Kitabı oku: «Ora e per sempre», sayfa 5
Con l’entusiasmo che le crepitava nelle vene, Emily corse al telefonino davanti al portone e chiamò la banca. Arrivò al menu automatico, digitò i codici di sicurezza necessari e ascoltò la voce robotica che le diceva il suo saldo. Si appuntò la cifra su un pezzo di carta in equilibrio sul ginocchio, con il tappo della penna stretto tra i denti e il cellulare incastrato tra il collo e la spalla. Poi portò il foglio nel soggiorno e si mise a fare due conti: il costo dell’elettricità e del gasolio, il costo di internet e quello per l’installazione di una linea telefonica fissa, la benzina per la macchina, il cibo. Una volta finito, capì di avere abbastanza soldi per vivere lì per sei mesi. Aveva lavorato così tanto e così a lungo in una città che lo richiedeva da aver perso di vista il quadro completo. Ora aveva l’opportunità di fermarsi, di non far nulla per un po’. Sarebbe stata una stupida a non coglierla.
Emily tornò a sedersi contro il divano e sorrise a se stessa. Sei mesi. Poteva davvero farlo? Restare lì, nella vecchia casa di suo padre? Si stava davvero innamorando delle vecchie mura di una casa, anche se non ne sapeva la ragione, se fosse per i ricordi che le rimestava dentro o per il legame con il suo padre perduto, non poteva esserne certa.
Ma decise di scoprirlo, da sola, e senza l’aiuto di Daniel.
*
Emily si svegliò martedì mattina con un’energia che non sentiva da anni. Aprendo le tende, vide che la neve se n’era quasi del tutto andata, svelando la verde erba incolta sui terreni attorno alla casa.
Invece della colazione indolente del giorno prima, Emily mangiò veloce e mandò giù il caffè in un sorso, prima di mettersi subito al lavoro. Le forze che aveva sentito durante le pulizie il giorno prima sembravano migliaia di volte più intense oggi, ora che sapeva che non sarebbe rimasta solo per una vacanza ma che si stava sistemando la casa per i sei mesi successivi. Se n’era andato anche il claustrofobico senso di nostalgia che aveva provato, la forte sensazione che nulla dovesse essere toccato, o spostato, o cambiato. Prima le era sembrato che la casa dovesse essere conservata o ripristinata nel modo in cui suo padre l’aveva voluta. Ma adesso sentiva che le era permesso metterci mano. Il primo passo per farlo era passare al setaccio gli ammassi di averi che suo padre aveva ammucchiato e dividere la spazzatura dalle cose di valore. La spazzatura, come i suoi ammassi di romanzetti estivi.
Emily corse in biblioteca, pensando che fosse un posto buono come un altro da dove cominciare, e raccolse tra le braccia i libri prima di portarli fuori, camminare sull’erba umida e gettarli sul marciapiede. Dall’altra parte della strada c’era una spiaggia rocciosa inclinata sull’oceano, ad appena una novantina di metri di distanza, e il lontano porto vuoto.
Fuori faceva ancora molto freddo – abbastanza freddo da trasformarle il respiro in spirali di vapore – ma c’era un brillante sole invernale che cercava di scaldare attraverso le nuvole. Emily tremava mentre proseguiva, poi vide per la prima volta da quando era arrivata che c’era un’altra persona sul marciapiede. Era un uomo con barba e baffi castani, che si trascinava dietro un bidone della spazzatura. Le ci volle un attimo per capire che doveva vivere nella casa accanto – un’altra villa vittoriana come quella di suo padre, ma in condizioni decisamente migliori – e cercò di ricatalogarlo nella testa come vicino. Si fermò, guardandolo sistemare il bidone vicino alla cassetta della posta e poi raccogliere le lettere – abbandonate lì dentro da giorni grazie alla bufera di neve – prima di attraversare a passo svelto il prato ben curato e risalire i gradini del suo enorme portico in legno. A un certo punto, Emily avrebbe dovuto presentarsi. Però, se piaceva così poco alla gente come le aveva detto Daniel, forse non era proprio una priorità.
Mentre riattraversava il prato, Emily fece un grande sforzo per non guardare verso la rimessa, anche se poteva sentire l’odore di fumo che veniva da lì e anche se sapeva che Daniel era sveglio. Non aveva bisogno che lui venisse qui a ficcare il naso nei suoi affari, a prenderla in giro, e così tornò veloce dentro casa per cercare altre cose che dovevano essere buttate.
La cucina era piena di spazzatura – utensili arrugginiti, scolapasta con i manici rotti, padelle con i fondi bruciati. Emily riusciva a capire perché sua madre fosse così frustrata da suo padre. Non era stato solo un collezionista di antichità o un appassionato di affaroni, era stato un accumulatore compulsivo. Forse l’amore di sua madre per la pulizia e il disinfettante era stato causato da suo padre.
Emily riempì un intero bidone di cucchiai piegati, stoviglie scheggiate e vari gadget da cucina inutili come i timer a forma di uovo. Poi c’erano tre risme di carta forno, stagnola per le teglie, rotoli da cucina e ogni sorta di attrezzatura elettrica. Emily contò cinque frullatori, sei sbattitori elettrici e quattro tipi diversi di bilance. Raccolse tutto e lo portò in braccio al marciapiede, dove gettò tutto con il resto della spazzatura. Stava diventando un bel mucchio. L’uomo con i baffi era di nuovo fuori sul portico, seduto su una sedia a sdraio, a guardarla, o, più specificatamente, a guardare l’ammasso di spazzatura che stava crescendo lentamente sul marciapiede. Emily ebbe l’impressione che non fosse per nulla infastidito dal suo comportamento e quindi gli fece un cenno che sperò sembrasse cortese prima di tornare in casa e continuare la sua epurazione.
A mezzogiorno Emily sentì il suono di un motore che scoppiettava. Corse fuori, entusiasta all’idea di ricevere il tecnico che le avrebbe collegato la linea telefonica e internet.
“Salve,” disse raggiante dalla porta.
La giornata si era schiarita anche più di quanto avesse previsto, e riusciva a vedere la luce del sole luccicare sull’oceano anche da questa distanza.
“Salve,” rispose l’uomo, chiudendo la portiera del furgone. “Di solito i clienti non sono così felici di vedermi.”
Emily fece spallucce. Mentre guidava l’uomo dentro casa, sentì gli occhi di quello con i baffi che la seguivano. Lascialo guardare, pensò. Niente l’avrebbe depressa. Era orgogliosa di se stessa per aver provveduto a ogni necessità. Installato internet, sarebbe stata in grado di ordinarsi le cose di cui aveva bisogno. In effetti, avrebbe ordinato un intero negozio online per evitare di incontrare ancora Karen. Se alla gente del paese non piaceva, allora non le avrebbe dato fastidio.
“Vuole del tè?” chiese all’uomo. “Caffè?”
“Sarebbe fantastico,” rispose chinandosi e aprendo la sua scatola degli attrezzi nera. “Caffè, per favore.”
Emily andò in cucina e preparò una nuova caffettiera mentre dall’ingresso si sentiva il trapano. “Spero che lo voglia nero,” disse. “Non ho crema.”
“Nero va bene!” le urlò in risposta l’uomo.
Emily si annotò mentalmente di mettere la crema nella lista della spesa, poi versò due tazzine di caffè bollente, una per il tecnico e una per sé..
“Si è appena trasferita?” le chiese mentre lei gli porgeva la tazzina.
“Più o meno,” rispose. “Era la casa di mio padre.”
Lui non chiese altro, chiaramente desumendo che le fosse stata lasciata in eredità o una cosa del genere. “Il sistema elettrico è un po’ scadente,” disse. “Immagino che non prenda la tv via cavo qui né altro.”
Emily rise. Se avesse visto la casa appena tre giorni prima non avrebbe neanche avuto bisogno di porre quella domanda. “Assolutamente no,” rispose gioviale. Suo padre aveva sempre detestato la tv e l’aveva vietata in casa. Voleva che le sue figlie si godessero l’estate, non che se ne stessero sedute a guardare la tv mentre il mondo passava loro accanto.
“Vuole che gliela colleghi?” disse l’uomo.
Emily fece una pausa, prendendo in considerazione la domanda. Aveva avuto la tv via cavo a New York. In effetti era stata uno dei piaceri della sua vita. Ben l’aveva sempre presa in giro per i suoi gusti televisivi, ma Amy condivideva la sua stessa passione per i reality show e così ne parlava con lei. Era diventato un punto di scontro, uno dei tanti, nella loro relazione. Ma alla fine Ben aveva accettato che se lui trascorreva tutti i weekend a guardare lo sport lei poteva guardare la nuova stagione di America’s Next Top Model.
Da quando era arrivata nel Maine a Emily non era mai venuto in mente che si stava perdendo tutti i suoi programmi preferiti. E adesso l’idea di far entrare di nuovo quella robaccia dentro la sua vita le sembrava strana, come se in qualche modo avrebbe macchiato la casa.
“No, grazie,” rispose, un po’ scioccata di scoprire che la dipendenza da tv era stata curata solamente uscendo da New York.
“Okay, be’, ho finito. La linea telefonica è installata ma dovrà procurarsi un ricevitore.”
“Oh, ne ho un centinaio,” rispose Emily non eccedendo per difetto – ne aveva trovato una scatola piena della mansarda.
“Ottimo,” rispose il tizio, un po’ confuso. “Internet c’è e funziona anche quello.”
Le mostrò il modem e le lesse a voce alta la password scritta sul retro, in modo che potesse collegare il cellulare a internet. Non appena fu connesso, il telefono, con sua grande sorpresa, cominciò a vibrare per un’ondata costante di email in arrivo.
Gli occhi le si appannavano mentre il conteggio in angolo continuava a salire. Tra lo spam e le email dalle mailing list delle sue aziende di abbigliamento preferite, c’erano manciate di email serie dalla sua vecchia azienda che riguardavano “l’interruzione” del suo contratto. Emily decise che le avrebbe lette più tardi.
Una parte di lei sentì la sua privacy invasa da internet, dalle email, e immediatamente desiderò i giorni passati in cui ne era priva. Rimase sorpresa nel vedere la sua reazione, dato quanto era stata dipendente dalle email, dal telefonino, quasi incapace di funzionare senza di loro. Adesso, con sua grande sorpresa, ne era davvero infastidita.
“Qualcuno è famoso,” disse il tecnico, ridacchiando mentre il telefono le vibrava ancora per un’altra email in arrivo.
“Una cosa del genere,” borbottò Emily rimettendo il telefono sul tavolino dell’ingresso. “Grazie, comunque,” aggiunse voltandosi verso il tecnico mentre apriva il portone. “Sono davvero felice di essere connessa di nuovo alla civiltà. Ci si può isolare parecchio qui.”
“Si figuri,” rispose facendo un passo fuori. “Oh, e grazie per il caffè. Era davvero fantastico. Dovrebbe aprire un bar!”
Emily lo salutò, rimuginando sulle parole che aveva detto. Forse avrebbe proprio dovuto aprire un bar. Non ne aveva visto neanche uno nella strada principale, mentre a New York ce n’era uno a ogni angolo. Riusciva a immaginare la faccia di Karen se avesse deciso di aprire una sua attività.
Emily tornò al lavoro di pulizia della casa, aggiungendo altra roba all’ammasso sul marciapiede, grattando superfici e spolverando credenze. Trascorse un’ora nella sala da pranzo, spolverando i quadri e i soprammobili delle vetrinette. Ma proprio quando sentì di essere a buon punto, tirò giù un arazzo per scuotergli di dosso la polvere e vide che dietro c’era una porta.
Emily si bloccò, fissando la porta con profondo cipiglio. Non ne aveva il benché minimo ricordo, sebbene fosse certa che una porta segreta nascosta dietro un arazzo sarebbe stato il tipo di cosa che avrebbe adorato da piccola. Provò a girare la maniglia ma vide che era bloccata. Tornò nella dispensa e prese una bomboletta di idrorepellente WD-40. Dopo aver oliato la maniglia della porta segreta finalmente riuscì a girarla. Ma anche la porta era bloccata. La prese a spallate una volta, due, tre. La quarta volta sentì che cedeva, e con un’ultima spinta fortissima aprì la porta.
Davanti a lei si aprì l’oscurità. Cercò a tentoni un interruttore ma non lo trovò. Sentiva l’odore della polvere che spessa le entrava nei polmoni. Il buio e l’inquietudine le ricordavano la cantina e corse a prendere la lanterna che Daniel le aveva dato il primo giorno. Illuminando il buio trasalì nel vedere ciò che aveva davanti.
La stanza era enorme, ed Emily si chiese se un tempo non fosse stata una sala da ballo. Adesso, però, era piena di roba, come se fosse stata trasformata in un'altra mansarda, in un altro posto dove buttare le cianfrusaglie. C’era una vecchia rete da letto in ottone, un armadio rotto, uno specchio spaccato, un orologio a pendolo, molti tavolini da caffè, una libreria gigantesca, un’alta lampada ornamentale, panche, divani, scrivanie. Spesse ragnatele attraversavano tutti i pezzi come fili che legavano tutto insieme. Sbalordita, Emily camminò piano per la stanza, con la luce della lanterna nelle mani che svelava la carta da parati ammuffita.
Cercò di ricordare se ci fosse stato un tempo in cui quella stanza era stata usata, o se la porta era nascosta dall’arazzo quando suo padre aveva acquistato la casa e se quindi non aveva mai scoperto la stanza segreta. Non le sembrava plausibile che suo padre non ne sapesse nulla, ma lei proprio non se la ricordava e perciò doveva essere stata chiusa prima della sua nascita. Se era così, allora tutta quell’ala della casa era stata abbandonata molto prima di qualsiasi altra parte, per un periodo indeterminato di tempo.
A Emily venne in mente che ci sarebbe voluta ancora più fatica per pulire la casa di quanto avesse previsto in precedenza. Era esausta dal lavoro di quella giornata e ancora non era arrivata al piano di sopra. Certo, poteva semplicemente chiudere la porta e fingere che la sala da ballo non esistesse, come evidentemente aveva fatto suo padre, ma l’idea di riportarla alla sua vecchia grandiosità era troppo attraente. Poteva immaginarsela così chiaramente nella testa; le assi del pavimento lucidate e splendenti, un lampadario che pendeva dal soffitto; lei avrebbe indossato un abito da sera in seta, con i capelli cotonati in stile anni Sessanta; e avrebbero volteggiato, ballando il valzer insieme sul pavimento della sala, lei e l’uomo dei suoi sogni.
Emily guardò ai pesanti e massicci oggetti nella stanza – divani, doghe di metallo, materassi – e capì che non c’era modo che fosse capace di spostarli con le sue mani, di sistemare la sala da ballo da sola. Risistemare la casa era un lavoro per due.
Anche se aveva deciso di non ricorrere al suo aiuto, Emily dovette ammettere per la prima volta di aver bisogno di Daniel.
*
Emily uscì a passo svelto dalla casa, preventivamente frustrata dalla conversazione che avrebbe avuto. Era una persona molto orgogliosa e l’idea di chiedere aiuto a Daniel, tra tutti, la irritava.
Attraversò il cortile sul retro verso la rimessa. Per la prima volta la neve si era sciolta abbastanza da darle uno scorcio chiaro della sua terra e capì quanto bene fosse tenuta, qualcosa di cui chiaramente si occupava Daniel. Le siepi erano state potate con cura e c’erano aiuole di fiori delimitate dai ciottoli. Riusciva a immaginare quanto dovesse essere bello in estate.
Daniel sembrava aver sentito che stava arrivando, perché quando alzò lo sguardo dalla siepe per riportarlo sulla rimessa, vide che la porta era aperta e che lui stava lì con la spalla appoggiata sull’uscio. Riusciva già a leggere la sua espressione. Diceva, “Vieni a strisciare?”
“Ho bisogno del suo aiuto,” disse, senza neanche degnarsi di salutarlo.
“Oh?” fu la sua unica risposta.
“Sì,” disse bruscamente. “In casa c’è una stanza che ho scoperto ed è piena di mobili troppo grandi perché io possa sollevarli. La pagherò per aiutarmi a spostare tutto.”
Daniel chiaramente non sentiva il bisogno di rispondere subito. In effetti non sembrava seguire per nulla le regole della normale etichetta sociale.
“Mi ero accorto che stava facendo un po’ di pulizie,” disse alla fine. “Per quanto pensa di lasciar lì quel mucchio di roba? Lo sa che i vicini si innervosiranno.”
“Lasci il mucchio a me,” rispose Emily. “Ho solo bisogno di sapere se verrà ad aiutarmi.”
Daniel incrociò le braccia, prendendosi il suo tempo, lasciandola cuocere a fuoco lento. “Di quanto lavoro parliamo?”
“A essere sincera,” disse Emily, “non si tratta solo della sala da ballo. Voglio pulire l’intera casa.”
“Ambizioso,” replicò Daniel. “E inutile, considerando che rimarrà qui solo due settimane.”
“A dire il vero,” disse Emily prolungando le parole per rimandare l’inevitabile, “Resto per sei mesi.”
Emily sentì una pesante tensione nell’aria. Era come se Daniel si fosse scordato di respirare. Sapeva che non le era particolarmente affezionato, ma sembrava una reazione esagerata da parte sua, come se qualcuno gli avesse annunciato un lutto. Che la sua presenza nella sua vita potesse causargli una tale palpabile sofferenza seccò Emily in modo incommensurabile.
“Perché?” chiese Daniel, con una profonda ruga che gli segnava la fronte.
“Perché?” sputò fuori Emily. “Perché è la mia vita e ho ogni diritto di vivere qui.”
Daniel si accigliò, improvvisamente confuso. “No, voglio dire, perché lo fa? Perché si sobbarca tutta questa fatica per sistemare la casa?”
Emily non aveva una risposta, o almeno non ne aveva una che avrebbe soddisfatto Daniel. Lui la vedeva solo come una turista, una che se ne era venuta tranquillamente in paese dalla città, che faceva un casino, e che poi se la svignava per tornare alla sua vecchia vita. Pensare che a lei potesse piacere una vita più semplice, che potesse avere una buona ragione per fuggire dalla città, era chiaramente più di ciò che potesse comprendere.
“Allora,” disse Emily, sempre più irritata, “Ho detto che la pagherò per il suo aiuto. Si tratta solo di spostare un po’ di mobili, magari ridipingere qualcosa. Glielo chiedo solo perché è più di quanto possa fare io da sola. Ci sta o no?”
Daniel sorrise.
“Ci sto,” rispose. “Ma i suoi soldi non li voglio. Lo faccio per il bene della casa.”
“Perché crede che la farò a pezzi?” replicò Emily alzando un sopracciglio.
Daniel scosse la testa. “No. Perché amo quella casa.”
Almeno avevano quello in comune, pensò Emily sarcastica.
“Ma se lo faccio, sappia che il nostro sarà un rapporto strettamente professionale,” disse. “Strettamente professionale. Non sono in cerca di nuovi amici.”
Lei rimase scioccata e infastidita dalla sua risposta.
“Neanch’io,” disse di scatto. “Né lo stavo proponendo.”
Il sorriso di Daniel si allargò.
“Bene,” disse.
Daniel allungò la mano perché gliela stringesse.
Emily corrugò la fronte, chiedendosi in cosa si stesse cacciando. Poi gli strinse la mano.
“Strettamente professionale,” concordò.
CAPITOLO SETTE
“La prima cosa che dovremmo fare,” disse Daniel mentre la seguiva lungo il vialetto, “è levare il compensato dalle finestre.” Aveva con sé la sua scatola di metallo degli attrezzi, e la faceva oscillare mentre camminava.
“A dire il vero voglio solo portare fuori i vecchi mobili,” replicò Emily, frustrata dal fatto che Daniel stesse già assumendo il ruolo del capo.
“Vuole trascorrere ogni giorno alla luce artificiale quando il sole sarà finalmente uscito?” chiese Daniel. La sua non era tanto una domanda quanto un’affermazione, però, e il senso sottinteso diceva che lei era un’idiota a voler fare altrimenti. Le sue parole ricordarono a Emily un po’ suo padre, il suo modo in cui voleva che si godesse il sole del Maine invece di starsene seduta rinchiusa a guardare la tv tutto il giorno. Per quanto le facesse male ammetterlo, Daniel aveva proprio ragione.
“Ok,” disse, cedendo.
Emily si ricordò che con il suo primo tentativo di rimuovere il compensato aveva finito con il rompere la finestra e quasi anche il suo collo, ed era sollevata, a denti stretti, di avere Daniel a darle una mano.
“Cominciamo dal soggiorno,” disse Emily, cercando di riprendere un po’ il controllo della situazione. “Trascorro lì la maggior parte del tempo.”
“Certo.”
Non c’era altro da dire, la conversazione era stata terminata scrupolosamente da Daniel, e così entrarono silenziosi in casa, percorsero il corridoio, e arrivarono in soggiorno. Daniel non sprecò tempo e posò a terra la scatola degli attrezzi per cercare il martello.
“Regga l’asse in questo modo,” disse, mostrandole come sostenerne il peso. Una volta che Emily fu in posizione, lui si mise a togliere i chiodi con il lato unghiato del martello. “Uao, i chiodi sono del tutto arrugginiti.”
Emily guardò un chiodo cadere sul pavimento e sbattere con un rumore sordo. “Rovinerà le assi?”
“No,” replicò Daniel, completamente concentrato sul lavoro che stava svolgendo. “Ma quando qui ci entrerà un po’ di luce naturale saranno visibili un bel po’ di danni al pavimento che già ci sono.”
Emily gemette. Non aveva incluso nel budget il costo per smerigliare il pavimento. Forse poteva far fare a Daniel anche quello?
Daniel estrasse l’ultimo chiodo ed Emily sentì il peso del compensato addossarsi sul suo corpo.
“Ce l’ha?” le chiese continuando a spingere con una mano l’asse contro il davanzale, togliendole più peso che poteva.
“Ce l’ho,” rispose.
Lasciò andare ed Emily vacillò all’indietro. Che fosse la determinazione a non mettersi in imbarazzo davanti a Daniel o che fosse altro, Emily riuscì a non far cadere il compensato, o a non mandarlo a sbattere contro qualcosa, o in generale a non rendersi ridicola. Lo abbassò con delicatezza sul pavimento e poi si alzò e batté le mani.
La prima scheggia di luce entrò dalla finestra ed Emily sussultò. La stanza era bellissima alla luce del sole. Daniel aveva ragione; sarebbe stato un crimine starsene lì alla luce elettrica invece che a quella naturale. Cominciare dalle finestre era stata una grande idea.
Entusiasti del successo, Emily e Daniel lavorarono su tutto il piano terra della casa, scoprendo finestra dopo finestra, lasciando che la luce riempisse il luogo. Nella maggior parte delle stanze c’erano grandi finestre che andavano dal pavimento al soffitto, create su misura, evidentemente proprio per quella casa. Alcune erano imputridite o rovinate dagli insetti. Emily sapeva che sarebbe costato molto rimpiazzare gli infissi creati su misura e cercò di non pensarci.
“Scopriamo le finestre della sala da ballo prima di andare di sopra,” disse Emily. Le finestre nella zona principale della casa erano piuttosto belle, ma qualcosa le diceva che quelle dell’ala abbandonata sarebbero state ancora meglio.
“C’è una sala da ballo?” chiese Daniel mentre lei lo conduceva nella sala da pranzo.
“Ah-ah,” replicò. “È qui dentro.”
Spostò l’arazzo, svelando la porta che stava lì dietro, gioendo dell’espressione di Daniel. Era sempre così stoico, così difficile da leggere, che non poté fare a meno di sentire un brivido di eccitazione nel vedere di avergli causato quell’espressione di choc. Poi aprì la porta e puntò la pila dentro la stanza, illuminandone la vastità.
“Uao,” rantolò Daniel, abbassando la testa per non andare a sbattere contro la trave ed entrando a bocca aperta. “Non sapevo che esistesse questa parte della casa.”
“Neanch’io,” disse Emily raggiante, contenta di condividere il segreto con qualcuno. “Riesco a malapena a credere che sia rimasta nascosta qui per tutti questi anni.”
“Non è proprio mai stata usata?” chiese Daniel.
Scosse la testa. “No, per quanto mi ricordi. Ma qualcuno una volta la usava.” Diresse il fascio di luce direttamente sul cumulo di mobili al centro della stanza. “Per accumularci cose.”
“Che spreco,” disse Daniel. Per la prima volta da quando Emily l’aveva conosciuto, sembrava esprimere genuina emozione. La vista della stanza segreta era strabiliante per lui come lo era stata per lei.
Entrarono ed Emily osservò Daniel percorrere la stanza come aveva fatto lei quando l’aveva scoperta.
“E lei vuole buttare via tutto?” disse Daniel oltre la spalla mentre ispezionava gli articoli coperti di polvere. “Scommetto che un po’ di questa roba è antica. Costosa.”
Emily non si lasciò sfuggire l’ironia di una stanza piena di antichità nascosta nella casa di un appassionato di antichità. Si chiese ancora se suo padre fosse stato a conoscenza della stanza. Era stato lui a riempirla di mobili? O era già così quando aveva comprato la casa? Non aveva senso.
“Lo credo anch’io,” replicò. “Ma non saprei neanche da dove cominciare. Cioè, capisce cosa intendo quando dico che ci sono grossi mobili che non riuscirei a sollevare da sola. Come potrei fare a venderli? A trovare i fornitori?” Quello era il mondo di suo padre, un mondo che lei non aveva mai capito veramente o di cui non era stata particolarmente entusiasta.
“Be’,” disse Daniel osservando l’orologio a pendolo. “Ha internet adesso, no? Può fare un po’ di ricerca. Sarebbe un peccato buttare via tutto.”
Emily prese in considerazione quello che le diceva, e rimase colpita da un dettaglio. “Come sapeva che ho internet?”
Daniel si strinse nelle spalle. “Ho visto il furgone.”
“Non mi ero accorta che mi prestasse tanta attenzione,” replicò Emily con una finta aria sospettosa.
“Non si aduli,” La risposta secca di Daniel arrivò, ma Emily notò che c’era un sorriso sarcastico sulle sue labbra. “Faremo meglio a levare di mezzo questa roba comunque,” aggiunse, spezzando il sogno di Emily.
“Sì, fantastico,” rispose tornando di colpo alla realtà.
Daniel ed Emily si misero al lavoro per rimuovere il compensato dalle finestre. Ma diversamente dalle finestre della zona principale della casa che avevano scoperto, questa finestra nascosta dall’asse era fatta di bellissimo vetro Tiffany.
“Uao!” urlò Emily, completamente sbalordita a mano a mano che la stanza si riempiva di diversi colori. “È incredibile!”
Era come entrare nel mondo dei sogni. La stanza era improvvisamente inondata di rosa, verde e blu mentre la luce entrava dalla finestra.
“Sono sicura che se mio padre avesse saputo che c’erano finestre così avrebbe tenuto aperta questa zona della casa,” aggiunse Emily. “Questo è il sogno dell’antiquario che diventa realtà.”
“Sono piuttosto favolose,” disse Daniel osservandole con occhio pratico, ammirandone la struttura intricata e il modo in cui i pezzi di vetro si assemblavano.
Emily aveva voglia di ballare. La luce che si diffondeva dalla finestra era così bella, da togliere il fiato, che la faceva sentire leggera, come se fosse fatta di aria. Se era così bella con il sole invernale, non poteva immaginare quanto sarebbe stata fantastica la stanza quando il sole luminoso dell’estate sarebbe entrato da quelle finestre.
“Dovremmo fare una pausa,” disse Emily. Lavoravano da ore e quello sembrava un momento buono come un altro per fermarsi. “Posso preparare qualcosa da mangiare.”
“Come per un appuntamento?” disse Daniel scuotendo la testa per ridere. “Senza offesa, ma lei non è il mio tipo.”
“Oh?” disse Emily, stando al suo gioco. “E qual è il suo tipo?”
Ma Emily non ebbe l’occasione di sentire la risposta di Daniel. Qualcosa volò giù dal davanzale della finestra, dove probabilmente era rimasta per molti anni, e catturò la loro attenzione. Scomparvero tutte le risate e gli scherzi di un attimo prima, sbiadendo attorno a Emily, quando tutta la sua attenzione si fu concentrata sul pezzo di carta quadrato che stava sul pavimento. Una fotografia.
Emily la raccolse. Anche se era vecchia, scolorita, con la muffa sul retro, la foto non era così antica. Era a colori, anche se i colori erano sbiaditi con gli anni. Emily sentì un grumo in gola quando capì di avere in mano una foto di Charlotte.
“Emily? Che succede?” diceva Daniel, ma lei lo sentiva appena. Il respiro era scomparso all’improvvisa vista del viso di Charlotte, un viso che non vedeva da più di vent’anni. Incapace di trattenersi, Emily cominciò a piangere.
“È mia sorella,” disse con voce strozzata.
Daniel sbirciò da oltre la sua spalla la foto tra le sue dita tremanti.
“Ecco,” disse, improvvisamente delicato. “Lasci che la prenda io.”
Allungò le braccia e la prese dalla sua stretta, poi condusse Emily fuori dalla stanza, con un braccio attorno alle sua spalle. Emily lasciò che la guidasse in soggiorno, troppo sbalordita per protestare. Lo choc di vedere il viso di Charlotte l’aveva ipnotizzata.
Emily, sempre piangendo, distolse lo sguardo da Daniel.
“Penso… penso che forse se ne dovrebbe andare adesso.”
“Okay,” disse Daniel. “Basta che lei da sola ci stia bene.”
Si alzò dallo sgabello e fece segno a Daniel di andare verso la porta. Lui la guardò con cautela come soppesando se lasciarla in quello stato sarebbe stato sicuro, ma alla fine prese la scatola degli attrezzi e si avviò verso il portone.
“Se ha bisogno di qualcosa,” disse sulla soglia, “basta che mi chiami.”
Incapace di parlare, lei chiuse la porta davanti a Daniel e poi si voltò e vi si appoggiò contro, sentendo il respiro uscirle in grossi sussulti rantolanti. Affondò sulle ginocchia, sentendo l’oscurità affollarsi attorno a lei, presa dal desiderio di raggomitolarsi e morire.
*
Fu solo lo strillo acuto del telefonino che la risvegliò da quell’orribile e soffocante sensazione. Emily si guardò intorno, insicura su quanto fosse rimasta raggomitolata come una palla sul pavimento.
Guardò su dal suo cumulo spiegazzato e vide il cellulare sul tavolino presso la porta che si illuminava e vibrava. Si alzò e vide, sorpresa, il nome di Ben che lampeggiava. Fissò il telefono per un attimo, guardandolo lampeggiare, guardando il suo nome riempire lo schermo così come aveva fatto migliaia di volte in passato. Erano così normali quelle piccole lettere, BEN, ma d’un tratto così straniere, e così, così sbagliate in quella casa, in quel momento, dopo aver visto il viso di Charlotte, dopo aver trascorso con Daniel tutto il giorno.
Emily allungò il braccio e rifiutò la telefonata.
Non appena lo schermo fu tornato nero, si illuminò di nuovo. Questa volta non c’era il nome di Ben, ma quello di Amy.
Emily raccolse il telefono, sollevata per la sua ancora di salvataggio.
“Amy,” rantolò. “Sono così felice che hai chiamato.”
“Non sai neanche cosa sto per dirti,” fece una battuta.
“Non importa. Potresti leggermi l’elenco telefonico, per quel che mi interessa. Sono solo felice di sentire la tua voce.”
“Be’,” disse Amy, “a dire il vero ho qualcosa di elettrizzante da dirti.”
“Davvero?”
“Sì. Lo sai che parlavamo sempre di andare a vivere in quella ex chiesa del Lower East Side, e di quanto sarebbe stato bello?”
“Ah-ah,” disse Emily, non sapendo dove volesse arrivare.
“Be’,” disse Amy con un tono che suonava come se si stesse preparando a una grande rivelazione, “possiamo farlo! L’appartamento con due camere da letto è appena stato messo in vendita e possiamo assolutamente permettercelo.”







