Kitabı oku: «Terre spettrali», sayfa 3

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“Mi scusi, signora?”

Sulle prime pensò che si trattasse dell'ennesima persona che voleva chiederle come avesse conosciuto June. Si voltò e alle sue spalle vide un uomo che si teneva a rispettosa distanza. Indossava un completo dall'aria costosa, ma niente di troppo appariscente, date le circostanze. I suoi capelli, che iniziavano a ingrigire all'altezza delle tempie, erano pettinati all'indietro. Portava con sé una valigetta.

“Sì?” chiese Marie.

“Lei è Marie, giusto? Marie Fortune?”

“In persona,” confermò lei. Pensò si trattasse di uno degli amici di June che si ricordavano di lei dalle sue visite di quand'era bambina. “E lei è?”

“Mi chiamo Malcolm Carey. Sono il legale di sua zia June.”

“Oh. C'è qualcosa che non va?”

“No, niente affatto. Detesto doverla fermare qui e adesso, data la situazione. Ad alcuni potrebbe sembrare non professionale. Ma non ero sicuro di quanto a lungo si trattenesse a Port Bliss ed è importante che le parli. È un buon momento adesso?”

“Uno vale l'altro, direi.”

“Forse è meglio andare nel parcheggio qui fuori,” suggerì Carey. “Preferirei non dover trattare la questione alla presenza di tutti.”

Uscirono nel parcheggio e si sedettero su una panchina giusto accanto alle scale d'ingresso. Carey aprì la valigetta e ne estrasse diversi moduli e una massiccia pila di documenti.

“Sono sicuro che lei sappia,” iniziò Carey, “che June non aveva familiari qui nei dintorni. Da quello che capisco, l'unico contatto che la polizia ha potuto trovare sulla scena è stato il suo numero di telefono sul frigorifero.”

“Beh, sì, il resto della mia famiglia è eccentrico tanto quanto la zia June.”

“Considerata quest'informazione, suppongo che abbia senso che il suo nome appaia diverse volte nel testamento.”

“Davvero?” Non ci aveva mai neppure pensato.

“Sì, proprio così,” disse Carey. Sorrise di proposito e lanciò uno sguardo ai documenti. “Difatti, le ha lasciato qualcosa di molto speciale.”

CAPITOLO CINQUE

“Speciale?” ripeté Marie.

Carey sorrise e annuì, poi le passò un plico di documenti. Lei lo esaminò, ma era tutto scritto in un linguaggio astruso; avrebbe potuto essere scritto in greco antico, ci avrebbe capito uguale.

“Di cosa si tratta?” chiese.

“È un capitolo ben preciso del suo testamento.” Scorse rapidamente tre paragrafi poi indicò con un dito una riga in particolare. Lesse ad alta voce, mentre Marie lo ascoltava.

“E a mia nipote, lascio anche in eredità la mia casa situata al 101 di Crabapple Road. Ciò comprende i quattro ettari di terra circostanti e il tratto di lungomare.”

Marie si sentì sempre più frastornata. Sicuramente aveva frainteso. O forse era una burla. Forse la zia June voleva farle un ultimo scherzetto, qualcosa però di molto più serio di un gatto potenzialmente radioattivo.

Eppure, si ritrovò a doversi aggrappare stretta al bordo della panchina per rimanere ancorata alla realtà.

“È sicuro?” chiese. “L'ultima volta che le ho parlato, si era convinta a donarla a qualche organizzazione.”

“Oh sì, lo so. All'inizio la casa doveva andare a un'organizzazione marittima. Aveva dei piani grandiosi per affidarla a un gruppo locale di preservazione marittima e trasformarla in un museo sui naufragi.”

“Sembra proprio un'idea da June,” commentò Marie.

“Beh, sì, era così fino a due settimane fa. June mi ha chiamato in ufficio e mi ha chiesto di fare alcune modifiche al testamento. Una sola riga, a dire il vero. Quella in cui lascia a lei la proprietà della casa.”

“Lei è… lei è sicuro?”

Carey sorrise. “Sì. È tutto qui nel testamento, nero su bianco. June le ha lasciato il suo maniero in eredità, Marie.”

Marie iniziò a ridacchiare, ma rapidamente la risata si tramutò in un pianto silenzioso. Le implicazioni infinite di questa cosa iniziarono ad affollarle la testa, eppure non riusciva a trovare un senso a nessuna di esse. Era come un grosso cumulo di foglie secche appena rastrellate, che aspettava solo che lei ci saltasse dentro.

“Dov'è l'inghippo?” chiese.

“Beh, la casa è infestata. Non lo sa?”

Marie lo fissò con la bocca spalancata.

Carey rise della sua battuta, scuotendo la testa. “Sto solo scherzando. Ma sono sicuro che lei è al corrente delle dicerie.”

“Le ho sentite tutte, mi sa.”

“Ad ogni modo, no… non c'è nessun inghippo. È sua. Ci sono un po' di carte da firmare e depositare, ma è solo la prassi.” Si fermò un momento e aggiunse: “Tutto bene?”

“Sì,” disse Marie, fissando i documenti.

Voleva piangere. Voleva urlare. Voleva esplodere in una danza di gioia lì stesso, nel parcheggio. Ma probabilmente non sarebbe stato un comportamento appropriato a una veglia funebre.

Non può essere vero, non mi sta capitando davvero, pensò.

“Sarebbe strano se le chiedessi di darmi un pizzicotto?” chiese Marie.

“Un po', suppongo. Ma posso farlo se vuole.”

“Non fa niente. Quindi… posso andare alla casa e… dare un'occhiata?”

“Certo. Ma, prima di tutto, c'è anche questa…”

Carey frugò nuovamente nella valigetta e tirò fuori una busta. C'era scritto il nome di Marie, chiaro e tondo, proprio al centro. Marie la aprì lentamente, le mani tremanti.

La busta conteneva un solo foglio di carta, piegato in tre. Quando Marie lo aprì, scoprì che si trattava di una breve lettera manoscritta. Nel vedere la grafia che pendeva nettamente verso sinistra, si immaginò facilmente June mentre la scriveva. La lettera riportava:

Marie,

Se stai leggendo, vuol dire che sono morta. Mi dispiace. Mi spiace anche di doverti mollare la baracca. Ma ho pensato che starebbe meglio tra le tue mani che in quelle di un mucchio di politicanti e presuntuosi appassionati di storia. Abbi cura del posto, e stai attenta a quei gatti mutanti radioattivi! Ce ne sono molti in primavera. Oh, dimenticavo, come se già la casa non fosse in sé e per sé una sorpresa… c'è anche un'altra sorpresa che ti aspetta e che apprezzerai!

Con tanto amore,

June

Un'altra sorpresa? Marie non sapeva se il suo cuore poteva reggere altre sorprese. Già faceva fatica ad accettare che la casa per la quale aveva avuto un tempo una piccola ossessione ora era sua. Se le sorprese continuavano ad accumularsi, il suo cuore avrebbe potuto esplodere, pensò.

Ah, forse è a questo che somiglia, essere felici da adulti.

“Quindi, posso andare a dare un'occhiata?” chiese. Ancora una volta, si aspettava uno scherzetto dell'ultimo minuto. Sarebbe stato appropriato, in qualche modo, data la personalità di June.

“Certo,” la rassicurò Carey. Infilò nuovamente la mano nella valigetta e ne trasse un'altra busta, questa volta molto più piccola della prima, e la consegnò a Marie. Quando Marie la aprì, vi trovò due chiavi.

Marie se le fece scivolare in mano. Tintinnarono insieme melodiosamente. Le fissò per un attimo, iniziando a realizzare cosa stava davvero succedendo.

“È tutto okay,” disse Carey, forse comprendendo finalmente la sua confusione. “Può andare. Vada pure a visitare la sua nuova proprietà.”

CAPITOLO SEI

Quando venti minuti dopo guidò l'auto sul tortuoso vialetto di Crabapple Road, Marie fu sopraffatta dalla sensazione di entrare in una proprietà privata. Stava guidando verso la casa con intenzione, adesso, e non solo con desiderio ed eccitazione.

Ora sì che pensi come una ragazza grande.

Quasi scoppiò a ridere quando le venne in mente quella frase. Gliela diceva suo padre ogni volta che lei iniziava a interrogarlo su qualcosa, o metteva in dubbio qualcosa che aveva imparato a scuola. Marie era stata il tipo di scolaretta che, in prima elementare, aveva osservato che forse Cristoforo Colombo non era poi quel grande eroe che si diceva, ma solo un bullo che era andato a prendersi roba che non era sua.

Era un tratto di personalità che l'aveva accompagnata per il resto della vita, ma erano molti anni che non pensava più a quella frase.

Quando parcheggiò davanti alla casa, rimase in piedi accanto all'auto per un momento, a osservarla. Le persiane grigie davano un'impressione di calma e relax. Il vecchio dondolo nel portico, che avrebbe dovuto essere spedito in pensione già da tempo, sembrava più solido che mai. Piccole aiuole bordeggiavano il portico, piene di lillà, bouganville e belle di giorno appassite. Stranamente, i fiori non sembravano affatto vivacizzare la facciata della casa, ma contribuivano a quella calma calorosa e accogliente che emanavano i toni grigi delle persiane e del portone.

Marie sorrise. Era appropriato che zia June possedesse una casa che generava opinioni contrastanti. Per alcuni poteva essere invitante e calorosa, per altri invece inquietante e un po' sinistra.

Marie fece un respiro profondo e iniziò ad avanzare. Non aveva paura; nonostante le dicerie, non avrebbe mai potuto provare nulla di anche solo somigliante alla paura, quando veniva in questa casa. La zia June aveva vissuto qui ed era qui che erano racchiusi così tanti cari ricordi d'infanzia. Quindi non aveva paura, si sentiva solo un po' tesa.

Sorrise, assaporando il groviglio di emozioni e la gita lungo il viale dei ricordi che stava ormai per riportarla al punto di partenza, chiudendo così il cerchio. Fece un passo sul portico e, adoperando una delle chiavi che Carey le aveva dato, aprì la porta. Si aprì facilmente, come se la stesse aspettando da sempre.

Nel guardare l'interno della casa per la prima volta in vent'anni, Marie si chiese se avesse sempre avuto un'aria così sinistra. Inquietante era una parola un po' troppo forte, ma non ci andava troppo lontano. Le fece pensare più a Ghostbusters che a Scooby Doo.

June aveva davvero calcato la mano sull'aspetto dark. I pavimenti in parquet erano piuttosto scuri, coperti in larga parte da splendidi tappeti dai motivi grigi e neri. Il lampadario che Marie si ricordava dall'infanzia pendeva dall'alto soffitto dell'ingresso. Anche quello era bellissimo ma aveva un fascino un po' spettrale. Era il tipo di luogo in cui immaginava che Edgar Allan Poe potesse essersi rintanato a scrivere di cuori murati ancora pulsanti e corvi che tormentavano persone. Ma solo se Poe fosse stato, in fondo, un buontempone. Se mai ci fossero stati spettri a infestare questo posto, di certo non erano del tipo da far tintinnare spaventosamente catene, ma più probabilmente sarebbero stati dei giocolieri oppure avrebbero soffiato costantemente in una di quelle trombette con l'estremità fatta di carta che si allunga.

Marie avanzò verso il fondo dell'ingresso e guardò alla sua sinistra. Sapeva cosa la aspettava lì: il salotto in cui June e sua madre avevano passato così tempo sedute insieme. Marie stessa aveva passato un sacco di tempo lì, a riempire album da colorare e a fingere di leggere vecchi libri di Nancy Drew mentre ascoltava June e sua madre scambiarsi pettegolezzi sui vicini.

Entrò in salotto. Era ordinato e buio. L'unica luce che illuminava la stanza filtrava dallo spazio lasciato da una grossa tenda aperta al centro della finestra. Gli scaffali erano gli stessi, pieni zeppi di vecchi tascabili che spaziavano dalla poesia di William Blake ai romanzi di Danielle Steel. La maggior parte della mobilia però era nuova. C'era una poltrona grandiosa che sembrava quasi un trono in miniatura, con accanto un piccolo tavolino da lettura. C'erano delle piccole macchie concentriche di umido sul tavolo, alcune perfettamente corrispondenti alla base di un calice di vino.

Marie assorbì l'atmosfera della stanza e sentì un'ondata di emozione che stentava ad arginare.

Devo uscire da qui, pensò. Il funerale e la veglia sono stati già abbastanza duri: non ha senso stare impalata a farmi aggredire dalle emozioni anche qui.

Uscì dal salotto attraversando l'ampio passaggio ad arco sul retro della stanza. Da lì arrivò in sala da pranzo, dove troneggiava un grande tavolo che poteva ospitare dodici persone. All'altro capo della sala spiccava una grande vetrinetta contenente un insieme di piatti, tazze e bicchieri non proprio ben assortiti.

Marie fece il giro del resto della casa nello stesso stile. C'erano due bagni, uno dei quali, accanto alla camera da letto padronale, era grande la metà del suo appartamento di Providence. Salì al piano di sopra, facendo scivolare la mano sulla ringhiera che aveva toccato innumerevoli volte da ragazza. C'erano altre tre camere da letto al piano superiore, una delle quali era stata trasformata in una specie di ufficio di cui Marie stentava a trovare il senso. C'era una vecchia macchina da scrivere su una splendida scrivania, con un foglio di carta dentro e una piccola risma giusto accanto. Tutti i fogli erano bianchi, e Marie si chiese se June avesse accarezzato l'idea di scrivere un libro. Di certo l'entusiasmo e lo spirito per intraprendere un'impresa del genere non le mancavano.

Beh, era meglio dire non le erano mancati. Ora lei non c'era più. E stare lì in piedi in quella casa vasta e vuota rendeva quel dato di fatto ancora più evidente.

Povera casa. Come June, era unica nel suo genere. E ora sarebbe stata costretta a venderla, un colpo che avrebbe potuto essere davvero enorme per lei. Si chiese quanto avrebbe potuto ricavarci; era piuttosto vecchia ma aveva il suo fascino particolare. Inoltre, era proprio sulla spiaggia. Poteva valere una somma di denaro tale da cambiarle la vita.

Allo stesso tempo, Marie detestava l'idea che la casa passasse nelle mani di una famiglia qualsiasi. La sua storia e le sue storie sarebbero state seppellite insieme a June.

Se solo… e se…?

“Oh, non ci provare,” disse a sé stessa.

Un pensiero prendeva forma in fondo alla sua mente, un'idea che aveva paura di affrontare a viso aperto.

Ora sì che pensi come una ragazza grande…

“Non sai nemmeno quanto, papà.”

Marie si trovava al secondo piano, nel corridoio che conduceva nuovamente alle scale. Sulla parete proprio davanti alle scale c'era una finestra semi-panoramica. Guardò fuori e vide l'oceano che scintillava nel sole pomeridiano. La lingua dorata di spiaggia le sembrava proprio un lungo tappeto di benvenuto. Immaginò che alcuni avrebbero potuto trovarlo in contrasto con la struttura e il design della casa, ma… beh, c'era qualcosa di incantevole nella composizione di quel tutto, no?

Forse era proprio ciò che avrebbe potuto rendere davvero unico un bed-and-breakfast.

Eccolo lì: il pensiero che le ticchettava nella testa ora era stato pienamente formulato.

Continuò a esplorare la casa, arrivando alla stanza degli ospiti in cui aveva passato molte notti da bambina. La disposizione della camera non era cambiata, anche se le frivole lenzuola rosa erano state sostituite da altre più semplici, beige. Anche il comodino era lo stesso, e così la piccola libreria e la foto di tre bambine che costruivano un castello di sabbia su un tratto burrascoso di spiaggia.

Camminò verso il letto e si sedette. Con un sorrisetto in viso, aprì il cassetto del comodino.

Le si fermò il cuore per un attimo quando vide che cosa conteneva. Per un momento, aveva di nuovo dieci anni. Infilò la mano nel cassetto e tirò fuori l'unico oggetto che vi era riposto.

Era una piccola bambola con cui giocava quando veniva in visita. Ce n'erano state molte, ma questa era la sua preferita. Era un'imitazione di una Barbie, ma bambina. Dato che Barbie aveva Skipper, l'aveva nominata Dipper.

Tenne Dipper tra le mani, sentendo gli occhi colmarsi di lacrime. Indossava la gonnellina pacchiana che Marie le aveva messo addosso trent'anni prima. Il tempo e l'abbandono l'avevano fatta un po' sbiadire, così come i capelli castani di Dipper, ma aveva lo stesso aspetto di un tempo.

Che strana cosa. Che possibilità c'erano che June avesse conservato qui questa bambola per tutto questo tempo?

Forse era quella la sorpresa a cui June aveva accennato nella lettera. Se era così, era una sorpresa un po' stramba, ma del resto la zia era sempre stata una signora stramba, quindi…

Marie non era sicura, però. Non le sembrava che June fosse mai stata un tipo sentimentale. Eppure, Dipper era proprio lì, come se avesse aspettato che la sua proprietaria un giorno ritornasse.

Era quasi come se Dipper stesse cercando di comunicarle qualcosa.

Guardò la bambola dritto negli occhi e stavolta disse ad alta voce. “Un posto del genere sarebbe davvero un bel bed-and-breakfast, vero?”

Quel pensiero le fece battere più forte il cuore. Ma a incombere c'era la realtà. Ci sarebbe voluto denaro, e tempo. Di certo sarebbe stato necessario più di quanto aveva al momento nel conto corrente.

D'altro canto, quanti lavori doveva davvero fare? Certo, alcuni punti erano più dark che vittoriani o gotici nel senso tradizionale, ma era davvero un male? I mobili erano affascinanti, c'era un sacco di spazio e il salotto al piano terra già da solo aveva un fascino incredibile.

Sì, era un'idea seducente. Il suo sogno, servitole su un piatto d'argento dalla prozia defunta, era lì davanti ai suoi occhi.

Ora sì che pensi come una ragazza grande, la voce di suo padre risuonò ancora una volta nella sua testa.

“Eccome,” disse, dando un'occhiata alla stanza.

All'improvviso, il peso di quell'idea le sembrò troppo grande. Si alzò in fretta, sempre tenendo Dipper stretta tra le mani, e si diresse verso il piano di sotto. Non si rese nemmeno conto di quanto rapidamente stesse camminando fino a che non raggiunse la fine delle scale e si ritrovò di fronte alla porta d'ingresso.

Uscì sul portico e avanzò lungo le scale. Si fermò in giardino, davanti alla casa, sentendo l'oceano frusciare alle sue spalle. Assaporò il sole in faccia, annusò l'aria del mare, e iniziò a calmarsi.

Ma durò poco.

Mentre tornava sui suoi passi attraverso il portico, qualcosa balzò da terra. Di qualsiasi cosa si trattasse, stava puntando proprio lei.

Urlò mentre la cosa le sbatteva addosso, mandandola al tappeto.

CAPITOLO SETTE

Marie non si vergognò davvero per quell'urlo; l'unica cosa che la preoccupava era che il cuore potesse balzarle via dal petto, raggiungere l'auto e scappare lasciando il resto del corpo alle spalle, sgommando via sul vialetto.

Per la frazione di secondo in cui pensò di stare per morire, fu contenta che almeno sarebbe successo proprio lì, davanti alla casa di June. Sembrava stranamente appropriato.

Accettò in quel secondo la piega che avevano preso gli eventi. Qualcosa sembrava essere uscito da sottoterra per ghermirle la vita. Ma che cos'era? Un enorme pipistrello? Un gigantesco serpente bestiale? Uno strano mostro che aveva abitato il vecchio maniero spettrale insieme a zia June per anni e anni?

Quando fu chiaro che nessuno le avrebbe tagliato la gola e che la bestia che le si era buttata addosso non pesava poi un granché, Marie aprì gli occhi e fu salutata da un naso umido e da una lingua ancora più umida proprio sulla fronte.

Era un cane. Aveva la testa inclinata, e la guardava con sguardo d'attesa. Fu allora, vedendo quanto fosse innocente quel musetto, che Marie iniziò a sentirsi imbarazzata.

Il cane le si levò di dosso, consentendole di mettersi seduta. Quando Marie si alzò in piedi, spazzandosi via la polvere e lo sporco dal sedere, il cane avanzò di un passo verso di lei. Mentre le si avvicinava teneva la lingua penzolante e fiutava l'aria. Questo cane non assomigliava affatto agli esemplari con cui aveva avuto a che fare da Pampered Paws. Molta gente lo avrebbe definito un meticcio. Poteva indovinare l'incrocio di razze alla prima occhiata: il pelo nero era da Labrador, così come le zampe grandi e grosse. Nel muso aveva qualcosa del beagle, anche se dovevano esserci altre razze mescolate.

Ma la cosa più importante era che portava un collare, da cui ciondolava una targhetta.

“Sei un bravo cagnolino?” chiese Marie, accovacciandosi e allungando una mano verso il cane. Quello si avvicinò e gliela leccò rapidamente, come a volerle rispondere di sì, era proprio un bravo cagnolino. Sembrava quasi imbarazzato quanto lei per come era andato quel primo incontro. Era ormai abbastanza vicino perché Marie potesse vedere che era un maschio, anche se era stato sterilizzato.

Marie si chinò in avanti e gli diede una grattatina sulla testa. Controllò la targhetta e vide che vi era inciso il nome Boo.

Appropriato, pensò.

Girò la targhetta. La risata che le sfuggì fu così inaspettata che quasi si spaventò da sola.

Per Marie
SORPRESA!

“Me l'hai fatta,” disse Marie, guardando verso il cielo. “Bello scherzo, zia June.”

Il cane si guardò intorno quando Marie pronunciò il nome, forse cercando di capire dove fosse finita la sua vera padrona.

“Oh, mi spiace, amico. June non tornerà.”

Ovviamente, non pensava che il cane potesse capirla. Ma lui abbassò lievemente la coda e distolse lo sguardo. Marie rabbrividì, chiedendosi se fosse in casa quando June era morta. Forse l'aveva vista sulla sua sedia, immobile per un giorno o due?

“Proprio un bravo cagnolino,” fece lei, accarezzandogli la testa. “Sei stato lasciato insieme alla casa?”

In tutta risposta, Boo ansimò. Iniziava a sembrare un po' sovreccitato, con la coda che non smetteva di sventolare e le zampette che andavano avanti e indietro.

“E così ti chiami Boo?”

Continuava a scodinzolare. Ora sembrava quasi danzare, saltellando davanti a lei. Non era scattante come un cucciolo ma non era nemmeno letargico come un cane più anziano. Doveva avere tra i cinque e i sette anni, pensò Marie.

Boo si voltò a guardare la casa, poi rivolse lo sguardo di nuovo a Marie.

“Sei un cane da appartamento?” gli chiese Marie.

Scrutò i gradini del portico, chiedendosi se per caso ci fosse una ciotola che non aveva visto. Ma prima che potesse raggiungere i gradini, sentì il rumore di un'auto che accostava nel vialetto. Guardò in fondo al viale e vide una Cadillac Escalade che si fermava. Boo si mosse alle sue spalle e guardò il veicolo, in trepidante attesa.

L'Escalade parcheggiò accanto all'auto di Marie, e immediatamente una donna ne uscì. Doveva avere grosso modo l'età di Marie. La prima parola che a Marie venne in mente fu parrocchetto. Odiava giudicare male qualcuno alla prima impressione ma c'era qualcosa nel volto di quella donna che le ricordava un pappagallo. Forse era per via del naso un po' lungo e appuntito, o del modo in cui i suoi capelli corti si arricciavano bruscamente nella parte posteriore della testa.

Marie dovette soffocare una risatina quando la donna le si presentò.

“Buongiorno,” disse avvicinandosi. “Mi chiamo Stacy Hamlett. Detesto essere così diretta, ma ho appena parlato con il legale di sua zia e mi ha detto che l'avrei trovata qui.”

“Okay. A cosa devo il piacere?”

“Sono agente immobiliare, lavoro per la Coastal Gems. E so che ha appena partecipato alla veglia e che potrebbe sembrare un po' rude rivolgermi a lei così presto, ma le devo dire… questa casa è merce preziosa. Più presto agisce, più ne può guadagnare.”

“Sì, può sembrare rude,” concordò Marie seccamente.

“Posso tornare più tardi se desidera,” continuò Stacy, anche se era chiaro che l'idea non era di suo gradimento. “Posso capire che voglia farsi un'idea del posto. Lo ha mai frequentato?”

“Da ragazza, sì. È stato una specie di punto fermo per me, negli anni.”

“Ah, capisco,” disse Stacy in un tono che suggeriva che non capiva affatto. Frugò nella tasca interna della giacca e passò a Marie un biglietto da visita. “Se per qualche motivo non dovessimo più rivederci oggi, mi chiami pure quando è pronta a vendere.”

Marie prese il biglietto lentamente, ma le ultime parole che erano uscite dalla bocca dell'agente le fecero sussultare il cuore.

Quando è pronta a vendere…

“E se decidessi di non vendere?”

La domanda le uscì dalle labbra prima che il cervello avesse il tempo di elaborarla. Ma il fatto che quell'idea era stata ormai formulata forte e chiara, per giunta davanti a un testimone, le causò un moto di eccitazione.

Era evidente che Stacy Hamlett non se lo aspettava. Cercò le parole per un attimo, poi decise di dire: “Ah, quindi vorrebbe trasferirsi a Port Bliss?”

“Forse.”

Per qualche motivo, Stacy iniziava a ricordarle Deandra. C'era qualcosa nel modo in cui aveva provato a presentarsi, come se la sapesse più lunga di chiunque altro.

“Okay. Beh… ha considerato quanto costa mettere a posto una casa come questa? Già solo dal vialetto ho visto parecchi alberi morti nel cortile laterale e delle tegole allentate sul tetto. E so di certo che June aveva problemi con le tubature.”

“Se è così in cattivo stato, mi sembra strano che ci teniate così tanto ad acquistarla.”

Stacy sospirò e scrollò le spalle. A Marie venne in mente un parrocchetto che arruffa le piume. “Guardi, sarò onesta con lei. La casa ha un certo fascino, un'atmosfera un po' alla Stephen King. Sono sicura che lo sa già. Quindi, sì… come agente immobiliare, vedo questo posto e vedo un bel po' di guadagno. Non solo per la Coastal Gems, ma anche per lei. Se agisce immediatamente e lo mette sul mercato, parliamo di un guadagno sui…”

“Gradirei davvero che non mi si parlasse di soldi a così poco tempo dalla veglia di mia zia. E inoltre… sto pensando di tenermi la casa e magari convertirla in un bed-and-breakfast.”

Stacy sbarrò gli occhi e, quando riaprì la bocca, fu con lo stesso entusiasmo simulato di una nonna quando parla a una bambina prima di far apparire magicamente una moneta da dietro il suo orecchio.

“È una bella impresa,” esclamò Stacy. Il sorriso che sfoggiava fece pensare a Marie che in realtà trovasse l'idea ridicola; la risata che sembrava pronta a esplodere dietro quel sorriso, le fece pensare che Stacy la considerasse una perfetta idiota. “Certo, è un approccio molto comune per le vecchie tenute e case al mare di questa zona. Ma in genere si fa sotto lo sguardo attento di persone che hanno riconvertito e acquistato case per anni.”

“Grazie per gli avvertimenti,” tagliò corto Marie. “La chiamerò se avrò bisogno di lei.”

“Sì, certo, okay. Solo si ricordi di chi è venuto a cercarla per prima.”

Ora era il turno di Marie di sfoggiare una finta espressione allegra. “Oh, lo farò certamente. Grazie per essere passata, signorina Hamlett.”

Dopodiché voltò le spalle a Stacy e si diresse verso il portico. Boo la seguì, borbottando silenziosamente con brevi guaiti. Rimase lì sul portico per un momento, a guardare Stacy Hamlett entrare nella sua Escalade. Non era orgogliosa di quanto bene la facesse sentire l'espressione sconfitta che le si era dipinta sul volto.

Aggrottò le sopracciglia e si abbassò verso Boo. “Che str…ega, vero, amico?”

Boo scodinzolò e iniziò a zampettare verso il portone. Marie lo seguì, accorgendosi che aveva tenuto la sua Dipper stretta nella mano sinistra per tutto il tempo in cui aveva parlato con Stacy.

Entrò in casa appena dietro Boo e si guardò attorno con estrema lentezza. Attraversò la casa zigzagando fino a che raggiunse la porta del patio in cucina. Quando uscì, l'aria dell'oceano le fece venire la pelle d'oca. Chiuse gli occhi, inspirò, e quasi si mise a piangere.

Avanzò verso la ringhiera di legno e vi si appoggiò. Il patio si trovava a quasi tre metri da terra, ma per un momento le sembrò di volare. Guardò in direzione dell'oceano e vide che le onde non erano troppo forti. Il pomeriggio stava per arrivare e sapeva che la marea si sarebbe alzata, e l'acqua sarebbe quasi arrivata a lambire le piccole dune e l'erba sottile.

Rientrò in casa e trovò Boo che la aspettava. Sembrava eccitato per qualche motivo, forse un po' nervoso. Gli sfuggì un gemito sommesso, simile a quello che in genere i cani emettono quando devono uscire per fare i loro bisogni.

“Tutto bene, amico?” gli chiese. “Per caso devi uscire o…”

Fu interrotta da un sottile scricchiolio… e poi un altro. Il suono veniva dal piano di sopra e assomigliava spaventosamente a un rumore di passi.

“Lo hai sentito anche tu?” domandò a Boo.

Sperava che il cane l'avrebbe guardata con indifferenza, così avrebbe potuto mettersi l'animo in pace e dirsi che stava soltanto immaginando cose. Invece Boo aveva inclinato la testa e drizzato l'orecchio. C'era qualcosa che continuava ad agitarlo.

Sì, anche lui aveva sentito.

Marie non riusciva a decidere se questo la facesse sentire meglio o peggio. “Pensi che dovremmo andare a dare una controllata?”

Boo era già diretto verso il salotto, per raggiungere le scale. Sembrava eccitato per via di ciò che aveva sentito. “Va bene, d'accordo, fai strada tu,” disse Marie.

Marie e Boo salirono lentamente al piano di sopra, ma non trovarono nulla. Né spettri né fantasmi, nemmeno zone fredde o spifferi. Al contrario, esplorando le stanze non c'era nulla che li mettesse a disagio. Si chiese se non avessero reagito in modo sproporzionato a ciò che avevano sentito. La casa era vecchia, dopo tutto; probabilmente, doveva produrre ogni genere di scricchiolii e rumori di assestamento.

Marie si ricordò che June una volta le aveva detto che, se anche la casa fosse stata infestata, erano sicuramente fantasmi benevoli. “Mi sveglio felice e raggiante ogni mattina,” le aveva spiegato June. “Se i responsabili sono i fantasmi, allora sono lieta che vivano qui.”

Era un bel ricordo, ma Marie non avrebbe mai potuto dire lo stesso.

“È tutto un po' strano, vero?” chiese a Boo.

Il cane scodinzolò un po', ma rimaneva guardingo. Marie non aveva idea di cosa significasse tutto ciò e, sebbene non fosse davvero spaventata, improvvisamente ebbe voglia di uscire da lì.

“Perché non andiamo a fare una passeggiata?” propose.

Come succedeva con la maggior parte dei cani anche solo minimamente addestrati, il solo accenno a una passeggiata conquistò l'attenzione di Boo. Si fiondò immediatamente verso le scale e corse al piano di sotto. Marie lo ritrovò davanti al portone, mentre ficcava il naso in un piccolo cestino decorativo sotto il tavolo dell'androne. Dentro c’era un guinzaglio che Marie agganciò al collare.

“Hai voglia di portarmi a spasso in città, amico?”

Risultò che sì, ne aveva voglia.

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