Kitabı oku: «Relación entre los teatros español e italiano: siglos XVI-XX», sayfa 3
una fitta vegetazione critica abbia messo o tentato di mettere radici su un terreno editorialmente intatto. Quasi che o le opere del Giraldi fossero comunemente note e facilmente accessibili, o i lettori moderni dovessero trarre maggior profitto dalla descrizione e dai giudizi altrui che non dalla lettura delle opere stesse di un autore che bene o male è sopravvissuto al cimento di quattro secoli di storia;
esprimendo infine l’auspicio che si ripresentasse criticamente, «sia pur con economica discrezione», l’opera di quell’ «Euripide romantico della corte d’Este» (come lo ebbe una volta a definire Giosue Carducci), e in primo luogo l’Orbecche, corredata non già di un apparato di varianti, ma di «un apparato storico-letterario, che dia il quadro nel quale e per il quale soltanto, un’opera così nuda di poesia e di pensiero ma indubbiamente distinta da buone intenzioni e da efficaci suggerimenti, ebbe ed ha importanza storica».3 Che è giudizio, quest’ultimo, forse tuttora applicabile a gran parte dei testi tragici del Cinquecento italiano.
La fisionomia complessiva della collezione alla quale ero chiamato a collaborare, così come essa si era venuta configurando, dopo lo spartiacque segnato dalla pubblicazione dei continiani Poeti del Duecento (1960), nel corso degli anni settanta sotto la vigilanza di un impareggiabile ed acerrimo come Gianni Antonini,4 richiedeva, in primo luogo, una cura particolare nell’allestimento e nell’illustrazione dei testi. E d’altro canto, era pur lecito domandarsi: tante interpretazioni correnti, generali e particolari, della tragedia cinquecentesca, in mancanza di un adeguato sostegno filologico e degli indispensabili complementi illustrativi ed esegetici, non corrono forse il rischio di essere esposte all’azzardo di inevitabili approssimazioni o fraintendimenti, di arbitrarie, per quanto suggestive o ingegnose, forzature? Così come un’attenzione esclusiva, oltremodo concentrata e selettiva, programmaticamente rivolta alla sola prospettiva teatrale e scenica —tanto più se affidata, come tuttavia accade ancora spesso di dover riscontrare, a troppo sbrigativi e disinvolti procedimenti di natura indiziaria —non può finire per occultare, talora, prevaricare o ostacolare il riconoscimento, persino, di contrassegni storici, culturali, formali, linguistici anche di più macroscopica e significativa incidenza? Tanto più se si considera che in ambito italiano la vicenda delle rappresentazioni tragiche lungo tutto il corso del secolo XVI risulta generalmente contrastata e povera, non soltanto al paragone dei contemporanei spettacoli comici e poi anche tragicomici, ma anche della stessa circolazione e fortuna editoriale di alcune opere: basti pensare, di contro all’assoluta scarsezza delle rappresentazioni, alla ventina di stampe cinquecentesche della Sofonisba del Trissino, senza contare le traduzioni e le imitazioni francesi, alla dozzina di stampe dell’Orbecche del Giraldi e del Re Torrismondo del Tasso, alle sei edizioni della Rosmunda del Rucellai e della Canace dello Speroni, alle cinque dell’Ecuba del Dolce e dell’Adriana del Cieco d’Adria, ecc.
Il primo compito, tuttavia, che il curatore si è trovato ad affrontare non poteva non riguardare la scelta dei testi, naturalmente condizionata, prima di tutto, dalle caratteristiche formali della collana e dalla pur non esigua mole del volume, ma anche dalla necessità di offrire, di ogni tragedia proposta, un testo rigorosamente integrale. E’ stato dunque giocoforza, in questo caso, rinunciare del tutto, come alla riesumazione di testi inediti (per esempio alla tragedia anepigrafa di Daniele Barbaro, ora finalmente edita da Corinne Lucas, notevole anche per l’assunto contemporaneo della fabula),5 così al pur desiderato recupero di esperienze, per così dire, «stravaganti», bizzarre, marginali, anche quando esse fossero tali da sollecitare, per questa o per quella ragione, l’apprezzamento o la curiosità del moderno interprete (si pensi alla Dido in Cartagine di Alessandro Pazzi de’ Medici, o al volgarizzamento bandelliano dell’Ecuba di Euripide, dall’insolito profilo metrico, o magari a quella sorta di «tragedia urbana» ante litteram quale può essere considerata Il Soldato di Angelo Leonico). Si è preferito insomma, per quanto possibile, compiere la pur inevitabile selezione all’interno di un canone critico precocemente riconosciuto, come si è potuto accertare, fin dalla metà del Cinquecento, nella prassi concreta ancora prima che nelle formulazioni teoriche, ed in seguito codificato e divulgato, sia pure non senza significative oscillazioni e integrazioni, nel corso del cospicuo revival tragico del Settecento, al quale si devono proposte editoriali e rivisitazioni storiche e critiche tuttora insostituibili: dalle fondamentali raccolte del Teatro italiano o sia scelta di tragedie per uso della scena (1723-1725) e di Tutte le opere di Giovan Giorgio Trissino (1729), frutto l’una e l’altra della soda erudizione, della militante passione teatrale e del formidabile impegno filologico e critico di Scipione Maffei, alla monumentale edizione delle Opere di Sperone Speroni «tratte da’ mss. originali» procurata nel 1740 con scrupoloso zelo da Natale dalle Laste e Marco Forcellini, alla capitale edizione del Teatro italiano antico stampata a Livorno fra il 1786 e il 1789 per le cure ammirevoli di Gaetano Poggiali e magnificamente illustrata da Francesco Rosaspina. Valga anche, a questo proposito, la testimonianza di Lodovico Dolce, nel Prologo dell’Ifigenia, del 1551, poi sostanzialmente ribadita, una quindicina d’anni dopo, nel primo Prologo della Marianna.6 La scelta è caduta pertanto, nell’ordine, sulle seguenti sei tragedie: La Sofonisba di Giovan Giorgio Trissino, Rosmunda di Giovanni Rucellai, Orbecche di Giovan Battista Giraldi, Canace di Sperone Speroni, L’Orazia di Pietro Aretino, Marianna di Ludovico Dolce. Una ragione di carattere pratico, vale a dire la sua presenza in altro volume della medesima collezione, giustificava l’esclusione di una tragedia della qualità e della rinomanza del Re Torrismondo del Tasso.
«La prima cura di chi pubblichi e commenti l’opera di uno scrittore classico ha da essere intorno al testo»: così ammoniva, più di cent’anni fa, Giosue Carducci, nell’introduzione all’edizione commentata del Canzoniere di Francesco Petrarca destinata a quella benemerita «Biblioteca scolastica di classici italiani» che egli stesso progettò e diresse per la casa editrice Sansoni.7 Ed è avviso luminoso che dovrebbe valere sempre e in ogni circostanza, anche quando si abbia che fare con testi drammatici, anche quando non si tratti, come appunto accade con il nostro tomo ricciardiano, di fornire edizioni rigorosamente critiche, e sicuramente da estendere, almeno nel caso dei testi tragici cinquecenteschi, ad indispensabili complementi paratestuali quali, per esempio e prima di tutto, le lettere dedicatorie delle edizioni originali. Esse, infatti, contengono quasi sempre informazioni di assoluto rilievo, per più riguardi, e sull’autore e sull’opera. E’ davvero curioso, vorrei notare a questo proposito, che una fra le più accreditate, encomiabili sillogi che siano state dedicate, negli ultimi decenni, alla tragedia italiana del Cinquecento abbia trascurato di ristampare, accanto al testo della Sofonisba e dell’Orazia, le lettere di dedica sottoscritte dai rispettivi autori ed indirizzate, l’una «Al Santissimo Nostro Signore Papa Leone decimo», l’altra «A Paolo terzo gran vicario di Cristo».8 Eppure sono, entrambe, documenti di diversa ma ugualmente fondamentale importanza per l’intelligenza storica delle due tragedie. Oltre ad essere, a giudizio di Bernard Weinberg, «the earliest extensive exploitation», in lingua italiana, della Poetica aristotelica,9 la prima contiene indicazioni preziose circa la teoria tragica e la riforma linguistica ed ortografica elaborate dal Trissino; mentre la seconda è imprescindibile per la comprensione delle motivazioni politiche sottese alla tragedia e altrimenti ribadite nel Prologo recitato dalla Fama: dichiarando l’intenzione, espressa più scopertamente dall’Aretino in un’altra lettera indirizzata poco tempo dopo a Pier Luigi Farnese, di pronosticare «a sua santità una vittoria de i Luterani assai maggiore che il trionfo che a Roma riportò Orazio de gli Albani».10 Allo stesso modo, la lettera di dedica della Marianna (Venezia. Giolito, 1565), indirizzata dal Dolce «Al magnifico e virtuosissimo M. Antonio Molino», ragguaglia sul contesto teatrale veneziano e sulle due rappresentazioni, promosse dallo stesso Burchiella, che precedono la pubblicazione della tragedia.11
Per quanto concerne i problemi di ordine più strettamente testuale ed ecdotico, la necessità di rinunciare all’allestimento di edizioni critiche non ha tuttavia impedito al curatore di esercitare con vantaggio, caso per caso, un doveroso controllo sulla storia della tradizione dei testi e di avanzare, eventualmente, proposte editoriali inedite o innovative.
In attesa, per esempio, di un’auspicata edizione critica della Sofonisba, che tenga finalmente conto dell’intera tradizione manoscritta e a stampa, l’edizione da me procurata ha assunto come base la stampa vicentina del 1529, per Tolomeo Ianiculo, che registra lo sviluppo pressoché completo della seconda e definitiva maniera dell’ardimentosa riforma ortografica trissiniana. E’ sembrato opportuno, pertanto, conservarne la compiuta fisionomia grafica: e si noti che la nuova foggia di lettere, definitivamente abbandonata nelle successive ristampe cinquecentesche della tragedia a partire dalla veneziana del 1530, non era mai più stata reintrodotta da nessuno dei moderni editori. Ma se è vero che la Sofonisba può vantare il titolo di prima tragedia di espressa imitazione classica, in idioma volgare, delle moderne letterature europee, se è altresì vero che l’esibita novità e l’assunto grecizzante dell’esperimento rispondono, in primo luogo, a fondamentali ragioni di ordine teorico e formale, come disgiungere la parte della riforma teatrale da quella, di più clamorosa evidenza anche per l’occhio, della riforma ortografica, linguistica, metrica? Se «lo zelo grafico», ha osservato Gianfranco Contini nel suo Breviario di ecdotica, «non è separabile da un certo tipo di stile», ciò «vale al massimo per i riformatori [...], ad esempio il Trissino con le sue nuove lettere».12 La riproduzione del testo non poteva tuttavia essere di tipo semplicemente meccanico. Oltre alla correzione di errori e refusi, del resto non sempre facilmente individuabili, capillari interventi, in particolare per quanto concerne la disciplina dei segni diacritici, si sono resi di volta in volta necessari per soddisfare l’esigenza di conciliare la salvaguardia delle novità qualificanti e delle fondamentali istanze teoriche della proposta ortografica con una irrinunciabile agibilità del testo.
Allo stesso modo, particolare attenzione è stata dedicata ad una quanto più possibile perspicua rappresentazione grafica della peculiare fisionomia metrica delle distinte parti liriche e corali, di solito riprodotte dai testimoni manoscritti e a stampa in maniera disordinata e confusa (ma le ragioni metriche rivestono un ruolo di fondamentale importanza nell’elaborazione e nella codificazione della grammatica tragica cinquecentesca). Dal restauro si possono, oltre tutto, ricavare utili indicazioni anche di ordine esegetico. Mi limiterò a produrre un solo esempio. Nel dialogo lirico fra Sofonisba ed Erminia che precede la morte della protagonista (Sofonisba 1723-1744), la varietà metrica dei due madrigali —con schema, rispettivamente, AbCD.AbCD.eE e AbC.BaC.DD— sembra riprodurre almeno per l’occhio, e sia pure con qualche approssimazione, quella del dialogo fra Alcesti ed Admeto nell’Alcesti di Euripide (vv. 244-279), formato da due coppie di strofi logaediche, la prima, appunto, tetrastica, in cui a ciascuna strofe cantata da Alcesti segue un distico giambico di Admeto, e l’altra di dattilotrochei conclusa da un periodo anapestico: a conferma non soltanto dell’oltranza ellenizzante del Trissino, ma anche della puntigliosa fedeltà alla fonte e dell’incidenza, anche strutturale, dell’Alcesti euripidea sulla rappresentazione della morte dell’eroina cartaginese. E’ parso pertanto opportuno corredare il volume di una Tavola metrica, relativa appunto alle forme e agli schemi metrici variamente sperimentati nei dialoghi lirici e nei cori delle tragedie: dalla ballata, alla canzone, alla canzone di foggia greca (usata dal solo Trissino, ad imitazione della del coro greco, nella parodo, nel primo e nel terzo stasimo, come pure in un commo della Sofonisba), al madrigale, alla sestina (assente nella Sofonisba, ma largamente usata nei cori tragici cinquecenteschi e collaudata, fra gli altri, dal Rucellai, dal Giraldi e dal Dolce), ecc.13
Analoga cura è stata riservata al computo dei versi, agevolato dall’accorgimento grafico dello scalino —che le stampe cinquecentesche di solito non contemplano— ogniqualvolta le battute del dialogo spezzino l’unità metrica dell’endecasillabo scomponendolo in due, eccezionalmente in più frammenti stichici. Si trattava, in questo caso, di sottolineare alcuni aspetti non trascurabili della tecnica dialogica della tragedia cinquecentesca, per poterne meglio analizzare le eventuali valenze espressive, anche sotto il profilo diacronico. Può essere interessante notare, a questo proposito, come tale tecnica, nonché sconosciuta al Rucellai e, pour cause, allo Speroni,14 appaia del tutto eccezionale nel Trissino,15 come pure nel Dolce della Marianna,16 mentre è utilizzata ampiamente e con piena consapevolezza delle sue potenzialità drammaturgiche sia dal Giraldi dell’Orbecche, sia dall’Aretino. Nell’Orbecche la ritroviamo, per esempio, nella scena seconda del terzo atto, là dove Sulmone rivela al suo consigliere Malecche il tradimento di Oronte e di Orbecche;17 oppure nella scena prima (ed unica) del quarto atto, nei passaggi più intensi e commossi del racconto che il Messo declama al Coro della morte orrorosa di Oronte e dei figli;18 infine, con più alta frequenza, nel concitato crescendo della capitale scena seconda del quinto atto, quando Sulmone, come recita l’Argomento della tragedia, «colla testa e colle mani del marito, ne fa dono alla figliuola la quale, vinta dallo sdegno e dal dolore, uccide il padre, e dopo se stessa».19
Anche più potenti ed energici gli effetti brachilogici dello spezzamento dei versi operato dall’Aretino nell’Orazia, proprio negli episodi di massima concentrazione e tensione drammatica. Si vedano per esempio, nel secondo atto, le battute che Celia scambia col padre, Publio, allorché essi s’incontrano per la prima volta dopo la vittoria di Orazio che è costata la vita del Curiazio promesso sposo di Clelia: «C. Padre, o padre! P. Figlia cara, o figlia! / E perché questo? C. Amor legge non have»;20 oppure, nel terzo atto, il fulmineo, convulso dialogo fra i due fratelli che precede l’uccisione di Celia da parte di Orazio, alla presenza della Nutrice;21 o infine, nel quinto atto, le esclamazioni di Publio che contrappuntano le parole con cui il Popolo Romano pronuncia il verdetto di assoluzione di Orazio.22 Ma può accadere, almeno una volta, che il verso sia eccezionalmente frantumato in quattro battute, con esiti che sembrano preludere alla peculiare trama di pause, di sospensioni, di «non detto» che contrassegnerà la versificazione alfieriana (siamo nel terzo atto, il dialogo si svolge fra Publio e Spurio): «P. Che parli tu? S. Niente. P. Va’ via. S. Vado».23 Nessuno, come è noto, fra gli autori di tragedie, nel Rinascimento italiano, nemmeno Torquato Tasso, sarebbe riuscito nell’ impresa di inventare un moderno linguaggio drammatico, di elaborare una declamazione teatrale in grado di soddisfare a due esigenze inevitabilmente contraddittorie e che pure apparivano conciliate in maniera insuperabile nello specchio degli esemplari greci, l’altezza dello stile, da una parte, il sermone, la dialogicità, la colloquialità dall’altra. Non è forse senza significato che fra i più vicini a superare tale impasse sia stato uno scrittore anomalo e irregolare come Pietro Aretino, animato dall’ambizioso proposito —misurandosi col genere più elevato, più selettivo, più classicamente autorizzato— di provare «Se più mertano in sé lode di gloria / De la natura i discepoli, overo / Gli scolari dell’arte»,24 a proclamare attraverso le trombe della Fama il proprio «naturale» primato linguistico.
Per indugiare ancora un momento sugli aspetti metrici, vorrei accennare ad una scelta tipografica che si è voluto adottare per il testo della Canace, pur già stabilito criticamente in una recente, eccellente edizione.25 Attraverso l’impiego convenzionale dello spazio bianco tipografico si è dunque inteso sottolineare, anche per l’occhio, la presenza della rimalmezzo che, seppure quantitativamente circoscritta (se ne contano, complessivamente, poco più di un centinaio, su un totale di 2069 versi: l’indicazione del fenomeno è stata per altro estesa anche ai casi in cui la rima interna non cada in cesura), e disseminata con grande libertà all’interno di una struttura metrica deliberatamente «aperta», madrigalesca, rappresenta sicuramente un indice non trascurabile della controversa sperimentazione formale e delle innovazioni metriche speroniane, destinate ad esercitare una determinante influenza sugli sviluppi del linguaggio poetico, nella fattispecie teatrale, fra Cinque e Seicento e in cui germinano i segni dell’imminente decodificazione del genere tragico, nei termini delle istituzioni meliche della favola pastorale, dall’Aminta al Pastor fido.26
Un altro aspetto, infine, che non può non richiamare l’attenzione dell’editore di opere teatrali cinquecentesche, riguarda l’eventuale divisione dei testi in atti e in scene. L’ossequio alla morfologia della tragedia greca non comporta, com’è noto, la divisione in atti e in scene della Sofonisba. Ma già la tradizione testuale della Rosmunda, nata pressoché ad un parto con la tragedia trissiniana e nella quale forse per la prima volta nella storia della tragedia cinquecentesca è documentata la divisione in atti, presenta sensibili oscillazioni ed incertezze circa la divisione in scene, che sembra realizzarsi compiutamente soltanto con la princeps postuma apparsa a Siena, per i tipi di Michelagnolo di Bartolomeo e ad istanza del libraio Giovanni di Alessandro, con la data del 27 aprile 1525. Tale articolata divisione sarà naturalmente ripresa nella stampa dell’Orbecche (Venezia, in casa de’ figliuoli d’Aldo, 1543), la prima tragedia che sia stata messa in scena, a Ferrara, nel 1541. Ma la tradizione testuale dell’incompiuta Canace di Sperone Speroni, composta nei primi mesi del 1542, ad un solo anno dunque di distanza dalla prima rappresentazione della tragedia giraldiana, presenta ancora notevoli incertezze al riguardo: la divisione in atti e in scene non è, per esempio, presente nell’autografo vaticano nella quale la Roaf ha identificato l’ultima redazione della tragedia poi confluita nella stampa valgrisiana del 1546 curata da Antonio Giovanni Clario. Ed ancora, le due stampe giolitine dell’Orazia dell’Aretino (1546 e 1549), registrano la divisione in atti, ma non quella in scene, mentre la princeps della Marianna del Dolce (Venezia, Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1565) presenta sì la divisione in atti, ma distingue le scene, senza specificarne l’ordine progressivo all’interno dell’atto, con la sola indicazione dei personaggi.
Cure particolari richiedeva, naturalmente, il commento di opere per le quali non si disponeva, in linea di massima, di alcuna tradizione esegetica. Pur non trascurando, s’intende, le questioni di ordine teatrale o scenico, gli accenni relativi alla , per servirci delle categorie aristoteliche, il commento ha preferito appuntarsi sugli aspetti letterari, linguistici, metrici, retorici dei testi, oltrechè sull’abbondantissima messe dei riferimenti intertestuali e intratestuali (fondamentale è apparsa, per esempio, l’intratestualità nel caso dell’opera aretiniana). Proprio l’intensa dinamica dei riferimenti intertestuali e interdiscorsivi, per servirci di un’opportuna distinzione di Cesare Segre,27 nella tragedia cinquecentesca sembra trovare, se non m’inganno, un campo di applicazione particolarmente fertile e ed altamente privilegiato: se è vero che il principio d’imitazione contempla una gamma vastissima di realizzazioni che va dall’imitatio all’aemulatio, dalla traduzione al rifacimento, dal calco alla parodia. Si trattava, insomma, di provare a riconoscere, all’interno dei singoli testi, la rete fittissima delle contaminazioni e delle interferenze, la complessa stratificazione delle fonti tematiche e fabulistiche, nonché il loro scarto, il loro attrito nei confronti delle fonti linguistiche e formali. Il panorama degli studi intertestuali, in verità, continua a registrare una notevole sproporzione fra l’abbondanza e la varietà delle proposte teoriche e la relativa indigenza di analisi concrete e puntuali. Il discorso potrebbe riguardare, da un punto di vista più generale, l’intera tipologia del commento: un «genere» al quale oggi si guarda, in sede critica storica e teorica, con interesse crescente, ma che la prassi vigente non sempre riconosce come complemento necessario, anzi come momento indispensabile di qualsivoglia operazione filologica. Per parte mia non credo che l’accresciuta disponibilità di strumenti informatici, di banche dati, di concordanze, possa da sola contribuire a ridurre sufficientemente l’accennato squilibrio. Tanto più —per citare ancora una volta una pagina di Gianfranco Contini immeritevole, a mio giudizio, di essere troppo frettolosamente accantonata— che «l’inondazione di concordanze e di calcolatori, se prolunga gigantescamente la memoria, si accompagna a un disuso e a una mortificazione della memoria media (sradicata infatti dal costume scolastico)».28 Si potrebbe magari aggiungere, un po’ scherzosamente, che la memoria elettronica, quanto si voglia moltiplicata e onnipotenziale, è però di necessità priva di quell’indispensabile strumento di giudizio che è l’orecchio, inadeguata a misurarsi con le strutture ritmico-sintattiche, con l’«hésitation entre le son et le sens» propria del discorso poetico, con le norme statutarie che regolano l’antigrammatica della poesia.
1. Teatro del Cinquecento. Tomo I. La tragedia, a cura di Renzo CREMANTE, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi editore, 1988 («La letteratura italiana. Storia e testi», vol. 28), pp. LII-1118; seconda edizione riveduta e corretta, 1997 («Classici Ricciardi-Mondadori»), voll. 2, pp. LII-1126. Fra le recensioni, si segnalano quelle di Cesare Segre, «Quegli intrepidi fondatori della tragedia», in Corriere della Sera, 24 agosto 1989, e di Andrea Battistini, in Lingua e Stile, XXIV, 1989, n. 4, pp. 555-559. Le citazioni si riferiranno, d’ora in avanti, alla seconda edizione.
2. NERI, Ferdinando, La tragedia italiana del Cinquecento. Firenze, Tipografia Galletti e Cocci, 1904.
3. Cfr. la recensione del volume di Philip Russell HORNE, The Tragedies of Giambattista Cinthio Giraldi. London, Oxford University Press, 1962, in Giornale Storico della Letteratura Italiana, CLX (1963), pp. 114-121.
4. Cfr. ISELLA, Dante, Per una collezione di classici: La letteratura italiana, storia e testi. Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi editore, 1982. TISSONI, Roberto, «Il commento ai classici italiani nel sette e nell’ottocento (Dante e Petrarca)». In Il commento ai testi: atti del seminario di Ascona, 2-9 ottobre 1989, a cura di Ottavio BESOMI e Carlo CARUSO, Basel-Boston-Berlin, Birkhäuser Verlag, 1992 (quindi, in forma autonoma e in edizione riveduta, Padova, Editrice Antenore, 1993, pp. 220-221); DIONISOTTI, Carlo, «Storia e testi». In Operosa parva. Per Gianni Antonini. Studi raccolti da Domenico DE ROBERTIS e Franco GAVAZZENI, Verona, Valdonega, 1996, pp. 369-374 (quindi in Ricordi della scuola italiana, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1998, pp. 503-509); GAVAZZENI, Franco, Per Gianni Antonini: in occasione del conferimento della laurea ‘honoris causa’ dell’Università degli Studi di Pavia. Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi editore, 1996.
5. LUCAS, Corinne, «Jeux de miroirs entre Bude et Venise dans la Tragedia de Daniele Barbaro (1548)». In Discours littéraires et pratiques politiques. Etudes réunies par A. Ch. FIORATO, Paris, Publications de la Sorbonne, 1987, pp. 61-88 (segue, pp. 89-162, il testo della tragedia, sobriamente annotato); quindi Daniele BARBARO, «Tragedia», a cura di Corinne LUCAS, in Quaderni Veneti, 15, 1992, pp. 7-79.
6. Cfr. Ludovico Dolce, Ifigenia, Venezia, Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1551, c. 52r: «E come su l’Ilisso / Stetti molt’anni, così a me non piacque / D’abitar sopra il Tebro. Or sopra l’Arno / Volger mi fece il piede assai pomposa / Quel che già pianse il fin di Sofonisba, / E quello che d’Antigone e di Emone / Rinovò la pietà, la fé e l’amore, / E quell’altro dapoi che estinse Orbecche, / E chi cantò lo sdegno di Rosmunda, / E chi con nuovo e non più visto esempio / Lo scelerato amor di Macareo, / Né men quell’alto ingegno che fe’ degna / L’Orazia de le orecchie del gran padre / C’ha le chiavi del cielo e de l’inferno / E l’anime di noi sopra la terra, / Sì come piace a lui, lega e discioglie»; Marianna, 40-44 (in Teatro del Cinquecento, cit., vol. II, p. 750): «Non ch’io fossi però tanto arrogante / Ch’io volessi aguagliarmi di bellezza / Ad alcune onorate mie compagne, / Sì come a Sofonisba et a Canace, / Ad Orbecche, a Rosmonda e ad altre tali» (la riduzione del canone e l’espunzione dell’Antigone e dell’Orazia sono da mettere forse in relazione con la morte dell’Alamanni e dell’Aretino, sopravvenuta per entrambi nel 1556).
7. Francesco Petrarca, Le rime di su gli originali, commentate da Giosue Carducci e Severino Ferrari, Firenze, G. C. Sansoni editore, 1899 («Biblioteca scolastica di classici italiani» secondo i programmi officiali, diretta da Giosuè Carducci). Cfr. Severino Ferrari e il sogno della poesia. Mostra documentaria, a cura di Simonetta Santucci e Carlotta Sgubbi, Molinella, Biblioteca Comunale S. Ferrari, 1999, pp. 75-83. L’introduzione è datata 2 febbraio 1899.
8. Il teatro italiano. II. La tragedia del Cinquecento. Tomo primo, a cura di Marco Ariani, Torino, Einaudi, 1977. La princeps della Sofonisba è stampata a Roma, «per Lodovico Vicentino Scrittore e Lautitio Perugino Intagliatore», nel mese di luglio del 1524, quella dell’Orazia a Venezia, presso Gabriele Giolito de’ Ferrari, nel 1546.
9. WEINBERG, Bernard, A History of Literary Criticism in the Italian Renaissance. Chicago, The University of Chicago Press, 1961, vol. I, p. 369.
10. Si veda la lettera indirizzata a Pier Luigi Farnese, duca di Piacenza, da Venezia il 12 ottobre 1546 (in Pietro Aretino, Il quarto libro de le Lettere, Venezia, Al segno del pozzo, 1550, c. 57v; ma si veda ora l’edizione curata da Paolo Procaccioli, Roma, Salerno, 2000). L’intenzione è confermata in una successiva lettera a Paolo iii del gennaio 1547 (ivi, c. 71rv). La connessione della tragedia aretiniana al dedicatario è esplicitamente sottolineata dal Dolce nel Prologo dell’Ifigenia citato nella nota 5.
11. Sulla messe di informazioni che le lettere di dedica delle stampe cinquecentesche offrono per la conoscenza del teatro del Dolce mi permetto di rinviare ai miei «Appunti sulla grammatica tragica di Ludovico Dolce». In Cuadernos de Filología Italiana, 5 (1998), pp. 279-290.
12. CONTINI, Gianfranco, Filologia. In Breviario di Ecdotica, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi editore, 1986, pp. 16-17.
13. Teatro del Cinquecento, cit., vol. II, pp. 1021-1023. Cfr. MARTIGNONE, Vercingetorige, «Modelli metrici della tragedia cinquecentesca in rapporto con il Torrismondo tassiano». In Studi Tassiani, 37 (1990), pp. 7-36.
14. Una sola attestazione, se non abbiamo visto male: Canace (in Teatro del Cinquecento, cit.), 1585.
15. Cfr. Sofonisba (in Teatro del Cinquecento, cit.), 229-231 (a rappresentare con notevole efficacia la concitazione del dialogo fra il Famiglio, che sopraggiunge trafelato dal campo di battaglia per annunciare l’imminente arrivo dei Romani vincitori, ed il Coro), 384, 1554-1555, 1903-1904.
16. Cfr. Marianna (in Teatro del Cinquecento, cit.), 872, 2663.
17. Cfr. Orbecche (in Teatro del Cinquecento, cit.), 116 e 1120.
18. Cfr. Orbecche (in Teatro del Cinquecento, cit.), 2096, 2248 e 2313. Il rilievo che nella tragedia giraldiana assume il racconto del Messo (che occupa per intero, inframmezzato dagli interventi del Coro, il iv atto, in perfetta corrispondenza, anche strutturale, con quello del Nuntius dell’archetipo, il Thyestes di Seneca), è confermato dal fatto che nella rappresentazione ferrarese del 1541 la parte del Messo fu affidata al primo degli attori, a Sebastiano Clarignano da Montefalco.
19. Cfr. Orbecche (in Teatro del Cinquecento, cit.), 2744-2766. Si noti, in particolare, la serie fitta e serrata di interiezioni dolorose pronunciate da Orbecche: «Oimè, ch’è questo?» (2744, che ripete il v. 408), «Ai trista me, ai meschina» (2747), «Oimè dolente!» (2748), «Ai, di ch’aspro coltello ora trafissa / M’avete, oimè» (2752-2753), «Oimè, pur devevate a’ figli almeno / Usar pietà» (2754-2755), «Oimè, più tosto / Morta foss’io, che veder cosa tale» (2756-2757), «Quant’oimè lassa / Lagrimevol mi s’offre questo dono / Ond’io credeva esser contenta al mondo! » (2759-2761), «Ai padre, ai caro padre!» (2762), «Ai spettacol crudele!» (2766).
20. Cfr. L’Orazia (in Teatro del Cinquecento, cit.), 1146-1147.
21. Cfr. L’Orazia (in Teatro del Cinquecento, cit.), 1560-1573.
22. Cfr. L’Orazia (in Teatro del Cinquecento, cit.), 2604-2610.
23. Cfr. L’Orazia (in Teatro del Cinquecento, cit.), 1687.
24. Cfr. L’Orazia (in Teatro del Cinquecento, cit.), 82-84.
25. Sperone SPERONI, Canace e Scritti in sua difesa. Giambattista GIRALDI CINZIO, Scritti contro la Canace, Giudizio ed Epistola latina, a cura di Christina ROAF. Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 1982 («Collezione di opere inedite o rare pubblicate dalla Commissione per i Testi di Lingua», 138). Per alcuni emendamenti al testo allestito dalla Signora Roaf, cfr. Teatro del Cinquecento, cit., vol. II, pp. 979-981.