Kitabı oku: «Ora e per sempre», sayfa 4

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Corse alla porta, col cuore martellante, e la aprì di botto. Daniel era già scomparso. Emily guardò giù e vide che sulla soglia c’era un thermos. Lo raccolse, svitò il tappo e annusò. Sentì subito lo stesso aroma delizioso che veniva dalla casa di Daniel. Le aveva lasciato un po’ di zuppa.

Incapace di respingere le richieste del suo stomaco, Emily afferrò la zuppa e la divorò. Aveva un sapore fantastico, come niente che avesse mai mangiato prima. Daniel doveva essere un cuoco incredibile, un altro talento che andava ad aggiungersi alla pletora che già aveva. Musicista, lettore avido, cuoco e tuttofare – nonché arredatore di buon gusto – i talenti di Daniel si stavano davvero ammucchiando.

*

Quella notte Emily si raggomitolò nel letto della camera principale, più comoda di quanto fosse stata la notte precedente. Aveva pulito le coperte e spolverato ogni angolo della stanza, togliendole l’odore dell’abbandono. Era bello avere la casa in una sorta di condizione vivibile – anche se alcuni termosifoni non funzionavano ancora bene. Ma sapere di aver portato a termine qualcosa, di essersi tenuta in piedi da sola per la prima volta negli ultimi sette anni, la rendeva davvero orgogliosa. Se solo Ben avesse potuto vederla adesso! Si sentiva davvero diversa dalla donna che era quando stava con lui.

Per la prima volta da tanto tempo, Emily non vedeva l’ora che arrivasse il domani e ciò che il nuovo giorno le avrebbe portato: nello specifico, la corrente. Se avesse avuto un frigorifero e un forno funzionanti avrebbe potuto finalmente cucinare. Forse anche ripagare i favori che Daniel le aveva fatto preparandogli un pasto. Voleva sistemare le cose con lui almeno prima di andarsene, dato che praticamente era piovuta nella sua vita per portarci il caos.

Più Emily pensava alla prospettiva di tornare a casa, più capiva che non voleva farlo. Nonostante le difficoltà e le tribolazioni con cui aveva già dovuto fare i conti negli ultimi due giorni in quella casa, sentiva di avere un obiettivo qui, cosa che non aveva da anni.

Che cos’aveva di preciso a New York per cui valesse la pena ritornare? C’era Amy, certo, ma lei aveva la sua vita e non erano disponibile tanto spesso. Emily pensò allora che forse sarebbe stata una bella idea allungare un po’ la sua vacanza. Un lungo weekend nella casa era difficile che bastasse a sistemare tutto, e sarebbe stato uno spreco di energia far funzionare la corrente se poi doveva fare le valigie e ripartire di lì a poco. Una settimana sarebbe stata meglio. E poi doveva davvero conoscere a fondo la casa casa e il Maine, ricaricare davvero le batterie e prendersi del tempo per capire ciò che realmente voleva.

Nella vecchia camera dei suoi genitori si sentiva comoda e a suo agio, ed Emily venne colta da un improvviso ricordo di quando veniva qui da piccola, ad accoccolarsi tra di loro e ascoltare suo padre leggerle delle storie. Era qualcosa di cui avevano fatto un’abitudine, un modo per lei di sentirsi vicina ai suoi che sembravano, nella sua giovane mente, preoccupati della sua nuova sorellina, Charlotte. Solo attraverso i suoi occhi di adulta, Emily capì che non era tanto la preoccupazione nei confronti di Charlotte a impensierirli, quanto il rendersi conto che il loro matrimonio era spacciato.

Emily scosse la testa, non volendo ricordare, non volendo rivivere quei ricordi che aveva bandito da molti anni. Ma per quanto ci provasse, non riusciva a impedire che le si riversassero nella mente. La stanza, la casa, i ninnoli disseminati qua e là le ricordavano suo padre, tutti culminavano nella sua mente, riportandole alla memoria terribili ricordi che si era sforzata tanto di dimenticare.

I ricordi di come le storie narrate nella grande camera da letto principale un tragico giorno erano finite brutalmente; il giorno in cui la vita di Emily era cambiata per sempre, il giorno in cui il matrimonio dei suoi aveva fatto i conti con la sua finale e imbattibile tempesta.

Il giorno in cui sua sorella era morta.

CAPITOLO CINQUE

Dopo una notte di sonno profondo e pieno di sogni, Emily si svegliò con il caldo sulla pelle. Era così strano ormai per lei non sentire freddo che scattò a sedere, subito in allerta, per scorgere un frammento di luminosa luce del sole che si diffondeva da una fessura delle tende. Si riparò gli occhi scendendo dal letto e andò alla finestra. Tirando le tende Emily gioì della vista che le si apriva di fronte. C’era il sole, e si rifletteva brillantemente sulla neve, che si scioglieva veloce. Sui rami degli alberi vicini alla finestra, Emily vide gocce d’acqua che scendevano una a una dai ghiaccioli, e la luce del sole che le trasformava in gocce di arcobaleno. La vista le tolse il fiato. Non aveva mai visto nulla di così bello.

La neve si era sciolta abbastanza da far sì che Emily decidesse che ora era possibile avventurarsi in città. Aveva così tanta fame, come se la consegna della zuppa da parte di Daniel del giorno prima le avesse risvegliato l’appetito che aveva perso dopo il dramma della rottura con Ben e il licenziamento. Indossò i jeans e una t-shirt, e poi la giacca elegante sopra al top perché era l’unica cosa che aveva assomigliasse un po’ a un cappotto. Era un po’ strana nel complesso, ma pensò che la maggior parte della gente avrebbe comunque guardato la straniera con il catorcio parcheggiato abusivamente davanti alla casa abbandonata, quindi la sua tenuta era l’ultimo dei suoi problemi.

Emily scese veloce i gradini fino all’ingresso, poi spalancò il portone sul mondo. Il caldo le baciò la pelle e sorrise a se stessa, sentendo un’ondata di gioia.

Seguì il sentiero che Daniel aveva scavato lungo la via e seguì la strada che portava all’oceano dove ricordava dovessero esserci i negozi.

Mentre passeggiava, fu un po’ come tornare indietro nel tempo. Il luogo era del tutto immutato, gli stessi negozi che c’erano vent’anni prima svettavano ancora orgogliosi. La macelleria, il panificio, era tutto come se lo ricordava lei. Il tempo li aveva cambiati, ma solo nelle piccole cose – le insegne erano più vistose, per esempio, e i prodotti all’interno erano più moderni – ma sembravano gli stessi. Era tutto molto caratteristico – e ne gioì.

Emily era così assorta che non notò il pezzo di ghiaccio sul marciapiede davanti a lei. Ci scivolò sopra e cadde distesa a terra.

Senza fiato, distesa sulla schiena, gemeva. Sopra a lei apparve un viso, vecchio e gentile.

“Le serve una mano?” chiese il signore, allungando un braccio.

“Grazie,” rispose Emily accettando la sua gentile offerta.

La rimise in piedi. “Si è fatta male?”

Emily fece scrocchiare il collo. Era dolente, ma era impossibile capire se fosse per la caduta dalla credenza della lavanderia di ieri o per la scivolata sul ghiaccio di oggi. Avrebbe voluto non essere così imbranata.

“Sto bene,” rispose.

L’uomo annuì. “Ora, vado subito al punto. Lei è quella che sta alla vecchia casa sulla West Street, vero?”

Emily sentì l’imbarazzo strisciarle dentro. La metteva a disagio essere al centro dell’attenzione, la fonte del gossip da paesino. “Sì.”

“Allora ha comprato la casa di Roy Mitchell?” chiese.

Emily si bloccò al sentire il nome di suo padre. Che l’uomo che le stava di fronte lo conoscesse le fece barcollare il cuore con una strana sensazione di dolore e speranza. Esitò un momento, cercando di orientarsi, di ricomporsi.

“No, io, ehm, sono la figlia,” balbettò alla fine.

Gli occhi dell’uomo si spalancarono. “Allora tu devi essere Emily Jane,” disse.

Emily Jane. Era un nome irritante per lei. Non veniva chiamata così da anni. Era il nomignolo con cui la chiamava suo padre, un’altra cosa che era scomparsa dalla sua vita improvvisamente il giorno in cui Charlotte era morta.

“Solo Emily, adesso,” replicò.

“Be’,” disse l’uomo guardandola bene, “sei cresciuta adesso, eh?” Rise in modo gentile, ma Emily era rigida, come se la sua capacità di sentire le fosse stata succhiata via, lasciandole un buco nero nello stomaco.

“Posso chiederle chi è?” chiese. “Come conosce mio padre?”

L’uomo ridacchiò ancora. Era amichevole, una di quelle persone che riescono facilmente a mettere gli altri a loro agio. Emily si sentiva un po’ in colpa per la sua rigidità, per la scontrosità newyorkese che aveva acquisito negli anni.

“Io sono Derek Hansen, il sindaco. Io e tuo padre eravamo amici. Andavamo a pescare insieme, giocavamo a carte. Sono stato a cena da voi molte volte ma sono sicuro che eri troppo piccola per ricordartene.”

Aveva ragione, Emily non se ne ricordava.

“Be’, è un piacere conoscerla,” disse, desiderando interrompere subito la conversazione. Che il sindaco si ricordasse di lei, cose che lei non ricordava, la faceva sentire strana.

“Anche per me,” rispose il sindaco. “E dimmi, Roy come sta?”

Emily si irrigidì. Allora lui non sapeva che suo padre un giorno aveva preso e se n’era andato. Dovevano aver pensato che avesse smesso di venire alla casa per le vacanze. Perché avrebbero dovuto pensare qualcos’altro? Persino un buon amico, come Derek Hansen diceva di essere, non avrebbe dovuto necessariamente pensare che una persona fosse scomparsa nel nulla per non tornare mai più. Non era il primo pensiero che faceva il cervello. Certamente non era stato il primo pensiero di Emily.

Emily vacillò, non sapeva come rispondere a quella domanda apparentemente innocua eppure incredibilmente esplosiva. Divenne conscia del fatto che stava cominciando a sudare. Il sindaco la guardava con un’espressione strana.

“È morto,” disse senza riflettere, sperando che la risposta avrebbe messo fine alle domande.

Così fu. L’espressione dell’uomo si fece grave.

“Mi dispiace sentirlo,” rispose il sindaco. “Era un grande uomo.”

“Sì, è vero,” disse Emily.

Ma nella sua mente pensava: lo era davvero? Aveva lasciato lei e sua madre nel momento in cui avevano più bisogno di lui. L’intera famiglia piangeva la perdita di Charlotte ma era stato lui a decidere di scappare dalla sua vita. Emily riusciva a capire il bisogno di scappare dai propri sentimenti, ma abbandonare la propria famiglia era una cosa che non riusciva a comprendere.

“Farei meglio ad andare,” disse Emily. “Devo prendere delle cose.”

“Certo,” rispose il sindaco. Il suo tono era sobrio adesso, ed Emily si sentiva responsabile per avergli tolto la sua gioia. “Riguardati, Emily. Sono sicuro che ci incontreremo ancora.”

Emily salutò con un cenno e si affrettò ad andarsene. L’incontro con il sindaco l’aveva innervosita, risvegliando altri pensieri e sentimenti che aveva seppellito nel corso degli anni. Corse al negozio di alimentari e sbatté la porta chiudendo fuori il mondo esterno.

Afferò un cestino e cominciò a riempirlo di roba – batterie, carta igienica, shampoo e una tonnellata di zuppa in scatola – poi andò al bancone dove una donna pienotta stava in piedi alla cassa.

“Salve,” disse la donna sorridendo a Emily.

Emily si sentiva ancora a disagio per via dell’incontro di poco prima. “Salve,” borbottò, appena capace di incrociare lo sguardo della donna.

Mentre passava gli articoli e li imbustava, la donna continuava a guardare di sottecchi Emily. Emily seppe istantaneamente che l’aveva riconosciuta, o che sapeva chi fosse. L’ultima cosa che poteva affrontare adesso era un’altra persona che le chiedesse di suo padre. Non era sicura che il suo fragile cuore avrebbe potuto reggere. Ma era troppo tardi, la donna sembrava sul punto di dire qualcosa. C’erano solo quattro articoli nel cestino traboccante. Sarebbe rimasta incastrata lì per un po’.

“Tu sei la figlia maggiore di Roy Mitchell, vero?” chiese la donna strizzando gli occhi.

“Sì,” rispose Emily con una vocina.

La donna batté le mani con entusiasmo. “Lo sapevo! Riconoscerei quella chioma ovunque. Non sei cambiata di una virgola dall’ultima volta che ti ho vista!”

Emily non si ricordava della donna, sebbene dovesse essere venuta qui in negozio spesso da ragazzina per fare scorta di chewing gum e riviste. Era fantastico vedere quanto si era staccata dal passato, quanto bene aveva cancellato la sua vecchia se stessa per diventare qualcun altro.

“Ho qualche ruga in più adesso,” rispose Emily, cercando di fare una conversazione educata ma fallendo nel suo proposito miseramente.

“Appena appena!” urlò la donna. “Sei carina come una volta. Non vediamo la tua famiglia da anni. Quanto tempo è passato?”

“Vent’anni.”

“Venti? Bene, bene, bene. Il tempo vola quando ci si diverte!”

Passò un altro articolo nella cassa. Emily desiderò in silenzio che si sbrigasse. Ma invece di riporre l’articolo nella borsa, si fermò, con il cartone del latte sospeso sopra la borsa. Emily alzò gli occhi per vedere la donna che fissava qualcosa in lontananza con uno sguardo remoto negli occhi e un sorriso sulla faccia. Emily sapeva che cosa stava per arrivare: un aneddoto.

“Mi ricordo di quando,” cominciò la donna ed Emily si preparò, “tuo padre ti stava costruendo una nuova bicicletta per il tuo quinto compleanno. Passava al setaccio il paese in cerca dei pezzi, mercanteggiando sui prezzi. Riusciva ad affascinare chiunque, vero? E adorava sul serio i mercatini dell’usato.”

Sorrideva raggiante a Emily adesso, annuendo in un modo che pareva suggerire che stesse incoraggiando anche Emily a ricordare l’episodio. Ma Emily non poteva. La sua mente era vuota, la bici non era altro che un fantasma nella sua testa evocato dalle parole della donna.

“Se ricordo bene,” continuò lei, tamburellando le dita sul mento, “finì col prendere tutto, il campanello, i nastri, e tutto quanto, per meno di dieci dollari. Ci passò sopra tutta l’estate, carbonizzandosi al sole.” Si mise a ridacchiare, e gli occhi le brillavano al ricordo. “E poi ti abbiamo vista sfrecciare per tutta la città. Eri così orgogliosa quando dicevi a tutti che te l’aveva costruita tuo papà.”

Le viscere di Emily si rimestavano, in una colata di emozione vulcanica. Come aveva potuto cancellare tutti quei bei ricordi? Come aveva potuto non apprezzare quei preziosi giorni di infanzia spensierata, di gioia familiare? E come aveva potuto lasciarli suo padre? In quale momento era passato dall’essere il tipo di uomo passa tutta l’estate a costruire una bicicletta per la figlia al tipo di uomo che se ne va per non tornare mai più?

“Non me lo ricordo,” disse Emily con un tono che le uscì brusco.

“No?” chiese la donna. Il sorriso cominciò a svanire, come scucendosi. Ora sembrava piantato lì più per cortesia che per spontaneità.

“Potrebbe…” disse Emily con un cenno in direzione della scatoletta di mais sospesa nella mano della donna, cercando di spingerla a continuare.

La donna abbassò lo sguardo, quasi sorpresa come se si fosse dimenticata perché fosse lì, come se avesse pensato di chiacchierare con una vecchia conoscenza invece di servirla.

“Sì, certo,” disse, e il sorriso sparì del tutto adesso.

Emily non riusciva a far fronte ai sentimenti che provava dentro. Stare nella casa l’aveva fatta sentire felice e contenta, ma il resto di quella città la faceva sentire orribile. C’erano troppi ricordi, troppe persone che ficcavano il naso nei suoi affari. Voleva tornare in casa il prima possibile.

“Dunque,” disse la donna, non volendo o non potendo smettere di chiacchierare a vuoto, “quanto a lungo pensi di fermarti?”

Emily non riuscì a fare a meno di leggere tra le righe. La donna voleva dire, quanto a lungo ti intrufolerai nella nostra città con la tua aria scontrosa e il tuo atteggiamento stizzoso?

“Non ne sono sicura,” rispose Emily. “All’inizio doveva essere un weekend lungo, ma ora penso una settimana. Due, forse.”

“Dev’essere bello,” disse la donna imbustando l’ultimo articolo di Emily, “avere il lusso di una pausa di due settimane quando ti va.”

Emily si irrigidì. La donna era passata dall’essere gentile e felice a maleducatissima.

“Quanto le devo?” chiese, ignorando la frase.

Emily pagò e si raccolse le borse al petto, correndo fuori dal negozio più veloce che poteva. Non voleva più restare in città, la faceva sentire claustrofobica. Corse a casa, chiedendosi che cosa esattamente di quel posto avesse fatto innamorare suo padre.

*

Emily arrivò a casa per scoprire che un furgoncino elettrico era parcheggiato fuori. Si lasciò subito l’esperienza in paese alle spalle, scacciando le emozioni negative che sentiva proprio come aveva imparato a fare da bambina, e si permise di sentirsi entusiasta e speranzosa per la prospettiva di aver sistemato un altro grosso problema della casa.

Il furgoncino si avviò ed Emily capì che stavano per andarsene. Daniel doveva averli fatti entrare in casa a suo nome. Mise giù le borse e gli corse dietro, agitando le braccia mentre scendevano dal cordolo. Vedendola, il conducente si fermò e abbassò il finestrino, sporgendosi di fuori.

“È lei la proprietaria?” chiese.

“No. Be’, più o meno. Vivo lì,” disse ansimando. “Siete riusciti a dare la corrente?”

“Sì,” rispose l’uomo. “Fornelli, frigorifero, luci, abbiamo controllato tutto e adesso funzionano.”

“Fantastico!” disse Emily estatica.

“Il fatto è,” continuò l’uomo, “che ha qualche problema di sovraccarico. Probabilmente perché la casa è in pessimo stato. Ci saranno dei topi che si mangiano i cavi, una cosa del genere. Quand’è stata l’ultima volta che è salita nella mansarda?”

Emily scrollò le spalle mentre l’entusiasmo svaniva.

“Be’, farà bene a chiamare qualcuno della manutenzione in modo che dia un’occhiata lassù. Il sistema elettrico che ha lei è obsoleto. È un miracolo che siamo riusciti ad avviarlo, a essere sinceri.”

“Okay,” disse Emily con voce flebile. “Grazie per avermelo detto.”

L’uomo annuì. “Buona fortuna,” disse prima di partire.

Non disse altro, ma Emily riuscì a sentire il resto della frase nella mente: ne avrà bisogno.

CAPITOLO SEI

Emily si svegliò tardi il terzo giorno. Era quasi come se il suo corpo sapesse che era lunedì e che lei sarebbe arrivata al lavoro di corsa come sempre, spintonando i pendolari per salire sulla metro, schiacciandosi tra adolescenti annoiati e mezzi addormentati che masticavano chewing gum e uomini d’affari con gomiti protesi come se si rifiutassero di cedere i loro documenti, e avesse deciso di meritarsi di restare a letto fino a tardi. Scostando le coperte, con la testa intontita e gli occhi appannati, si chiese quand’era stata l’ultima volta che aveva dormito fin dopo le sette del mattino. Probabilmente non lo faceva da quando aveva vent’anni, da prima di incontrare Ben, un periodo in cui le feste con Amy erano all’ordine del giorno.

Giù in cucina, Emily trascorse molto tempo a preparare il caffè con la caffettiera e a cucinare i pancake usando gli ingredienti che aveva comprato al negozio. Le riempì il cuore di piacere vedere le credenze ora traboccanti, sentire il ronzio del frigorifero. Per la prima volta da quando aveva lasciato New York, si sentì come se si fosse rimessa in sesto, almeno abbastanza da sopravvivere all’inverno.

Assaporò ogni boccone del pancake, ogni sorso di caffè, sentendosi riposata, calda e rinvigorita. Invece dei rumori di New York City, tutto quello che Emily poteva sentire erano le onde lontano dell’oceano che lambivano la terra, e uno sgocciolio delicato e ritmato come del ghiaccio che si stava sciogliendo. Si sentì in pace per la prima volta dopo tanto tempo.

Dopo la colazione rilassante, Emily pulì la cucina da cima a fondo. Strofinò ogni piastrella, rivelando l’intricato motivo William Morris sotto alla sporcizia, poi lucidò il vetro delle ante della credenza, facendo brillare i disegni in vetro colorato.

Esaltata dal fatto di aver reso la cucina in quello stato fantastico, Emily decise di affrontare un’altra stanza, una a cui ancora non aveva dato un’occhiata per paura che le sue pessime condizioni l’avrebbero sconvolta. Era la biblioteca.

La biblioteca era stata di gran lunga la sua stanza preferita da bambina. Adorava il modo in cui era divisa in due da porte scorrevoli in legno bianco in modo da potersi chiudere in un angolino per leggere. E certo adorava tutti i libri che conteneva. Il padre di Emily non faceva lo snob quando si trattava di libri. La sua idea era che ogni testo scritto valesse la pena di essere letto, e così le aveva permesso di riempire gli scaffali con romanzi rosa da teenager e tragedie studiate al liceo, con copertine kitsch che raffiguravano tramonti e profili di uomini muscolosi. A Emily venne da ridere quando tolse la polvere dai libri. Era come se un imbarazzante pezzo della sua storia fosse rimasto preservato. Se la casa non fosse stata disabitata così a lungo, sicuramente li avrebbe buttati via a un certo punto nel corso degli anni. Ma a causa delle circostanze erano rimasti lì, a raccogliere polvere mentre il tempo passava.

Rimise sullo scaffale il libro che teneva in mano con un senso di malinconia che le si fissava dentro.

Poi Emily decise di dare retta al consiglio dell’uomo e di salire nella mansarda per controllare i cavi. Se erano davvero danneggiati dai topi non era sicura di quale sarebbe stata la sua prossima mossa – spendere il denaro necessario per le riparazioni o resistere per il resto del tempo che avrebbe trascorso nella casa. Non sembrava ragionevole investire nella proprietà se contava di rimanerci per due settimane al massimo.

Tirò giù la scala a pioli retrattile, tossendo quando una nuvola di polvere cascò dall’oscurità sopra di lei, poi sbirciò attraverso lo spazio rettangolare che si era aperto. La mansarda non la spaventava quanto la cantina, ma il pensiero delle ragnatele e della muffa non le metteva un grande entusiasmo. Per non parlare dei potenziali topi…

Emily salì la scala con attenzione, molto lentamente, emergendo nella stanza un millimetro alla volta. Più in alto andava, più vedeva la mansarda. Era, come sospettava, colma di cose. I viaggi di suo padre ai mercatini dell’usato e alle fiere delle antichità spesso rendevano più cose di quante fosse possibile mettere in mostra nella casa, e sua madre aveva bandito alcune delle più brutte nella mansarda. Emily vide un comò in legno scuro che pareva avere duecento anni buoni, uno sgabello da cucito in pelle verde stinta, e un tavolino da caffè fatto di quercia, ferro e vetro. Rise, immaginandosi la faccia di sua madre quando il padre aveva portato tutta questa roba a casa. Era così lontana dal suo gusto! A sua madre piacevano le cose moderne, lucide e pulite.

Per forza avevano intenzione di divorziare, pensò Emily con sarcasmo. Se non riuscivano ad andare d’accordo neanche sull’arredamento, che speranza avevano di andare d’accordo su qualsiasi altra cosa!

Emily salì del tutto nella mansarda e si mise a guardarsi in giro in cerca di segnali di attività dei topi. Ma non trovò escrementi indicativi né cavi rosicchiati. Sembrava quasi un miracolo che non ci fossero orde di topi nella mansarda dopo così tanti anni di abbandono. Forse preferivano le case piene di vita dei vicini, con la loro costante scorta di briciole.

Soddisfatta che non ci fosse nulla di degno di nota nella mansarda, Emily si voltò per andarsene. Ma la sua attenzione venne catturata da un vecchio cassettone in legno fece riaffiorare un ricordo, riportandolo in superficie dal profondo di lei. Sollevò il coperchio e sussultò a vedere quel che c’era dentro. Gioielli; non veri, ma una collezione di grani e gemme, perle e cipree di plastica. Suo padre si assicurava sempre di portare qualcosa di “prezioso” a lei e a Charlotte e loro mettevano tutto nel cassettone, chiamandolo il cassettone dei tesori. Era diventato il pezzo forte di ogni gioco che facevano da bambine, di ogni storia che creavano.

Con il cuore che martellava per il vivido ricordo, Emily richiuse il coperchio e si alzò subito in piedi. Improvvisamente non se la sentiva più di esplorare.

*

Emily trascorse il resto della giornata a pulire, attenta a evitare ogni stanza che avrebbe potuto innescare un umore malinconico. Le sembrava una vergogna trascorrere il poco tempo che aveva soffermandosi sul passato, e se ciò voleva dire evitare certe stanze della casa allora l’avrebbe fatto. Se aveva potuto trascorrere tutta la sua vita evitando certi ricordi, poteva trascorrere qualche giorno evitando certe stanze.

Emily era finalmente riuscita a caricare il telefono e l’aveva lasciato sul tavolino di fronte al portone principale – l’unico posto in cui prendeva – perché le arrivassero tutti i messaggi che non aveva ricevuto durante il weekend. Rimase un po’ delusa nel vedere che ce n’erano solo due; uno da sua madre che la rimproverava di aver lasciato New York senza dirglielo, e uno da Amy che le diceva di chiamare sua madre perché stava facendo domande. Emily alzò gli occhi al cielo e rimise a posto il cellulare, poi andò in soggiorno dove era riuscita ad accendere il fuoco.

Si sistemò sul divano e sfogliò il romanzetto adolescenziale che aveva preso dallo scaffale della libreria. Leggere la rilassava, soprattutto quando non si trattava di qualcosa di faticoso. Ma questa volta non riuscì a concentrarsi. Tutta la storia sull’amore adolescenziale continuava a riportarla alle sue relazioni fallite. Se solo avesse capito da bambina la prima volta che aveva letto questi libri che la vita vera non aveva nulla a che fare con ciò che veniva raccontato in quelle pagine.

Proprio allora, Emily sentì bussare al portone. Seppe immediatamente che era Daniel. Non c’era nessun altro che avrebbe avuto una ragione per passare, nessun carpentiere, nessun imbianchino né falegname, e certo nessun uomo delle consegne delle pizza. Si agitò e andò nell’ingresso, poi gli aprì la porta.

Stava lì sulla soglia, illuminato alle spalle dalla luce del portico, con le falene che gli danzavano intorno.

“C’è la corrente,” disse indicando la luce.

“Sì,” disse lei con un largo sorriso, orgogliosa di aver raggiunto un obiettivo che lui sembrava così convinto che non avrebbe raggiunto.

“Immagino che ciò significhi che non ha più bisogno che le lasci la zuppa sulla porta,” disse.

Emily non capiva dal tono se si trattava di uno scambio di battute cordiale o se Daniel stesse usando la situazione come un’altra occasione per rimproverarla.

“No,” rispose, alzando la mano alla porta come per prepararsi a chiuderla. “C’era qualcos’altro?”

Daniel sembrava indugiare, come se avesse qualcosa in mente, delle parole che non sapeva come dire. Emily strinse gli occhi, sapendo, apparentemente in modo istintivo, che quello che avrebbe sentito non le sarebbe piaciuto.

“Be’?” aggiunse.

Daniel si grattò il retro del collo. “A dire il vero, be’, mi sono imbattuto in Karen oggi, quella del negozio di alimentari. Lei, ehm, non le ha fatto una buonissima impressione.”

“È venuto qui per dirmi questo?” chiese Emily, accigliandosi ulteriormente. “Che a Karen del negozio di alimentari io non piaccio?”

“No,” disse Daniel sulla difensiva, “In realtà ero venuto per sapere quando se ne andrà.”

“Oh be’, è davvero meglio, no?” ribatté Emily con sarcasmo. Non riusciva a credere a quanto cretino fosse Daniel, a venir lì per dirle che a nessuno piaceva per poi chiederle quando se ne sarebbe andata.

“Non volevo dire questo,” disse Daniel, sembrando esasperato. “Devo sapere quanto rimarrà qui perché tocca a me tenere la casa in piedi durante l’inverno. Devo drenare le tubature, spegnere la caldaia e fare un mucchio di cose. Voglio dire ha mai pensato a quanto le costerebbe scaldare questo posto per l’inverno?” Daniel osservò l’espressione di Emily, che gli diede la risposta di cui aveva bisogno. “Non credo.”

“È solo che ancora non ci ho pensato,” rispose Emily, cercando di giustificarsi dopo le accuse di lui.

“Ma certo che no,” rispose Daniel. “Se ne va a spasso per la città qualche giorno, fa qualche danno alla casa, e poi lascia che sia io a rimettere insieme i pezzi.”

Emily si stava innervosendo, e quando qualcuno la sfidava o la faceva sentire minacciata o stupida non poteva fare a meno di provare il bisogno di difendersi. “Sì, be’,” disse alzando la voce fino a urlare, “forse non me ne vado tra pochi giorni. Forse me ne sto qui tutto l’inverno.”

Chiuse di scatto la mascella, sconvolta di aver sentito quelle parole uscirle di bocca. Non aveva nemmeno avuto il tempo di pensarci prima di sputarle fuori, la bocca aveva fatto di testa sua.

Daniel la guardò sconcertato. “Non sopravvivrà mai in questa casa,” balbettò, scioccato dalla prospettiva che Emily restasse a Sunset Harbor, come sembrava voler fare. “La lascerà al verde. A meno che lei non sia ricca. E lei non sembra ricca.”

Emily indietreggiò davanti al sogghigno sul volto di lui. Non era mai stata così insultata. “Lei non sa niente di me!” urlò mentre le emozioni le tracimavano fuori in rabbia sincera.

“Ha ragione,” replicò Daniel. “Lasciamo le cose come stanno.”

Se ne andò ed Emily sbatté la porta. Rimase lì in piedi ad ansimare, con le vertigini per via dell’incontro acceso. Chi diavolo era Daniel per dirle quello che poteva o non poteva fare della sua vita? Lei aveva ogni diritto di stare nella casa di suo padre. A dire il vero, aveva più diritto di Daniel di farlo! Se qualcuno doveva essere infastidito dalla presenza di qualcun altro, quella doveva essere lei!

Fumando dalla rabbia, Emily camminava su e giù, facendo scricchiolare le assi del pavimento e alzando nubi di polvere. Non ricordava l’ultima volta che era stata così furiosa – persino quando aveva rotto con Ben e aveva lasciato il lavoro non aveva sentito quella lava bollente che le pulsava nelle vene. Smise di camminare, chiedendosi che cosa ci fosse in Daniel che la agitava così, che le rimescolava una passione furibonda dentro in un modo che il suo compagno in sette anni non era riuscito a fare. Per la prima volta da quando aveva incontrato Daniel, si chiese chi fosse, da dove venisse, cosa ci facesse là.

E se nella sua vita aveva qualcuno di speciale.

*

Emily trascorse il resto della serata riflettendo sul suo ultimo litigio con Daniel. Per quanto le avesse dato fastidio sentirsi dire che alla gente del paese non piaceva, e per quanto fosse stato frustrante condividere il suo spazio con lui, non poteva fare a meno di ammettere che si era innamorata della vecchia casa. Non solo della casa, ma della calma e del silenzio. Daniel aveva voluto sapere quando se ne sarebbe andata a casa, ma si stava rendendo conto di sentire questa come casa sua più di ogni altro luogo in cui aveva vissuto negli ultimi vent’anni.

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