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Kitabı oku: «La vita italiana nel Trecento», sayfa 7

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X

Non posso fermarmi sopra altre delle minori signorie lombarde, tutte macchiate di sangue, e pur non prive d'importanza.

Ma voglio ricordare, in grazia d'una canzone del Petrarca, i casi di Parma, la quale era passata da Giberto da Coreggio ai Rossi e da questi, per accordi intervenuti, agli Scaligeri, nel 1335. Sei anni appresso, Azzo da Coreggio, che già era stato avvocato dei nuovi signori, in corte pontificia, patteggiò coi Visconti e coi Gonzaga che se l'aiutavano a cacciare costoro dalla sua patria egli ne terrebbe la signoria per cinque anni e poi la consegnerebbe a Luchino Visconti. La sollevazione promossa da uno de' suoi fratelli e da lui soccorsa riuscì felicemente; ed il Petrarca, che entrò con Azzo medesimo, suo amicissimo, nella città liberata, celebrò il fatto in bellissimi versi

 
Libertà, dolce e desiato bene
Mal conosciuto a chi talor no 'l perde,
Quanto gradita al buon mondo esser dèi.
Da te la vita vien fiorita e verde:
Per te stato gioioso si mantene
Ch'ir mi fa somigliante agli alti dei…
 

E poi, con un giuoco di parole o con allusioni conformi al costume letterario del tempo, così continua:

 
Cor regio fu, sì come sona il nome
Quel che venne securo a l'alta impresa
Per mar per terra e per poggi e per piani;
 
 
E soave raccolse
Insieme quelle sparse genti afflitte
A le quali interditte
Le paterne lor leggi eran per forza,
Le quali, a scorza a scorza,
Consunte avea l'insazïabil fame
De' Can che fan le pecore lor grame.
 

E qui viene una erudita enumerazione di tiranni, per concludere, con esagerazione o meglio con finzione poetica, che Mastino e Alberto erano i peggiori di tutti.

 
E la bella contrada di Trevigi
Ha le piaghe ancor fresche d'Azzolino;
Roma di Gaio e di Neron si lagna
E di molti Romagna:
Mantova duolse ancor d'un Passerino.
Ma null'altro destino
Nè giogo fu mai duro quanto 'l nostro
Era, nè carte e inchiostro
Basterebben al vero in questo loco;
Onde meglio è tacer che dirne poco.
 

Al che tien dietro, per contrapposto, un cenno, più breve, dei principali fautori di libertà, fra i quali tutti naturalmente Azzo porta la palma:

 
Non altri al mondo più verace amore
De la sua patria in alcun tempo accese…
 
 
E, perchè nulla al sommo valor manche,
La patria tolta a l'unghie de' tiranni
Liberamente in pace si governa;
E ristorando va gli antichi danni
E riposando le sue parti stanche
E ringraziando la pietà superna,
Pregando che sua grazia faccia eterna.
E ciò si po sperar ben, s'io non erro;
Però ch'un'alma in quattro cori alberga
Et una sola verga
È in quattro mani et un medesmo ferro.
 

Per gustare artisticamente tal canzone bisogna dimenticare l'occasione per cui fu composta e i fatti che precedettero e susseguirono la celebrata liberazione di Parma. Ma per lo storico invece importa assai il ricordarli; poichè in tal guisa la poesia diventa altresì un documento psicologico, mostrandoci come uno de' più nobili ingegni di quel secolo, pronto ad esaltarsi ai nomi di patria e di libertà, si studiasse di rappresentare quali magnanimi eroi i suoi amici Da Coreggio, purgandoli dalla taccia di traditori. Questo, secondo il Carducci che ha illustrato da par suo l'intiera canzone, è l'intendimento politico con cui fu scritta, e che fa capolino nel congedo:

 
Tu pôi ben dir, chè 'l sai,
Come lor gloria nulla nebbia offosca.
E, se va' in terra tosca
Ch'appregia l'opre coraggiose e belle,
Ivi conta di lor vere novelle.
 

Del rimanente se è vero che nei primi tempi il governo dei quattro fratelli Da Coreggio parve imparziale e paterno, presto andò peggiorando; si mise tra loro la discordia; ed Azzo, assenzienti i più, finì nel 44 con cedere la signoria a Obizzo d'Este per 60 mila fiorini d'oro. Laonde Luchino Visconti, lagnandosi della mancata fede, si unì col Gonzaga e cogli Scaligeri, e ruppe la guerra; sinchè nel 46 convenne con Obizzo che gli retrocedesse la città contro rimborso del denaro da lui pagato ad Azzo; il quale poi, riconciliatosi cogli Scaligeri, ne ottenne nuovamente la fiducia, e nuovamente la tradì: “falso ed abietto uomo„ ben dice il Carducci, chè tale va giudicato sebbene il buon Petrarca “seguitasse ad amarlo e lodarlo, e gli dedicasse quasi a conforto i dialoghi De remediis utriusque Fortunae, e ne compiangesse la morte.„

XI

La terra tosca, a cui il Poeta indirizzava la canzone (che poi tralasciò peraltro di porre tra le sue Rime) e dove i Da Coreggio desideravano apparire amatori di libertà, non era propizia all'impianto di stabili signorie; ma neanche v'attecchivano ordini durevoli d'alcuna sorta. Tutti avete a mente il rimprovero di Dante a Firenze:

 
… fai tanto sottili
Provvedimenti, ch'a mezzo novembre
Non giugne quel che tu d'ottobre fili,
 

rimprovero che fu suggerito senza dubbio al Poeta dall'acerbo ricordo del suo Priorato (incominciato il 15 ottobre e interrotto anzi tempo il 7 novembre del 1301), ma che si riscontra giusto in tutta quanta la storia del nostro Comune. Legge fiorentina, suonava un vecchio dettato, fatta la sera e guasta la mattina.

Per tacere dei mutamenti d'istituzioni, di magistrature e di leggi (alcuni dei quali erano vere rivoluzioni più radicali delle moderne, e, come allor dicevasi, facevano popolo nuovo), il Comune, dove già aveva spadroneggiato nel 1301 Carlo di Valois coi guelfi neri, sotto gli auspicî di Bonifacio VIII, nel 1313 dette la signoria di sè per cinque anni all'angioino re Roberto di Napoli, e similmente per altri dieci, nel 25 e nel 26, al primogenito di lui Carlo duca di Calabria (che in diciannove mesi fece spendere più di 900 mila fiorini d'oro senz'alcun frutto); ed in fine del 42 elesse Gualtieri di Brienne, duca d'Atene, a capitano e conservatore del popolo; “avventuriere, dice uno storico, di poca fermezza e di meno fede… cupido, avaro e male grazioso, che pure il popolo stesso, ampliandogli il potere, acclamò signore perpetuo e che dopo una diecina di mesi cacciò con rabbioso furore.„ La ragione di queste frequenti dedizioni sta nella debolezza del Comune, che, riconoscendosi impotente a soddisfare le sue mire ambiziose, si affidava ad un signore di fuorivia nel quale sperava di trovare coll'unità del comando la forza che gli mancava. Tal sentimento è espresso nel caso nostro, forse meglio che da ogni storico, dal rimator popolare Antonio Pucci in un suo lamento per la perdita di Lucca: città che i Fiorentini avevano comprata da Mastino II Scaligero per ben 250 mila fiorini, ma che sol pochi mesi avevano posseduta, avendola i Pisani assediata ed espugnata. Nel lamento dunque che ha per titolo: Come Lucca si perdè, Firenze stessa così si rammarica:

 
Questa mi fu peggior mercantazia
Ch'i' comperasse mai in vita mia;
Sì cara mi costò la sensaria
A questa volta.
Oimè, Lucca d'ogni vertù folta,
Che, per averti meco, insieme accolta,
Ti comperai, ed altri me t'à tolta,
Ond'io rimango
Con tanta pena, ch'ogni dì me 'nfrango,
E sospirando giorno e notte piango.
 

E di questo andare continua un pezzo, poichè la sobrietà non è la qualità propria di siffatti cantari. Ma ciò che qui importa è la lieta speranza che anima la chiusa del componimento:

 
Or tal signor m'à preso ad aiutare
Ched i' ò intenzïon di vendicare
Ogni passata offesa, e racquistare
L'onor perduto.
Che 'l franco capitan prod'e saputo,
Duca d'Atene ch'è per ciò venuto,
Mill'anni par che d'onore compiuto
Ci renfreschi;
E seco menerà pochi tedeschi,
Ma cavalier taliani e francieschi,
Que' che son sempre a ben ferir maneschi
Come leoni.
 

Ma furono vane lusinghe; e l'istesso rimatore, in una ballata scritta per la cacciata del tiranno, con arguto scetticismo fiorentino ne fa la storia sommaria e ne dà la conclusione morale, che vale per tutti i tempi:

 
Il giorno della Donna (l'8 settembre), ebbe per manna
Il Duca di Firenze signoria;
E fu disposto il giorno di sant'Anna
Che è madre della Vergine Maria;
E sì come di pria
Si disse – viva, viva! – con gran gioia,
Si gridò – muoia, muoia! —
Comunemente d'una volontade.
 

Se non temessi d'abusare della vostra pazienza vi leggerei anche qualche verso d'un altro lamento che il Pucci mette in bocca al duca d'Atene, dove egli ricorda che Arezzo, Pistoia, Volterra, Colle San Gemignano gli s'erano date a vita al pari di Firenze (ed è fatto vero), sicchè ei si credette esser re di Toscana; ma s'accorse a sue spese che i Fiorentini “Gente non son da tener con gli uncini„. Poichè, mentre stava per montare in su la rota, ricevette tal colpo sulla gota, onde rimase lasso! ne la mota, Ispodestato. E il peggio fu per Firenze che a un tratto (dice il Machiavelli), del tiranno e del suo dominio priva rimase; poichè quelle città e terre si ribellarono, e non senza promesse e travagli il Comune potè ricuperarle.

Aveva ragione il vecchio Poeta popolare: per soggiogare i Fiorentini non ci volevano asprezze soldatesche e violenze tiranniche, ma arti raffinate e modi civili; e già in mezzo alle discordie delle arti maggiori e minori, e delle famiglie antiche e delle nuove, fra il breve trionfo dei Ciompi e le vendette dei grandi, si faceva strada una casa di ricchissimi e intelligenti banchieri che doveva nel secolo XV creare una particolare forma di signoria, appropriata all'indole della città e assai più salda delle precedenti.

XII

Di tutt'altra natura fu la dominazione esercitata su Pisa e su Lucca fra il 1313 ed il '16 da Uguccione della Faggiuola, gentiluomo romagnolo, prode capitano, ma anche meno dello Scaligero, degno di rappresentare (come fantasticò qualche studioso) il Veltro dantesco. Più volte podestà d'Arezzo ed anche di Genova, di Gubbio, di Pisa e d'altre città, ora chiamato ed ora remosso, ora campione ora sospettato traditore dei ghibellini, egli mirava a farsi uno Stato; e vi riuscì un momento prendendo Pisa per volontaria dedizione e Lucca per forza. Benchè battesse i guelfi toscani e i reali di Napoli nella gran giornata di Montecatini del 1315 (il quale avvenimento porse occasione in quel tempo ad ma ballata anonima mirabile di fervente ispirazione partigiana), fu poco dopo cacciato a furia di popolo dalle sue due città, e morì combattendo sotto le bandiere di Cangrande.

I Lucchesi, liberatisi da Uguccione, elessero capitano e poi signore per un anno il loro concittadino Castruccio Castracani, che aveva passato la gioventù trafficando e militando in Francia e in Inghilterra, ed era stato rimesso in patria da Uguccione stesso insieme cogli altri fuorusciti ghibellini. Ma in quel momento era in carcere e condannato a morte, non ostante il valore mostrato a Montecatini, per cagion di certi omicidi e ladronecci commessi in Lunigiana. Era invero una natura d'uomo e di tiranno, tra tanti, originale e singolarissima: feroce ed ardito, accoppiava le arti civili e politiche colle virtù militari; procedeva senza scrupolo in ciò che gli consigliava la ragione di Stato, e riusciva pure a farsi adorare dai soldati e dai sudditi. Meritò insomma che il Machiavelli ne facesse il protagonista d'una specie di romanzetto storico che intitolò dal suo nome. Bandì trecento famiglie, ne sterminò altre (fra le quali i Quartigiani suoi primi fautori), abbattè trecento torri, servendosi dei materiali per costruire una fortezza, riordinò le milizie cittadine e mercenarie, le esercitò alle finte battaglie, e le capitanò vittoriosamente nelle vere. Accorto parlatore, sempre primo a farsi innanzi in ogni frangente, bastò talvolta la sua sola presenza a sedare un tumulto o a ricondurre le schiere all'assalto. Dopo quattro anni si fece attribuire la signoria perpetua; e, ripresa la guerra coi Fiorentini, li sconfisse a Altopascio nel 1325, inseguendoli poi fino a Signa; il che fu cagione che Firenze si desse a Carlo di Calabria. Già si era impadronito di Prato e di Pistoia; Lodovico il Bavaro con cui entrò in Pisa e che accompagnò a Roma, lo aveva fatto duca, ed egli sfidava una crociata banditagli contro dal cardinale legato Giovanni Orsini, quando morì nel 1328. Nè i figliuoli di lui poterono mantenersi in istato.

Troppo lungo sarebbe enumerare le signorie a cui soggiacque Pisa, innanzi e dopo quella di Uguccione; la prima fu, tra il 1284 e l'88, del conte Ugolino della Gherardesca, la cui catastrofe è sì famosa, e sulla cui memoria pesa una taccia di tradimento, che il mio amico Del Lungo con sagaci ragioni persuade, se non a remuover del tutto, almeno ad attenuare; l'ultima fu del tristo Jacopo d'Appiano, che nel 1392 assassinò il suo predecessore Piero Gambacorti, di cui era cancelliere e familiare; il figliuolo Gherardo nel 98 vendette il dominio a Giangaleazzo, riserbandosi Piombino e l'isola dell'Elba, dove la famiglia durò fino al secolo XVI.

XIII

Pisa, come avverte giustamente il prelodato storico dei guelfi pisani, è il Comune di Toscana che offre minori dissomiglianze con quelli d'oltre Apennino. E però ci apre la via a dir due parole dei tiranni di Romagna, sui quali ha raccolte molte notizie con lodevole diligenza il conte Pietro Desiderio Pasolini. Questi osserva a ragione ch'essi si distinguono tra loro poco più che pel nome, e generalmente non sono notevoli se non per gli atroci delitti di cui sono autori spietati o vittime miserande, e talvolta l'uno e l'altro successivamente, quasi tutti feroci e perversi, pronti a tradire ed a spegnere amici, parenti e fratelli, senz'alcun fine ideale, senz'alcun principio comune, salvochè la sete di dominio. Aggiungasi che la lontananza dai papi, dopo il 1304, e lo scisma d'Occidente dopo il 1378, favorivano le ambizioni dei signori, in quell'inestricabile sviluppo di guerre, di congiure e di stragi. Mettiamo da parte, innanzi tutto, il buon Guido da Polenta, amico di Dante, a cui rese degne onoranze funebri dopo averlo ospitato negli ultimi anni; protettore di Giotto che chiamò a dipingere due chiese a Ravenna; e gentil rimatore egli stesso. I Polentani si erano fatti grandi col favore del clero e quali vicari arcivescovili; ma dopo il 1282, grazie alle podesterie esercitate e all'autorità acquistata, fondarono pacificamente la signoria di Ravenna e di Cervia, or combattendo, or venendo ad accordi coi pontefici e coi loro conti di Romagna:

 
Ravenna sta, com'è stata molt'anni:
L'aquila di Polenta la si cova,
Sì che Cervia ricopre co' suoi vanni.
 

Se non che, dopo la morte di Dante, accadde un tristo mutamento. Guido Novello e il fratel suo l'arcivescovo Rinaldo troppo dirazzavano dai loro conterranei per poter durare a lungo; e nel 1322, mentre l'uno era capitano del popolo a Bologna, e l'altro teneva il governo senz'alcun sospetto, un cugino, di nome Ostasio, si fece dare da quest'ultimo le chiavi della città, e, introdotto uno stuolo di sicari, lo fece scannare nel proprio letto. Il popolo acclamò costui podestà e sbandì come ribelli Guido e gli amici suoi, che invano sperarono e tentarono di essere richiamati.

Uniti in parentela coi Polentani erano i Malatesta di Rimini; parentela che condusse ad una tragedia domestica immortalata da Dante e modernamente posta in iscena dal Pellico; finchè duri al mondo un alito d'amore e di poesia, ogni cuore gentile palpiterà al racconto dei dubbiosi desiri e dell'ardente passione onde furono avvinti Paolo Malatesta e Francesca da Polenta, passione così forte che neanche l'inferno valse a discioglierne i nodi, ed in ciò almeno, la colpa, secondo la fantasia del Poeta, vinse la giustizia divina. Il pietoso fatto successe a quanto pare nel 1285, e divise per un tempo le due famiglie; ma pochi anni dopo l'utile comune le riconciliò. Antichi cittadini di Rimini, i Malatesta da Verrucchio, seguivano al pari dei Polentani la parte guelfa; e del pari anche resistevano ai conti pontifici ed ai papi stessi, che due volte, dal 283 al 300, li misero al bando della Chiesa e poi li ribenedirono. Nel 1295 ci furono a Rimini tre giorni di guerra civile tra guelfi e ghibellini, capitanati i primi da Malatesta dei Malatesti, i secondi da Parcitade dei Parcitadi, prode e virtuoso cavaliere. Ma avendo saputo il Malatesta che Guido da Montefeltro (di cui or ora darò notizia), veniva in aiuto agli avversari, finse di voler rappaciarsi col suo competitore. I due infatti si abbracciarono tra gli evviva del popolo, e convennero di radunar le genti assoldate. Il Parcitade mantenne scrupolosamente la parola data; ma l'altro nascose o fece tornare indietro i suoi scherani, coi quali, la mattina seguente, s'impadronì della città facendo strage dei ghibellini. Il Parcitade si salvò a stento, ma due suoi figliuoli un Montagna ed un Ugolino Cignatta furono fatti prigioni, e trucidati da Malatestino, degna progenie di Malatesta. Dante lo ricorda chiamando costoro:

 
Il Mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio
Che fecer di Montagna il mal governo.
 

Malatestino poi, succeduto al padre nel 1312, volendo insignorirsi di Fano, chiamò a parlamento due dei migliori cittadini, e giunti che furono al ritrovo li fece senz'altro uccidere e gettare in mare.

Similmente a Faenza, nel 1285, Alberigo Manfredi che fecesi poi frate di Santa Maria, per meglio vendicarsi del fratello e del nipote da cui aveva ricevuto uno schiaffo, finse di volersi riconciliare con loro e li invitò a desinare al suo castello di Cerata. Verso la fine del banchetto gridò: “Vegna la frutta„ e i suoi sicarii sbucarono dalla cortina dietro la quale erano appostati e li scannarono. Una multa e un breve esilio composero la faccenda; ma Dante lo trova all'inferno, confitto nel diaccio, dove dice:

 
Io son Frate Alberigo
Io son quel dalle frutta del mal orto,
Che qui riprendo dattero per figo.
 

Una particolarità di Maghinardo Pagani che tiranneggiava Imola e Faenza era di recitare scopertamente una doppia parte nella commedia politica fra il due e il trecento: pupillo ed amico del Comune di Firenze, a cui il padre l'aveva raccomandato morendo, e per cui combattè a Campaldino, egli era guelfo in Toscana e ghibellino in Romagna:

 
Le città di Lamone e di Santerno
Conduce il lioncel del nido bianco,
Che muta parte dalla state al verno.
 

Aveva anche il soprannome di demonio; e Dante dice altrove che le buone opere de' suoi discendenti non basteranno a far che “puro giammai rimanga d'essi testimonio„. Non va poi confuso cogli altri tirannelli romagnoli quel valoroso guerriero e feudatario ghibellino che fu Guido da Montefeltro, al cui avo Buonconte, Federigo II aveva concesso la città e contado d'Urbino. Fedele alla casa di Svevia accompagnò nell'infelice impresa il povero Corradino; poi, ritiratosi in Romagna, sfidò e vinse in una gran battaglia nel 1275 i guelfi condotti da Malatesta da Verrucchio; sicchè parve sul punto di dominare l'intera regione; ma la parte avversa riprese il sopravvento dopo l'elezione di papa Martino IV e l'invio di soldatesche francesi; assediato in Forlì da forze preponderanti e ridotto agli estremi, si racconta che Guido si liberasse e facesse strage del nemico con un audacissimo stratagemma: poichè uscì chetamente dalla città cogli uomini validi, lasciando aperta una porta, e dentro i vecchi, le donne e i fanciulli; quindi mentre gli assedianti entrati in Forlì gozzovigliavano, piombò loro addosso improvvisamente; dicesi che vi perissero quasi tutti gli ottomila francesi; al che allude Dante coi noti versi:

 
La terra che fe' già la lunga prova
E di Franceschi il sanguinoso mucchio
Sotto le branche verdi si ritrova.
 

Fu questa peraltro una vittoria di Pirro: Forlì, che aveva eroicamente resistito per oltre un anno, ad un tratto si sottomise senza voler più combattere; e così Cesena, Forlimpopoli ed altre terre; Guido, perduto tutto lo Stato, venne a patti col papa, che gli prese in ostaggi due figli e lo confinò prima a Chioggia, poi in Asti, dove era da tutti onorato. Uomo di retto animo lo dice fra Salimbene, costumato, liberale e amico de' Frati Minori. Nel 1289, invitato da Pisa ad assumer l'ufficio di podestà e di capitano del popolo, ruppe il confino; dopodichè, nel 94, tornò in pace colla Chiesa; ribenedetto da Celestino V ed entrato in grazia di Bonifazio VIII, ricuperò i suoi possessi e fu mandato con 500 cavalli a difesa del Regno di Napoli; due anni appresso, stanco della vita e pentito delle colpe commesse, vestì l'abito di san Francesco, e morì santamente in Assisi nel 1298. Il racconto di Dante sul consiglio fraudolento da lui dato a Bonifazio VIII pare una leggenda, da cui il Poeta traesse buon partito per sfogare il suo sdegno contro “lo Principe de' nuovi Farisei„.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
13 ekim 2017
Hacim:
460 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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