, erano passati in Spagna; i Longobardi avevano preso stanza nella Valle del Po, da questa erano entrati, passando l'Apennino, nella Valle del Tevere; e coi ducati di Spoleto, di Benevento e di Salerno, avevano invaso anche l'Italia meridionale. Il regno da essi fondato durò due secoli. Distrutto da Carlo Magno, rimasero i vinti nelle loro sedi accomunati ai vincitori, coi quali avevano comune il sangue; e pesarono ambedue sulla misera plebe del popolo di razza latina. In Italia dunque, verso il mille, c'era un popolo vinto che serviva, e un'accozzaglia di vincitori che dominava. I vincitori, seguendo l'antico costume germanico che aborriva dal chiudersi nelle città murate, si erano sparsi per le campagne, e nei contadi avevano ascritto alla gleba i coltivatori delle terre, appropriandosene i frutti. Nella città era rimasto il popolo che esercitava le arti e i mestieri, ingrossato da quanti vi avevano cercato rifugio nelle prime invasioni.
Questa divisione etnografica prendeva forme civili dall'organismo feudale prevalente; ed ogni signore teneva il feudo come un piccolo Stato, sicuro nel munito castello, intorno al quale formicolavano le turbe dei vassalli. Le città uscirono da questa rete di piccole signorie, sebbene fino a un certo tempo anch'esse avessero i conti; ma forse più come magistrati che come signori.
I signori dei grossi feudi erano di stirpe longobarda o franca, e i loro titoli di signoria risalivano alle prime conquiste; poi seguivano quelli che erano venuti cogli imperatori e singolarmente cogli Ottoni, ed erano rimasti in Italia gratificati di feudi per afforzare il partito imperiale. C'erano poi signori feudali di razza latina, ed eran quelli tra i più ricchi che avevano ottenuto, per premio di devozione o per moneta, concessioni feudali dagli imperatori di Alemagna nelle loro frequenti discese in Italia; e c'erano finalmente i Vescovi e gli Abati, baroni e conti dell'Impero, pei quali era sorta la gran quistione delle investiture ai tempi di Gregorio VII. Inferiori a questi pullulavano una miriade di conti, di cattani, di militi, e di lambardi i quali o si erano arrogati la signoria di piccoli borghi o casali ai tempi della conquista, o avevano ottenuto subinfeudazioni di terre dai maggiori feudatari.
E tutti questi o per diritto di conquista o per leggi e consuetudini del diritto feudale, esercitavano giurisdizioni mal definite, o meglio un potere arbitrario che non aveva limiti, e contro il quale non c'era riparo possibile; perchè l'Imperatore che soprastava a questo esercito di prepotenti, era lontano e senza forza; i suoi Vicari tiranneggiavano per conto proprio; e il Papa, difensore naturale dei deboli e degli oppressi, doveva difendere sè stesso.
Sotto queste diverse categorie di soprastanti che comandavano, stava nei contadi la plebe dei vassalli, forse avanzo degli antichi coloni latini, e di piccoli proprietari spossessati dalla violenza delle conquiste. I miseri legati alla gleba che bagnavano del loro sudore, si compravano col fondo come il bestiame e gli altri strumenti di produzione. Ed ove i feudi avevano lasciato qualche tratto di terre franche, c'erano proprietari liberi che coltivavano il fondo con le proprie braccia, o lo facevano coltivare da lavoratori non ascritti alla gleba. La libertà e la proprietà erano sicuramente grandi benefizii per questa classe media posta tra i signori di feudi e i vassalli; ma libertà e proprietà non difese da poteri pubblici erano di poco valore, e non li francavano dalle angherie dei feudatari, che li taglieggiavano nelle vie, ai passi dei fiumi, ai mulini; o turbavano i confini dei campi con frequenti usurpazioni. Queste violenze ci sono insegnate dagli statuti dei Comuni, che più tardi ne ordinarono la repressione. Risparmio le citazioni per diminuire la noia di chi mi ascolta. Voglio però notare come il linguaggio del tempo facesse palese l'indole tutta feudale che aveva assunto la società; contado (comitatus) era la signoria del conte; contadini (comitatini) gli abitanti delle terre del contado. La parola vassallo, per quanto sappia, è rimasta viva soltanto nel dialetto romanesco, nel senso di uomo vile e spregevole; perchè a Roma, l'antica baronia durò potente più che altrove, mentre in Toscana feudi e vassalli sparirono troppo presto per lasciar traccia nella lingua.
Mi resta ora a parlare delle città che erano rimaste immuni dal regime feudale. Nelle città desolate dalle prime invasioni, e ridotte senza mura, perchè non potessero essere centri di difesa, erano rimasti gli avanzi del popolo latino, il quale viveva esercitando i mestieri ed il commercio, da cui aborrivano gli invasori, e serbando le tradizioni d'una civiltà la quale, se non era bastata a liberarli dalla barbarie irruente del settentrione, almeno li consolava nella presente miseria con la memoria dell'antica grandezza. Che gli artieri e i mercanti della città conservassero le tradizioni latine e l'orgoglio del loro sangue, e che poca presa vi facessero le leggi e le costumanze barbariche, almeno per ciò che riguarda la Toscana, mi pare indubitato. Qui meno che altrove i conquistatori presero stanza; qui prima che altrove rifiorirono le industrie e i commerci; e finalmente qui ebbe vita la lingua volgare che più si avvicinava al latino. Se a questo si aggiunge l'azione del Clero, il quale di continuo, e colla lingua rituale e con la poca coltura che possedeva, richiamava le menti al passato, e le professioni della legge personale ammesse nella legislazione carolingia, si avrà una serie di argomenti per dimostrare che gli spiriti latini continuarono negli animi del popolo della città, anche nei tempi più tenebrosi della barbarie.
Questo popolo cittadino, come abbiamo già notato, si componeva di proprietari liberi di beni nel contado, di mercanti e di artieri. Il clero ed i notari ne formavano, a così dire, la parte colta, sebbene la loro coltura andasse poco più in là del leggere e dello scrivere. Ciò che mancava a questa gente operosa, che nelle città smantellate non si teneva sicura, e nel contado andava soggetta alle vessazioni dei signori feudali, era principalmente la tutela degli interessi; e come questa tutela non la trovavano nell'Imperatore lontano ed impotente, nè tampoco nei suoi Vicari, intesi sopratutto a mantener vive le ragioni imperiali in Italia, senza alcun riguardo alla soddisfazione dei popoli, furono condotti a cercarla in sè stessi.