Kitabı oku: «Il tenente dei Lancieri», sayfa 7
XI
Giacomino aveva abbandonato il caffè Biffi, il teatro e stava sempre in casa; ma per due ragioni: la prima, che non aveva un soldo e non ne poteva trovare; la seconda… il buon Daniele non l’avrebbe mai indovinata!… Cominciava a piacergli la Cammilla, e il suo capriccio era stimolato da una gran curiosità: sapere se quel mucchio di capelli era tutto vero, o se c’era sotto del crespo.
E questa curiosità gli era nata la prima sera in cui egli aveva dovuto pranzare solo, in camera sua.
Da più di un’ora se ne stava buttato sul letto, al buio, mangiando bile, e roso dalla gelosia per Fanny, quando a un tratto sentì un fruscìo dietro l’uscio, poi picchiar leggermente, e una vocina bisbigliare:
– Si può?
– La nasona! – pensò fra sè Giacomino, – e si voltò contro il muro borbottando: – Avanti: cosa c’è? – Ma appena entrata la fanciulla, si voltò attratto da un profumo vivificante. La Cammilla teneva un lume e una bottiglia di vino da una mano, dall’altra un bel piatto di risotto caldo.
– Hop, lalà – fece il giovanotto alzandosi a sedere sul letto, e i suoi occhi, dopo aver fissato il risotto, si volsero alla ragazza, ringraziandola.
Cammilla arrossì di piacere. Finalmente, dopo tanto tempo, dopo tanto pensarci, era riuscita a fare cosa grata a suo cugino!…
– La zia Maddalena è scesa nello scrittoio ed io ho pensato di farti il risotto; la zuppa di rape era diventata lunga e salata. Ti ho fatto anche un piattino di rosticciana.
Giacomo tornò a sorridere guardandola; e restando sempre seduto sulla sponda del letto, l’aiutò, mentre disponeva sul comodino il bicchiere, il piatto e la bottiglia; la cameretta era un buco, non c’era altro che il letto, un cassettone, una seggiola, un catino; nessun posto per mettersi a mangiare.
– Grazie, Cammilla.
E proprio in quel punto, mentre la ragazza si chinava, posando sul tavolino la roba, egli osservò, per la prima volta, tutti quei capelli biondi, che cominciavano da ricciolini d’oro, sulla nuca rosata, e finivano in un grande ravvolgimento di trecce, di ciocche ondulate, massa pesante e ricadente sulle spalle.
Quando Cammilla scese per prendere l’altra roba, Giacomo cominciò a mangiare il suo risotto, pensando alla cugina.
– E il naso?… come mai?… Dacché è un po’ ingrassata le si è raddrizzato, il mento e il nasone sono spariti.
Essa ritornò poco dopo colla rosticciana; e lui, sempre seduto sulla sponda del letto, le faceva cento domande, per tenerla lì, per non lasciarla andar via, per avere da ridere e da scherzare. E intanto la guardava, l’osservava, la scrutava, e la ragazza sotto quegli occhi si sentiva accendere il sangue, battere il cuore, mancare il respiro. Avrebbe voluto essa pure fissarlo a lungo per fargli capire che lo amava, ma non poteva resistere, abbassava gli occhi arrossando, impallidendo, tremante, vinta.
– Di profilo – pensava Giacomino – il naso torna a spuntare, ma di faccia è un naso regolare.
E come era divenuta grande e si era fatta donna, senza che lui se ne fosse accorto!
– Sono tuoi tutti questi capelli?
– E di chi dunque? – esclamò ridendo la ragazza.
– Scommetto che c’è del crespo.
– Oh no, te lo giuro.
– Allora bisogna, vedere per credere – rispose il. cugino fissandola sempre e ridendo maliziosamente, intanto che ingoiava la rosticciana.
– Guarda – e la fanciulla si chinò, allungando il capo. Giacomo sentì da vicino l’odore acuto, caldo dei capelli, ma intimidito da quella, franchezza, non osò toccarli. Invece le prese la mano.
– Come fai a cucinare il risotto e ad avere le mani così bianche?
– Ho visto le tue – rispose la Cammilla, superba di essere osservata.
– E i piedi? hai un bel piedino? Lasciami vedere.
– No, no, no! – gridò Cammilla, arrossendo, turbata, spaventata, e si chinò per nascondere i piedi sotto le vesti.
Ma l’altro voleva vedere ad ogni costo, e le prendeva la vita, le stringeva le braccia per sollevargliele.
– No, te ne prego, sta buono.
– Voglio vedere.
– Sta buono; domani.
– Voglio vedere.
– Guarda. – E Cammilla, alzatasi un poco la sottana, mostrò due piedi sformati nelle scarpacce sdruscite e sgangherate, ma coll’altro braccio si nascose gli occhi e pianse.
– È l’avarizia della mamma, – esclamò il cuginetto con galanteria. – Devi avere de’ bei piedini. Fatti sentire dal babbo, e fatti fare degli stivaletti coi bottoni, alti così. – E le indicò come li portava la Fanny. Poi tornò a fissare, a guardare la Cammilla, con occhi esperti da conoscitore, immaginandola nell’amazzone attillata o colle spalle nude come la Fanny.
Se tutti quei capelli erano suoi… doveva essere uno splendore.
Cammilla si lasciava premere, accarezzare la mano. Guardava anche lei quegli occhi penetranti e sorridenti che la scrutavano in tutta la persona, poi chinava il capo turbata, intimidita, innamorata, e il piccolo seno palpitava sotto il grembiule di percallina, che dalle spalle e dal petto le scendeva fin quasi ai piedi, allacciandola stretta stretta alla vita.
Dagli occhi di Giacomo, a un tratto, venne quasi una chiamata, un invito: corse un lampo nel viso della fanciulla, poi ella ebbe un sussulto che parve un singhiozzo e fuggì.
– Cammilla! Cammilla!
Mentre la ragazza scendeva a precipizio la scala, Giacomo, rimasto solo, dette in una risata.
– Comincia a trovarci gusto a civettare. Scommetto che son tutte malizie per parer più donna che non sia: sotto i capelli, certo ci deve metter del crespo.
E mentre il ragazzaccio, già corrotto, dai baci, e più che dai baci, dal tradimento di Fanny, non indovinava, nè capiva nulla nel pudore verecondo della povera ragazza, questa sognava e spasimava tutta sconvolta e fremente per una inopinata e dolcissima speranza.
Finalmente egli l’aveva guardata!… Era riuscita finalmente a farsi guardare! Aveva vinto lei! Sì, aveva vinto, a forza di pazienza, di ostinazione, di tenacia: ma già non pensava a resistere. La dedizione del suo cuore era intera; voleva essere amata, non altro, pronta ad abbandonare in contraccambio tutta sè stessa, la sua giovinezza, la sua vita.
Sola, sola, tardi, nella sua cameretta, essa vegliava e si tormentava.
Le voleva bene?… Cominciava a volerle bene?… Aveva vinto, aveva vinto lei, dopo tante ansie, dopo tante angoscie, dopo aver patito il suo disprezzo, la sua ironia, il suo odio, dopo averlo visto innamorato di un’altra, pazzo per un’altra, tutto d’un’altra. Ora egli l’aveva guardata, con quegli occhi belli, vivi, acuti, penetranti. L’aveva guardata amorosamente, appassionatamente; e anche lei sentiva il fascino di quel sorriso che mostrava i denti bianchi sotto i baffetti biondi.
– Sì, sì; era sicura; piaceva a Giacomino, gli occhi di lui erano pieni di baci… e la fanciulla si buttava sul suo lettuccio, affondando il viso nel guanciale come per riceverli tutti.
Poi fece uno sforzo, si rizzò e cominciò a spogliarsi, ma con lui sempre in mente. Appoggiata alla sponda del letto, stette un pezzo a guardarsi i piedini nudi. Aveva ragione Giacomo, erano quelle scarpacce che li sformavano. Oh, ma il giorno dopo avrebbe fatto una scena allo zio: Voleva gli stivaletti alti così!
Poi, prima di coricarsi, corse al cassettone e, avvicinato lo specchietto, si sciolse tutti i capelli, se ne riempì le mani, e, chiusi gli occhi, prese a baciarli bisbigliando: – Sono tuoi, sono tuoi, prendili, sono tuoi.
Giacomo, da quella prima sera, non lasciava più in pace la Cammilla: la cercava, le correva dietro per le scale, la seguiva negli andirivieni degli stanzoni del fondaco. Avevano insieme lunghi colloqui, fra le botti d’aringhe e i barili d’olio. Egli scherzava fissandola sempre collo sguardo acuto e malizioso, ridendo co’ bei denti bianchi luccicanti sotto i baffettini biondi; e anche la ragazza lo guardava estatica, a lungo… arrossendo, impallidendo, tremando, palpitando. Ma ogni giorno essa diventava più florida e più bella, come un fiore levato dall’ombra e messo al sole. Ogni giorno essa diventava più elegante, più flessuosa nel suo povero abitino, le sue industri manine parevano affinate dall’amore e il tic-tac degli stivaletti nuovi faceva risonare nel vecchio fondaco buio una nota insolita di gioventù e di gaiezza femminile.
Nessuno, in casa Trebeschi, badava a quei due ragazzi, eccetto forse la signora Maddalena che osservava tutto, spiando dai vetri del suo casotto. Ma la signora Maddalena si era imposto di non più fiatare; altri aveva voluto toglierle di mano le redini della famiglia, essa aveva accettato, e siccome era una Monghisoni, voleva insegnar a tutti quanti come si doveva essere fedeli ai patti conclusi. E forse… chissà? forse in cuor suo immaginava, aspettava un aiuto dall’amore e dagli eventi.
Il signor Daniele non era, di sua natura, un grande osservatore. Vedeva Giacomino allegro… e non credeva ai propri occhi. Giacomino doveva dissimulare il suo gran cordoglio, tanto è vero che si era cambiato, stava sempre in casa tutto il giorno, tutta la sera. Era impossibile che il ragazzo avesse dimenticato… sicuro; era impossibile che avesse dimenticato la signorina Fanny. E il babbo sospirava lui, anche per il figliuolo.
Così i due cugini erano liberi ed erano sempre insieme.
Una sera, poco prima di pranzo, Giacomo chiamò la Cammilla in fondo all’ultimo stanzone. Aveva da regalarle una bella cravattina rossa.
– Ma voglio mettertela io. – E per vederci tirò la fanciulla sotto la lampadina, davanti alla Santa Casa di Loreto. Essa alzò il capo per lasciarlo fare.
– Ma sono proprio tuoi tutti questi capelli?
Il ragazzo, intanto, le aveva fatto il nodo sfiorandole colle dita il mento delicato.
– Qui no – riprese colla voce rauca. – Non si può vedere. Come si fa?
– Come si fa? – ripetè la fanciulla.
Il ragazzo dette un’occhiata dietro alle botti: tutto il fondaco era pieno di gente, ma lì, in quel momento, non c’era nessuno.
– E se io, per donarti la cravatta, volessi un bacio?
Cammilla impallidì, i suoi occhi diventarono timidi e lucenti, le corse un fremito per tutta la persona, e sporse le labbra.
– Va via, vien gente! – bisbigliò Giacomino; ma poi trattenne la ragazza per la vita, e le dette il bacio sui riccioli della nuca.
Quel bacio!… Essa aveva sentito piegarsi le ginocchia, si era sentita morire; ma poi, dal suo cuore, dal suo sangue, da tutto il suo essere, prorompevano baci anelanti di rispondere al primo che Giacomino le avesse dato.
Era sua, tutta sua. E già coll’anima si era data spontaneamente, liberamente, senza esitazione, senza un rimorso.
Perché rimorso? Per chi? Non era libera di sè? Padrona di sè? Il suo pane se l’era guadagnato lei fin da bambina; non doveva niente a nessuno; nè ai suoi parenti di Melegnano che l’avevano mandata via perchè non avevano da mantenerla, nè a questi di Milano, che l’avevano fatta lavorare, sfruttandola come una serva. Non doveva render conto di sè a nessuno al mondo. A tutto il resto, all’avvenire, non pensava.
Che cosa c’era fuori del suo amore?… di là del suo amore?…
Al poi, il suo amore non ci pensava nemmeno. Amava come respirava; quando non c’è più aria, non c’è più vita – si muore.
Invece il cugino Giacomo seguiva un ben diverso ordine di idee.
– Ci sta – pensava, atteggiando le labbra quasi infantili ad un sorriso scettico, anzi cinico. – Ci sta, subito, come quell’altra. Ma questa, forse, per farsi sposare. Sono così false le donne, così perfide e così viziose!
Pure, ripensandoci, i begli occhi neri, scintillanti della cavallerizza, quando lo fissavano, gli dicevano tutt’altra cosa che i grandi occhi cilestri, nuotanti fra le lacrime della Cammilla.
L’una rideva con trilli di gioia quando egli la stringeva, e quasi la soffocava fra le sue braccia; questa tremava, pareva fosse lì lì per svenire, solo che egli le toccasse una mano.
Era una stupida! Si sa: veniva da Melegnano! Pure, l’odore di quei capelli?… Che odore strano, acuto, quasi selvaggio!
Che male c’è a farsi mostrare i capelli? Se era lei, lei stessa che aveva la smania di farglieli vedere?
Che male c’era a scherzare?… I baci tra cugini sono di regola.
Ridere, scherzare, nient’altro. Egli era un galantuomo – saperlotte!
Un giorno, una domenica, il babbo e i fratelli erano fuori, la mamma, al solito, nello scrittoio, e Giacomo, che teneva d’occhio la Cammilla, la vide uscir dal fondaco, attraversare il cortile, salir le scale. – Certo andava in camera sua. – Mancava poco all’ora del pranzo; andava in camera sua per ripulirsi e ravviarsi i capelli.
Giacomo si sentì spuntare una certa tentazione che lo mise in orgasmo.
Se fosse salito, se fosse entrato a sorprenderla?
Che c’era di male?… Esitò, aggrottò le ciglia. Ma, come un baleno, gli passò nella fantasia la visione di Fanny in sottanino, colle spalle nude: fece le scale di corsa e volle aprir l’uscio della ragazza, ma, lo trovò chiuso.
– Cammilla – bisbigliò – Cammilla…
Subito l’uscio s’aprì.
Egli rimase su due piedi, impacciato, sorridendo.
Essa lo chiamò con un accenno del capo, e poi chiuse l’uscio pianino, trattenendo il respiro per non farsi sentir di fuori.
La cameretta in quella penombra del crepuscolo era rischiarata appena dal fanale della strada, che stava proprio di faccia alla finestra.
– Vuoi i miei capelli?…
L’altro, guardandola, tremava, respirava ansante.
– Prendili, sono tuoi. – E chinando il capo, si appoggiò tutta contro il suo petto.
Giacomo non si mosse; con le labbra, appena, le sfiorò i riccioli del collo.
– Prendili, sono tuoi. – E Cammilla, rapidamente, snodate le treccie, cacciò le due mani dietro la nuca, sollevò tutta la massa bionda dei capelli e la rovesciò sulla testa di Giacomo. Questi baciò la faccia, gli occhi, cercò la bocca che lo cercava, e impresse un bacio sulle labbra tumide, ardenti.
Ma tosto le sentì diventar fredde ed esangui, mentre tutta la persona gli sfuggiva dalle braccia, e, prima che potesse trattenerla, scivolava a terra tramortita.
– Cammilla! Cammilla!… – balbettò Giacomo fuori di sè. Nella fioca luce della cameretta vide il lettuccio bianco; cercò di rialzare, per adagiarvela, la fanciulla svenuta; ma era troppo forte il suo tremito, il suo turbamento; si guardò attorno smarrito… poi scese a precipizio giù per le scale, afferrò nell’andito il cappello, il paltò, e continuò a fuggire infilando la porta.
XII
L’aria frizzante della strada lo rimise in calma; cascava un nevischio minuto, e lui si levò il cappello per sentir sulla fronte il contatto di quelle goccioline ghiacciate. Così rinfrancatosi, sorrise del suo spavento.
– Un leggero deliquio; forse Cammilla lo ha fatto apposta. No, no; questo no, – Sentì rimorso di un tale sospetto, e nel tempo stesso si vergognò e s’arrabbiò di ciò che aveva fatto e tentato.
– In casa nostra: la nipote di mio padre, mia sorella, quasi!
Era stato sul punto di commettere un delitto, un odioso delitto; e senza un perché, senza una scusa.
La Cammilla?… Egli l’aveva sempre vista, senza curarsene nè punto nè poco; non gli era mai piaciuta, non l’amava.
No; sentiva di non amarla; non l’amava. Era stato un turbamento, un capriccio. Sopito l’eccitamento dei sensi, la Cammilla era ritornata quella di prima, indifferente, anzi seccante per le sue premure e per quegli occhi sempre facili al pianto e sempre in adorazione. Non sentiva più l’odore, l’acuta fragranza dei capelli biondi: non sentiva più l’allegro e giovanile tic-tac degli stivaletti risonare nei cameroni del fondaco: tutto il fascino era dileguato; essa era tornata come una volta, la Cammilla di Melegnano col naso lungo e il mento storto, la Cammilla che cucinava e lavava i piatti colle mani gonfie, rosse, screpolate.
E la ripugnanza s’accrebbe in lui per il pericolo corso di sposarla.
Ah no; sposarla no; non l’avrebbe mai sposata. Voleva essere libero; voleva divertirsi; e poi con quella lì? legato alla catena per tutta la vita? Ah no; con quella lì, anche meno che con un’altra.
Era proprio sfuggito a un gran rischio: era un galantuomo lui! e un po’ più, ci restava impaniato per davvero!
– E adesso?… Che fare?
– Tornare a casa? Ritrovarsela tra i piedi? Tutti i giorni, tutte le ore, aver sempre davanti quegli occhi imploranti che lo avrebbero tormentato colle tante accuse, o peggio angustiato coll’umile e devota rassegnazione?
Oh Dio, che bisogno aveva di un po’ di Fanny, la Fanny ridente, la Fanny sempre allegra!
Ma no, partire piuttosto, per sempre, in mare, in capo al mondo, come voleva sua madre.
Anche questa del partire però sarebbe stata una bella penitenza. E sospirò: era proprio disgraziato.
Intanto bisognava tornare a casa; non c’era verso, bisognava tornare a casa e spiegarsi con Cammilla.
L’aveva ingannata, doveva disingannarla.
Che cosa le avrebbe detto?
Che aveva scherzato?… che aveva fatto per chiasso?… E lei, che cosa avrebbe potuto rispondere? – Se scherzavi tu, sapevi che non scherzavo io. Sapevi ohe ti davo, coll’anima, il mio sangue, il mio onore, e ti sei comportato con me, con la nipote di tuo padre, in casa tua, come con una servaccia d’albergo.
Ma che! la Cammilla non avrebbe risposto così, non avrebbe risposto niente; tutt’al più un singhiozzo represso, e sarebbe stato peggio.
Eppure, sì, bisognava spiegarsi, parlar chiaro, una volta per sempre.
Ma era ancora presto: poteva aspettare una meza’oretta. E continuò a passeggiare sotto il nevischio, col vento gelato in faccia, per le viuzze buie, diguazzando nelle pozze e affondando nel fango e nella neve. Finalmente, stracco e rifinito – non aveva ancora desinato; e la fame, senza che lui se ne accorgesse, gli raddoppiava l’uggia ed il freddo nelle ossa – si trovò, per caso, sulla piazza del Duomo, anch’essa, in quella prima ora della sera, deserta e melanconica sotto il vento e la neve. Soltanto attorno al Duomo le vetture da nolo ferme e nere, e i tram risonanti che passavano al trotto dei cavalli, pieni di ombre vaghe dietro i cristalli appannati… più oltre, sotto la galleria e sotto i portici, una lunga distesa di luce squallida, donde, tra le falde della neve, echeggiavano le vociacce degli strilloni:
– La gran vittoria degli Italiani in Africa!
Giacomino non attraversò la galleria, continuò a passeggiare fuori dei portici; nondimeno, pensando che sotto i portici c’erano il Biffi e il Savini, sentì quasi il tepore e il profumo dei cibi e si accorse che aveva fame. Ma non aveva un soldo in tasca; bisognava tornare a casa.
E il giorno dopo?… Sempre quella vita. Partire, per dove?… E poi suo padre non lo avrebbe lasciato partire.
Giacomo aveva notato il gran mutamento avvenuto nei rapporti fra il babbo e la mamma; e credendo di aver indovinato, spiegava tutto a suo modo: il babbo aveva avuto il gran coraggio dei disperati, aveva messi i piedi al muro perché la cambiale fosse pagata e Giacomino non fosse imbarcato, tantoché la mamma aveva dovuto finire col baciar basso.
– La gran vittoria degli Italiani in Africa!
Il vento si era fatto più forte e più gelato, e Giacomo non poteva più andare avanti. Si calcò il cappello in testa perché non gli volasse via, e facendo una giravolta si trovò in faccia ad una donna cenciosa, che pareva una strega, con una cassetta di fiammiferi e di giornali appesa al collo.
– Supplemento straordinario! – borbottò con voce da ubbriaca. – La gran vittoria degli Italiani in Africa!
Giacomo scansò la donna e tirò dritto, giù per il Corso; ma poi a un tratto esclamò:
– In Africa! Saperlotte!
La sua risoluzione era presa.
La Cammilla, quella sera, non si era fatta vedere. Il signor Daniele era salito domandandole, di dietro l’uscio, perché non scendesse a pranzo, ed essa gli aveva risposto che era a letto coll’emicrania, che non aveva bisogno di nulla, che il giorno dopo sarebbe stata bene. E il giorno dopo, infatti, si alzò prestissimo; sapeva, presentiva che si sarebbe incontrata con Giacomino, e che quel loro colloquio sarebbe stato l’ultimo; il suo cuore non aveva più speranza. Quando nella sua cameretta si era riavuta e riaperti gli occhi si era trovata sola, per terra, aveva capito che l’abbandono di quel momento era l’abbandono di tutta la vita. Non pianse, non sospirò. Si alzò pallida, aggrottando le ciglia, e una prima ruga solcò la sua fronte candida e serena.
– Io sì però; io sempre. Lui solo, e nessun altro.
S’incontrarono nel fondaco e daccapo nell’ultimo stanzone.
Giacomo era là ad aspettarla: a lei nessuno glielo aveva detto, ma vi andò difilata.
– Sai – le disse subito Giacomino – oggi vado al Distretto per arruolarmi: sono già inteso con mio padre. Farò la domanda per entrare nel ventiquattresimo fanteria, a Torino; c’è un capitano che è mio amico.
La fanciulla lo guardava fisso, restando immobile e muta. Egli aveva altro a dirle, e lei voleva udir tutto.
– Sai perché non vado più in cavalleria, com’era stata la mia prima idea? Questo, ancora non l’ho detto a mio padre; lo saprà a suo tempo. Perché voglio andare in Africa a battermi.
Gli occhi grandi e celesti che fissavano Giacomo si empirono di lacrime; il seno della fanciulla batteva forte forte sotto il grembiule di percallina; ma essa rimaneva immobile e muta: voleva udir tutto.
– Capirai – ripigliò il giovinetto dopo un momento – io resterò lontano molti anni.
– Aspetterò – rispose semplicemente la Cammilla con una voce così grave e lenta, che pareva uscisse dal più profondo dell’anima.
– Potrei anche non tornar più. Io, peraltro, non posso, non devo ingannarti – riprese Giacomo abbassando lo sguardo, titubando, sentendo tutto il rossore della vigliaccheria che stava per commettere. – Io lo dico, perché devo dirtelo francamente, per il tuo avvenire, perché tu devi essere libera… affatto libera… capirai, interamente libera.
– Ho capito – rispose la fanciulla interrompendolo. – Ho capito tutto, ma non importa, aspetterò – sempre.
– E se io ti dicessi… – principiò l’altro con un fremito d’impazienza nella voce rauca; poi si fermò.
– Che cosa puoi dirmi, che non mi sia detto anch’io?… Ma non importa; per me è così, è sempre stato così, sarà sempre così.
Tre mesi dopo, il fondaco Monghisoni era sossopra. Doveva arrivare Giacomo da Torino, per salutare la famiglia e ripartire per l’Africa.
La signora Maddalena aveva ripreso da due o tre giorni, e per questo fatto, a dar le sue grandi strapazzate.
Chi la capiva più? Lei che aveva sempre voluto liberarsi di quel manigoldo, mandandolo in mare, in capo al mondo, adesso che egli si era arruolato, che doveva proprio ripartire quella sera stessa irremissibilmente, adesso la signora Maddalena era su tutte le furie e strillava contro tutti, cominciando da quell’Africa maledettissima, la rovina del commercio, poi contro il Governo, contro i commessi e i facchini che si perdevano in chiacchiere, contro Temistocle e Gian Maria che non avevano cuore. Fissava sulla Cammilla certi sguardi rabbiosi; pieni d’ironia e di sarcasmo, come per dirle:
– Nemmeno tu sei stata capace di tenerlo a casa. Se tu avessi saputo fare, quello lì, invece di andare in Africa, avrebbe potuto sposarti e mettere giudizio. – Stupida! Stupida la Cammilla! Stupida io!
– Forse – pensava la signora Maddalena – anzi, senza forse, certo, certissimo, se ci fosse stato di mezzo un po’ di tempo, tre mesi, un. mese, quindici giorni, avrei potuto avvezzarmi. Ma così, detto fatto, da un’ora all’altra, senza remissione, senza nemmeno potersi fermare fino al treno dopo, per non passare da disertore…
Sicuro, essa aveva voluto imbarcarlo, quando Giacomino ne faceva di tutti i colori, anche adesso lo avrebbe mandato via per un anno, per due, perché si facesse uno stato indipendente. Ma non a farsi scannare in quella maledettissima Africa!
Soltanto quando c’era Daniele, taceva; marito e moglie si scansavano il più possibile; l’uno avendo quasi vergogna dell’altro, pel proprio dolore.
Daniele, per conto suo, si spiegava quella risoluzione del figliuolo col suo amore per la signorina Fanny, amore che il povero ragazzo non era riuscito a vincere.
– Certo non può.... non potrà mai dimenticarla!
E il buon Daniele, fra le lacrime che gli solcavano le gote smorte e gli rigavano il naso verdognolo, nella sua grande ambascia pel figliuolo che partiva, sospirava, sospirava pure per quell’altra, dietro a quell’altra lontana… il sogno, la visione; il solo punto luminoso della sua vita oscura e misera: la figuretta nera nell’amazzone attillata, a cavallo di Gladiator, il cappello a cilindro e il garofano rosso…
E Gladiator, tutto dritto, che zampava in aria? e il grido, quel grido dalla vocina acuta e ridente: hop!
Il signor Daniele rabbrividiva, poi sorrideva, poi tornava a sospirare profondamente.
No, no, no; il povero ragazzo non avrebbe mai potuto dimenticarla.
Intanto Giacomino, coi distintivi di caporal maggiore sulla giubba di tela e coll’elmetto dei soldati d’Africa, destava la meraviglia dei commessi, dei fattorini, di tutta la gente del fondaco. Colle mani in tasca e colla sigaretta in bocca, battendo a terra la punta del piede in atto di spavalderia soldatesca, raccontava i fasti del quartiere, come aveva saltata la barra, come aveva risposto a tono al tenente, come avrebbe fatto in Africa e tornando d’Africa a passare in cavalleria, perchè, già, non voleva rimanere a lungo fra i pista pauta.
No, non era più Giacomino: come si era mutato in quei tre mesi!
Aveva perduto l’aspetto fanciullesco e l’umore allegro, aveva perduto quell’ingenua freschezza che rendeva simpatiche anche le sue mariuolerie. Sogghignava, invece di sorridere, e la bocca giovanile, coi denti bianchi sotto i baffi impeciati, puzzava di acquavite; nel parlare, mischiava un po’ di piemontese a un po’ di napoletano, e mentre Temistocle ammirava la sua daga e Gian Maria si provava l’elmetto, egli seguiva con l’occhio freddo e indifferente ogni passo della Cammilla per essere pronto a schivarla se gli fosse venuta appresso.
– Com’è diventata secca! – Accidenti! – E che naso!
Il signor Daniele, sempre più agitato e affannato, girava attorno al figliuolo; gli si accostava, lo chiamava; voleva pigliarselo lui una buona volta, lui solo, tutto per sè. Era l’ultimo giorno, le ultime ore, erano gli ultimi momenti! Gli voleva parlare, voleva sapere tutte le sue intenzioni, voleva che Giacomino gli aprisse il suo cuore.
– E se fosse pentito di andare in Africa?
Gli fé cenno col capo: poi gli battè sulla spalla.
L’altro non gli badava, nè si moveva, sempre beato di farsi ammirare da tutto il fondaco. Daniele aspettava che Giacomino avesse finito; rideva anche lui cogli altri; ma soltanto a fior di labbra. Aveva bisogno di star solo con lui, ma non osava interromperlo.
No, non era più il suo Giacomino; non era più quello di una volta; adesso era diventato più alto, più forte, più bello; si era fatto uomo e il signor Daniele si sentiva intimidito dalla sua divisa, dal suo gergo soldatesco, dal suo piglio di spaccamontagne.
Finalmente si fece coraggio: sapeva o immaginava che anche Maddalena avrebbe avuto da parlare al figliuolo e voleva essere il primo.
Lo prese a braccetto:
– Scusa, un momentino, due parole soltanto. – E se lo portò in fondo allo stanzone, dietro al banco, dove aveva la sua seggiola.
– Dimmi la verità… proprio la verità.... – balbettò il signor Daniele con voce supplichevole, e rotta da un singhiozzo.
– Sicuramente! – rispose Giacomo coll’aria seccata, e tenendo sempre le mani in tasca e la sigaretta in bocca.
– Sei pentito d’andare in Africa?
– Niente affatto.
– Se lo avessi saputo in tempo, io mi sarei opposto; non lo avrei permesso. Capisco tutto, ma una simile risoluzione, no, abbandonarmi, no!
– Due o tre anni, e poi si torna.
– Ma, non sai, per me che sono vecchio, come son lunghi, come possono essere lunghi due o tre anni?
– Che ci posso fare? – esclamò Giacomino con una gran boccata di fumo.
– Ho indovinato tutto, capisco tutto; ma dovresti avere un po’ di cuore, anche per me.
– E che ci posso fare? Non c’è rimedio!
– Io non me ne intendo; ma se si potesse mettere un cambio, io sono disposto a spendere quanto occorre. Oggi, ti pare così, ma domani ti pentirai. No? Ti pentirai. Lontano dalla tua famiglia, lontano da tutti. Credi così di… di dimenticare?… Quando ti troverai laggiù… solo; sarà peggio.
Giacomo non capiva dove suo padre andasse a parare. Ma tre mesi di quartiere, se lo avevano cambiato molto, non lo avevano cambiato del tutto. La faccia stravolta, le lacrime del povero uomo, a poco a poco, ritrovavano la via del suo cuore, ed egli si stizziva per paura d’intenerirsi come una volta.
– Laggiù ci sarà da menar le mani. Farà caldo laggiù; e non ci sarà tempo da pensare al resto.
Il signor Daniele rabbrividì: se glielo ammazzavano il suo figliuolo? Lo abbracciò strettamente, lo accarezzò, e gli disse sottovoce, baciandolo sui capelli:
– Dovevi pensare anche a me, e non soltanto a lei.
– A lei?.. A chi?
– Ho capito subito; ho capito tutto. Ti compatisco, ti compiango; ma non dovevi pensare soltanto a lei, dovevi pensare anche a me. – E continuava a stringerselo al cuore, ad accarezzargli e baciargli i capelli, a bagnargli il viso di lacrime.
– Ma lei?… Lei, chi? – continuava l’altro a ripetere, a domandare. – Lei?… Chi?
Il signor Daniele appoggiò tutta la faccia sul capo del figliuolo, e gli bisbigliò nei capelli con un lungo sospiro, con tutto lo strazio del suo cuore.
– La signorina… la signorina Fanny.
– La cavallerizza?… – La generalessa? – esclamò Giacomino con una gran risata, sciogliendosi vivamente dalle braccia del babbo. – Ma non sai… – E stava per raccontarne una molto bellina al babbo: stava per dirgli che monsieur Richard non era mai stato monsieur Richard, cioè che non era mai stato il fratello di sua sorella, quando ad un tratto fu interrotto dalla voce squillante della signora Maddalena che lo chiamava nello scrittoio.
– Vengo, mamma!
Giacomino si avviò, ma poi, vista la Cammilla, tornò indietro girando fra i barili e le botti; ma la ragazza che stava in vedetta, gli andò incontro risolutamente e lo fermò.
– Mi ha chiamato la mamma – disse Giacomo duramente. – Lasciami passare.
Cammilla non si mosse; lo guardò fisso cogli occhi aridi, bruciati dalle lacrime.
– Io, sempre. – Questo volevo dirti, e nient’altro. Io, sempre. Adesso va, – E sparì con un singhiozzo, mentre la signora Maddalena continuava a chiamare; Giacomino.
– Eccomi, mamma, eccomi! – ripetè il giovanotto, entrando in due salti nello scrittoio, e presentandosi dinanzi a sua madre ritto, impalato, come dinanzi al colonnello.