Kitabı oku: «Brani inediti dei Promessi Sposi. Opere di Alessando Manzoni vol. 2 parte 2», sayfa 3
Risparmio queste «quattro parole» ai lettori e seguito a spigolare. «Al Manzoni è piaciuto comporre un romanzo storico, e come tale fu accolto dal pubblico, e il rapido smercio che in poco tempo egli ottenne, prova abbastanza ch'ei fu giudicato eccellente. Più vera sentenza, o lettori, non fu mai proferita, nè più umiliante per certe gloriole letterarie, di quella che ai Romani scrittori gridava il Venosino poeta, cioè che i libri hanno anch'essi il loro destino. E sapete voi da che cosa dipende siffatto destino? Se Orazio non l'ha detto, io ve lo dico: dipende da mille passioncelle che in ogni tempo governarono la repubblica letteraria, dalle mire dei lodatori, dall'influenza dei lodati, e più di tutto dalle stravaganze del secolo. Nè a questo io faccio torto, affibbiandogli qualche stravaganza, poichè i passati aveano anch'essi le loro. Se qualcuno fra i Secentisti avesse osato menare la sferza contro il mal gusto de' suoi tempi e dire a quel Re di Francia che premiava di tant'oro il più detestabile sonetto del nostro Parnaso: Sire, quest'atto di vostra munificenza sarà biasimato da tutti i secoli futuri; costui ne avrebbe riportate le beffe dei suoi contemporanei, e non avrebbe trovato un solo che facesse ragione alla sua giusta censura. Noi, per ventura, viviamo a giorni in cui le stravaganze dei letterati non sono premiate dai Re; e se son mille i bizzarri cervelli che ad esse corrono dietro, pochi non sono i sapienti che fanno argine alla corrente e sono custodi del bello e del vero. Pago del suffragio di questi, io non farò conto della disapprovazione di quelli; ed esaminando liberamente il romanzo storico del Manzoni, mi studierò di provare ch'ei pecca d'invenzione, di condotta, di caratteri, di stile; e che paragonandolo a quelli del Walter Scott, gli è l'istesso che scoprire agli stranieri le nostre miserie… Peggior epoca della storia milanese non poteva egli scegliere per base del suo romanzo: l'epoca della dominazione spagnuola, in cui due nazioni, anche straniere, entravano in guerra per contendersi un piccolo principato. Spento era il valore, morta ogni idea generosa, e la fame e la peste desolavano queste infelici contrade. Ditemi ora, o lettori, qual sarà il soggetto di un romanzo, che si raggira intorno a tal epoca? Quali saranno le imprese dei Milanesi, perchè il romanzo è intitolato Storia Milanese? O, per tacer delle imprese della nazione, quali almeno saranno i fatti di un qualcheduno fra i Milanesi, quali le vicende di lui, o vere, o immaginarie, che si colleghino colle vicende pubbliche, e formino insieme un compiuto e commovente quadro dei tempi? Quali saranno gli eroi? Forse l'ambizioso Governator di Milano promotore della guerra che si accende in Italia? Forse il coraggioso Duca di Nevers, che difende animosamente i diritti della sua casa? Forse il Marchese Spinola, che viene a correggere gli errori del Cordova? Forse gli oppugnatori o i difensori di Casale, di Vercelli e di Torino, Spagnuoli o Francesi che sieno, Alemanni o Italiani, poichè tali sono gli eroi e le vicende di quell'epoca? Nè un solo di cotesti personaggi è l'eroe del romanzo, nè una sola di siffatte vicende forma il soggetto dell'istoria scoperta e rifatta dal Manzoni. Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, due poveri lavoratori del contado di Como, sono gli eroi per cui dobbiamo interessarci; se si sposeranno, o no, è l'importante vicenda che tener deve gli animi nostri sospesi… Eccovi, o lettori, tutto il tessuto di questa istoria milanese rifatta: e s'ella è cosa che meriti il nome di storia, giudicatelo voi… Ditemi, per vostra fede, il soggetto è egli interessante? Due contadini, che per prepotenza di un nobile e per dappocaggine di un curato non si possono sposare, sono essi gli eroi da collegare degnamente ad un'epoca storica qualunque ella sia? E questa epoca storica vi par ella bene svolta e presentata nel suo più bel punto di vista? E che cosa avete imparato dalle vicende dei vostri maggiori, per cui possiate gloriarvi, o almeno intenerirvi e piangere con quel generoso sentimento che ispirano le nobili sventure? Gentiluomini scapestrati o sciagurati, popolo avvilito o affamato, peste fomentata per ignavia dei dominatori e per ignoranza dei dominati! Dov'è un sentimento generoso, un nobile affetto, una grande passione? Dov'è un eroe su cui riposino con compiacenza i vostri occhi affaticati dallo schifo spettacolo che avete dinanzi? Dove un grand'uomo, che comparisca qual faro nella notte di quest'epoca tenebrosa? Il solo cardinal Borromeo, personaggio episodico, è l'unica figura che spicca in certo qual modo in questo quadro disgustoso. Ma se l'A. voleva introdurre il cardinal Borromeo, perchè confinarlo in un villaggio ad affaticarsi intorno a cose di sì lieve momento? E un uomo di tanta autorità non poteva essere posto in situazione più degna di lui? E i vizi dei tempi non gli presentavano più vasto campo ove luminose apparissero le sue virtù? È bensì vero che ei divide il suo pane cogli affamati, che si adopera ad allontanare il flagello della peste, che si mostra pieno di cristiana carità: ma tutto ciò è raccontato per incidenza, e in nulla coopera all'andamento dell'azione, alla sostanza del soggetto. E dove pure ciò fosse, il cardinal Borromeo era egli un personaggio da romanzo?».
Il Pezzi nella Gazzetta di Milano pigliò le difese del Manzoni, scrivendo, tra le altre cose: «Il voler nei romanzi restringere l'importanza dei principali personaggi alle sole classi elevate, sarebbe lo stesso che stendere un piede alla catena quando si può esser liberi. Con un tal principio infinità di romanzi bellissimi avrebbero avuto l'ostracismo. Ci ha grandezza d'animo, virtù luminose, importanza in tutte le condizioni. E quanto più l'umiltà di alcune è posta in conflitto colla baldanza d'alcune altre, tanto maggiore è quell'effetto drammatico che debbe essere lo scopo delle opere destinate a commuovere. Che la storia sia combinata colla finzione e questa con quella, in guisa che l'una non possa stare senza dell'altra, il prova l'opera del Manzoni; per riguardo alla quale anzi non esitiamo a dire che la finzione è talmente fusa nella storia, che non si saprebbe scernere l'una dall'altra. Infatti, da questa fusione appunto, a cui l'autore volse i maggiori suoi studi, deriva l'interessamento che desta la lettura d'un romanzo, che, a parer nostro, veste tutti i caratteri della verità. In quanto al modo, nessuno potrà negarlo alle venture dei Promessi Sposi, poichè dal cominciamento allo sviluppo, la condotta, piana e regolare, s'unisce naturalmente a episodi senza incontrare ostacoli. In quanto allo scopo, esso è semplicissimo, perchè morale, nè sapremmo al certo indicarne un migliore. In fine, che l'azione conservi una tal quale unità e che gli episodi siano connessi all'azione in modo di concorrere all'andamento di essa, è provato del pari nell'opera del Manzoni con questo argomento: tolga la Vespa un solo degli episodi importanti dall'opera stessa e ne vedrà l'orditura scompaginata in modo da non potersene raccapezzare il filo. Se la Vespa voleva di botto veramente dar nel segno col pungolo, l'opera presentavale un lato vulnerabile in alcune prolissità, in certe minutezze ed in parecchie locuzioni non lodevoli; le quali cose, quantunque possano riguardarsi come lievi macchie in molta luce, sarebbero da sopprimere, o da emendare»42.
Il Romani, che non era uomo da perdersi ne' panni, non ci si perse, e così prese a ribattere le critiche: «Sapete voi, o lettori, che si è risposto finora? —L'edizione fu esaurita in pochi giorni. – Lo so anch'io. —Moltissimi leggitori, che non furono in tempo di procurarsela, la chiesero a prestito. – Questi furono i più fortunati. —Molti altri, per averne gli esemplari, li pagarono il doppio e il triplo. – E i più sfortunati furono questi. —Per tacere dei Fogli italiani, quelli dell'estero ne fanno gli elogi. – Pesateli bene. —Se ne preparano nuove edizioni, traduzioni, incisioni, pitture, ecc. ecc.– Se ne son fatte per libri peggiori di questo. – L'autore è festeggiato in patria e fuori. – Davvero che ci ho gusto. – Ma lo smercio, le edizioni, le lodi dei giornali, le feste degli amici e le mense reali43, e mille altre vie di farsi largo in letteratura, come provano che il soggetto dei Promessi Sposi sia interessante? – E la pubblica opinione la conti tu per niente, direte voi? – Alle volte molto, alle volte poco, dirò io. Non ho forse udito, in Italia, fischiare ad una tragedia dell'Alfieri ed applaudire a Santa Margherita da Cortona? Preferire al Tasso i Lombardi alla prima crociata? Vilipendere il Chiabrera ed altri sommi poeti ed encomiare le Melodie liriche? Nausearsi delle tragedie dell'Alfieri e dilettarsi perfino di Ser Gianni Caracciolo?44. —Che il soggetto dei Promessi Sposi sia interessante, lo prova la spontanea universal confessione di quanti lo lessero in buona fede, di non averne potuto sospendere la lettura che a malincuore, e con impazienza di riprenderla. – Gli è giusto a cotesti lettori di buona fede ch'io cerco aprir gli occhi, e ch'io grido: Signori miei, non è tutto oro quel che luce: non badate all'apparenza, esaminate la sostanza»45.
Il Romani, benchè scrivesse in fine al terzo de' suoi articoli: «sarà continuato», non proseguì; tanta e così generale fu l'indignazione che si levò contro di lui, da ridurlo al silenzio. Con rabbia feroce aveva dilaniato i Lombardi alla prima crociata del Grossi; questa nuova rabbia contro il romanzo del Manzoni era la seconda di cambio. Gli fu detto basta, e intese.
Chi passò il segno anche più del Romani nel malmenare i Promessi Sposi fu l'ab. Giuseppe Salvagnoli Marchetti di Empoli46; e il «sunto» che ne fece merita d'essere dissepolto. «Bel modo in vero d'istruire le donne! Empir loro la testa di stravaganze, di sciocchezze, di fatti e di passioni fuori del naturale, che invece d'insegnarti il vero e di dilettarti col bello, col buono, ti traggono la mente all'errore e il cuore al disordinamento delle passioni, insomma alla follia. Che utile verrà mai alle donne, se in uno stile bislacco e pieno zeppo di similitudini sconce, e che in nulla tengono al paragone; di metafore ardite e stravaganti; di parole non italiane, e proprie di un cattivo dialetto; di frasi, composte d'idee e di parole fra sè contrarie; che utile, io dico, ne verrà mai alle donne, se, fra tanta sozzurra, tu mostrerai a colori vivissimi un parroco, che tradisce per paura il suo alto ministero; un signorotto, che ruba le fanciulle, e fa uccidere chi gli dice una mezza parola in contrario; un cugino di questo birbo, che a furia di scherni più e più lo aizza al malfare; un zio, che atterrisce un provinciale di cappuccini e lo forza a mandar cento miglia lontano un buon frate, che voleva opporsi al nipote, perchè tanto male non mandasse ad effetto; una signora, fatta monaca per forza, che rompe sfacciatamente i suoi voti, che fa uscire di vita la sua conversa, la quale si è accorta della sua tresca, e che finalmente consegna, perchè ne sia fatto scempio d'iniquità, a quel birbo signorotto un'innocente fanciulla, a lei sotto la fede dell'ospitalità, o sotto la parola d'onore affidata; una fanciulla imbecille, che trema al bene e al male e che crede di aver fatto voto di verginità perchè si è messa una corona al collo; uno scimunito lanaro, che mentre dovea fuggire il potente che lo inseguiva, si ubbriaca in un'osteria e a tutti racconta dall'a fino alla z le cose sue; un signore, anche più birbone dell'altro, che fa d'ogni erba un fascio, e che per le lacrime di una ragazza (e chi sa quante ne aveva rubate, e alle lacrime di quante mai aveva insultato!) diviene un agnello? Basterà forse il contrapporre a tanto male e a tanta sciocchezza la vera carità e franca di un buon cappuccino, e l'angelico carattere di un santo arcivescovo? No davvero: chè, pur troppo, nella gioventù gli esempi del male fanno sì forte impressione, che non bastano a cancellarla, cento mila volte duplicati esempi di bene. Ed è troppo grave errore e troppo nociva cosa il dipingere agli uomini, e specialmente ai giovani, le scelleraggini, e le conversioni al bene sì repentine e sì facili, che essi possano trarre per conseguenza: —Operiamo pur male a nostro talento quanto ci piace, alla fine, quando saremo stanchi, ci volgeremo a Dio, ed egli non ci ributterà, purchè tenghiamo sempre sopra il letto l'immagine del Crocefisso e della Madonna. – Queste son dottrine che rovesciano ogni legge divina e umana e che riducono la società ad una selva di bruti, ove chi ha più denari, e in conseguenza più forza, opprime, strazia e divora il suo fratello, insultando all'umana giustizia; persuaso che la divina non ha saette per coloro che hanno fisso in cuore di ritornare a Dio quando saranno tutte sbramate le voglie e tutte spente le passioni. Oh! la divina morale!»47.
III
Del romanzo si occupò anche un valentissimo giureconsulto, il prof. Giovanni Carmignani, e lo fece soggetto di un dialogo tra un critico e un giornalista48. Il giornalista loda sempre e sempre difende; il critico biasima e va cercando addirittura il pelo nell'ovo; finisce però col ricredersi, e conchiude: «Eccomi pure a me:
…il finto
mio rigore abbandono.
E sapete perchè mi piacque essere rigoroso! perchè nel romanzo mi punse la frase derisoria ch'io c'incontrai contro quel Metastasio, co' versi del quale chiudo adesso il nostro colloquio, non essendomi sembrato, che l'anima più drammatica, che abbia natura prodotta, dovesse deridersi come pittrice di eroi paragonabili a gente da piazza e da trivio. Del resto, io sono d'avviso, che il romanzo è una originale e classica produzione; che son sogni e ciance i supposti plagi dal Walter Scott nelle Prigioni di Edimburgo e ne' Puritani di Scozia; che l'A. ha finalmente dato un romanzo alla prosa italiana e ha fatto cessare l'antico e giusto rimprovero dell'Arteaga allorchè nelle sue note alla dissertazione del Borsa rinfacciava alla Italia di non avere un S. Real ed un Marmontel; che, prescindendo da certa mancanza di più verisimil cemento nella struttura dell'azione del romanzo, il merito della esecuzione vince sempre e riscatta qualunque più minuto difetto dell'opera. E poichè incominciai col mostrarmi nemico del romanticismo, ingenuamente vi dico, che se vi ha componimento nel quale quel genere possa essere, onde servire all'effetto, adottato, egli è certamente il componimento in prosa e il romanzo».
De' tanti appunti fatti dal critico a' Promessi Sposi, uno mi sembra degno di nota. Toccando della «mala voglia» con la quale Lucia «si presta a sorprendere il parroco», trova che l'espediente del matrimonio clandestino «non era certo peccaminoso», ma «di tale evidente giustizia, che, prescindendo dalla logica dell'amore, se ella ne aveva pure per Renzo, doveva a lei dimostrarla il rifiuto d'un parroco ignorante, pauroso, avaro e usuraio, come l'Autor lo dipinge». Poi, in nota, aggiunge: «Le denunzie erano già fatte e il matrimonio non poteva dirsi più clandestino, non rilevando molto la sua celebrazione in luogo non sacro. Sancez, De matrim., lib. III, disp. 15, n. 20. E qualora le denunzie non fossero state fatte, i migliori moralisti son concordi nel dire, che quando il matrimonio è ritardato dall'immaginevole rifiuto del parroco, non è peccaminoso il sorprenderlo, per contrarlo. Paul. Gabriel. Antoine, Theol. Moral. univ. tractat. de matrimonio, § 13, not. 3. Ecco dunque un romanzo, il qual poggia tutto sopra un errore di gius canonico e sopra un error di morale».
Al Carmignani è però sfuggito un altro piccolo scappuccio del Manzoni. Fa del P. Cristoforo il confessore di Lucia; ora, la giovane fidanzata, nel 1628, non poteva confessarsi da lui, perchè «i cappuccini di quei tempi, giusta l'inibizione delle loro costituzioni, tolta solo qualche tempo dopo, non confessavano assolutamente persone estranee all'Ordine49».
Un critico milanese, a cui piacque di restare anonimo50, prese a leggere i Promessi Sposi; e sebbene, durante la lettura, non venisse «giammai scemandosi» in lui la «stima grandissima» che aveva per «quel celeberrimo autore, di cui tanto è vulgata la fama, che non pur nell'itala terra, ma in tutte le più colte nazioni è molto apprezzato»; nel romanzo trovò quella «imperfettibilità», che è «indivisibile compagna de' figliuoli di Eva». Pensò dunque di «schiccherare un foglio d'alcuni cenni critici intorno a ciò che di meno pregevole e di meno consonante al rimanente» vi aveva rinvenuto; manifestando nel tempo stesso «le bellezze ancora dell'opera, benchè con minore verbosità dei difetti». Lasciando in pace le «bellezze», diamo un saggio dei «difetti» che la fantasia del critico nota: «Renzo ed Agnese volevano che Lucia parlasse di che le avvenne con don Rodrigo: Ora vi dirò tutto, rispose Lucia, asciugandosi gli occhi col grembiale. Se l'A. laddove dipinge Lucia vestita nel giorno nuziale me l'ha presentata, oltre agli spilli e al rimanente, con due calze vermiglie, con due pianelle di seta a ricami, e mi ha passato sotto silenzio il grembiale, io fui necessitato di attingere ch'ella in quel dì non lo cingesse. Adesso poi veggio che appunto in quel medesimo giorno, e non ancora tramutata di panni, si terse le lagrime col grembiale. Com'è questa faccenda?.. O Lucia aveva il grembiale, o Lucia non lo aveva; una delle due. Se lo aveva, inavvedutamente l'Autore: 1.º ha trascurato di farlo conoscere al proprio leggitore; 2.º gli ha dato verun prezzo, facendogli esercitare l'officio del moccichino, mentre, se a tutto l'abito doveva aver consonanza, saria pur valuto qualche cosa. Se all'incontro non lo aveva dapprima, o l'A. ha preso adesso un abbaglio, o fa duopo argomentare, non che inserire negli annali, che = uno spirito, nel giorno 8 di novembre dell'anno di nostra redenzione 1628, ha cinto di un grembiale Lucia Mondella, mentr'essa stava per favellare di don Rodrigo con Agnese sua madre e con Renzo Tramaglino suo innamorato =». Eccoci ad Agnese, che, in casa del sarto, si abbocca col Cardinal Federigo e svela le colpe di Don Abbondio. «Udire una femmina» (nota il critico) «inveir quasi, e dinanzi al Cardinale, e contra il proprio curato, e perchè? perchè questi, onde scansare di perir tosto, ha prorogato il giorno delle nozze: ov'è colui che non saria preso da escandescenza contro della donna crudele, e non cercherebbe di turargli la bocca e di troncargli nella strozza le parole, ove la donna non fosse una larva che lo eludesse? Ma la passione del leggitore vuole pur trovare il suo sfogo; sicch'essa, riversandosi almeno sopra le pagine istesse, che ha dinanzi, chi sa quante insieme a quelle ne andranno vittima! Il mio tirare di penna è sicuramente il minor male».
Giuseppe Veladoni riconosce «che le menti di tutti gli italiani, e si potrebbe anche dire di molta parte d'Europa, restarono sopraffatte di meraviglia, da entusiasmo e da vero diletto» a leggere i Promessi Sposi. «Una tanta opera… non poteva esser pensata e scritta che da un profondo filosofo, da un vero conoscitore del cuore umano e da una penna condotta dai sentimenti più vivi di religione e di patria… Per me, credo impossibile che siavi uomo di cuore che non abbia da rimaner commosso sino alle lagrime in più e più luoghi di questa mirabile prosa… Essa è un libro che non perirà mai e farà sempre grande onore all'Italia del secolo XIX. Ma che? Non ha dunque difetti? Sì, ne ha: ma tutti compensati da una straordinaria bellezza e sodezza, così di pensieri, come di stile, considerati anche in sè stessi. Sono, per esempio, moltissime le parti che potrebbero essere capaci di utile restringimento, e queste per non raffreddare di troppo il calore della storia principale. Tale, per esempio, la lunga conversazione, di cui è testimonio fra Cristoforo, quando trova a tavola don Rodrigo. Ma non è forse quella conversazione medesima una pittura vera e fedele delle follie che passavano per la mente dei grandi d'allora? Dissero alcuni altri, che la storia di Lucia e di Renzo, cioè del matrimonio di due villici, è cosa troppo piccola per farne il soggetto di un'opera di tre volumi, ond'è che le parti accessorie soffocare dovevano il principale. Ma non è forse vero, che per questo appunto che il matrimonio di due villici è una piccolissima cosa, tanto più ne risulta quindi l'evidenza di questa gran verità, che in quei bruttissimi tempi, mentre i grandi, avendo paura uno dell'altro, si rispettavano a vicenda, tutta la loro prepotenza andava poi a scaricarsi nell'oppressione dei piccoli? Volete sapere dove io non saprei come validamente difendere il grande autore? Egli è sull'orrenda, scandalosa e ributtante comparsa, che malgrado l'industria usata dal religiosissimo autore nell'accennare le cose, fa nullameno in quest'opera quell'indegnissima monaca. Ben vedo e conosco che lo scopo morale del grand'autore, anche in questo caso, fu quello di far vedere a quali orrendi termini riesca una vocazione forzata, e quanto grande peccato era egli quello delle famiglie di un tempo, che monacavano le figlie per viste economiche e mondane affatto. Ma il danno e lo scandalo di quella pittura è troppo potente per concepire la speranza che fra cento lettori possano li novantanove raccogliere il frutto dell'esempio, e non rimaner invece amareggiati dal fiele. E se anche il danno non fosse che per uno solo?»51.
A Torino, Federico Govean così salutava la comparsa de' Promessi Sposi: «Mancava all'Italia un buon romanzo», che potesse rivaleggiare con quelli del Lesage, del Cervantes e dello Scott. «Sorse quella benedett'anima del Manzoni, onore e lume d'Italia, e non contento di avere tentato una forse dannosa rivoluzione nella drammatica, e di aver migliorata la lirica moderna, volle far dono all'Italia di un romanzo, ma di un vero romanzo; opera degna di non altro ingegno se non di quello che dettò la Pasqua e il Cinque Maggio». L'avv. Modesto Paroletti notava: «Un cospicuo letterato piemontese, che già ebbe tentato il romanzo allegorico, aveva quindi intrapreso di battere le orme di Walter Scott, pubblicando due storiette, scintillanti di erudizione… Nelle altre contrade d'Italia parecchi autori stavano in procinto di calar anch'essi nell'arena romanzesca per farvi pompa dei loro lavori, fra cui giova distinguere il Castello di Trezzo e la Battaglia di Benevento; e quelli in cui, fra i subalpini, un dottor tortonese faceva pur mostra di bell'ingegno, la Sibilla Odaleta cioè, seguita dalla Fidanzata Ligure. Ma la fama loro doveva ecclissarsi dal romanzo de' Promessi Sposi di Alessandro Manzoni: perchè, alla chiarezza d'un tanto nome, ottenendo quest'opera la maggiorità de' suffragi, allettando i più schivi, piacendo ai dotti e facendosi leggere da ogni persona, fu acclamata qual libro popolare in Italia». Ne loda lo stile, la scelta e la condotta dell'argomento. «Fra tutte le difficoltà non era la minore quella dello stile in cui si avesse a dettare. Dovendo purgarlo da ogni sentore d'imitazione straniera, perchè ai dì nostri ogni cosa si desidera nelle prette forme italiane, e dovendo nullameno renderlo grato pei modi del dire, ognuno può giudicare quanto malagevole fosse tal cosa; mentre, se importava di dare il bando ai modi francesi, per contro, era necessario lo schivare quell'andamento stucchevole che presenta all'orecchio dei più lo stile cruscante. E questa può affermarsi essere stata vittoria grande riportata dal Manzoni, perchè lo stile del suo romanzo è schietto italiano, senza macchia d'affettazione; è classico senza arcaismi; ed è purgato, non senza una qualche tinta di popolarità, che molto aggiunge alla verità de' ragguagli. Stile insomma da poter servire di modello a chiunque voglia scrivere romanzi italiani». Dopo averne con ammirazione schietta e sentita rilevato le grandi bellezze, tocca de' difetti. «È danno che questo libro, il quale da romanzesco può pigliar nome di storico, nelle parti più importanti diventi prolisso di soverchio e alquanto noioso. A lato delle inimitabili descrizioni rapide, vive e ben accennate, come quelle del lago di Lecco, della notte in cui battevano i bravi condotti dal Griso per rapire gli sposi, ed imprendevano questi a sorprendere il parroco, e poi del muoversi del P. Cristoforo da Pescarenico, e dello scappare Renzo di là dall'Adda, riprova il lettore un fastidio grande per le cotanto prolungate e sminuzzate due descrizioni della carestia e della pestilenza»52.
Il prof. Giuseppe Chiappa, dell'Università di Pavia53, dice che «i così detti romanzi istorici sono una sì fatta contraffazione dell'istoria che non possono venir lodati di giusta e sincera lode. Quel mescere il reale all'immaginario, quel confondere il vero al falso, e il naturale al fittizio, non può dare che una mostruosa opera e quasi ibrida e bastarda». Soggiunge però: «ma ove la finzione sia ben innestata sul fatto istorico, e che quella non sia che un colore, o mezzo, per isvolgere e mostrare lo stato reale delle cose, serbando in ogni luogo le leggi della convenienza e del verisimile, ne potrà risultare un utilissimo lavoro. E tale è il celebre romanzo del Manzoni». Ne tesse le lodi, ne segnala le bellezze; poi conclude: «Nessun altro romanzo venuto dopo, ha potuto appena toccare a un terzo della gloria durevole del romanzo di Alessandro Manzoni. Lo stile poi si è, quanto si richiede, convenevole al soggetto. Egli è vivo, animato, franco e pieno di forza. Solo si fa desiderare più purgata la lingua. Ma oltrechè finge l'A. averlo ridotto da una cronaca di que' tempi corrotti, egli non ha poi volto lo ingegno che alla chiarezza e all'evidenza, schifando ogni artificiosità e leziosaggine. Ed in ciò è ottimamente riescito, conciossiachè nulla siavi che in quanto a intelligenza abbia mai dato luogo a lagnanza. Ed in ciò egli ha conseguito il principale scopo di ogni scrittura, quello di rendersi intelligibile e chiarissimo a tutti»54.
Due de' nostri esuli, Giovita Scalvini e Pietro Giannone, presero a esaminare il romanzo del Manzoni. Giuseppe Pecchio scriveva da Brighton il 10 gennaio del '30 a Antonio Panizzi: «La Rivista italiana si stampa. [Pellegrino] Rossi ha scritto l'Introduzione, Scalvini un bellissimo articolo sui Promessi Sposi, [Giovanni] Arrivabene uno su gli Istituti de' poveri de' Paesi Bassi. Si spera di avere dei collaboratori tedeschi di primo grido. Si avranno traduzioni dallo svedese. Quindi mi si scrive che passò stagione di osservazioni, e giunta è quella di dar spalla all'impresa. È vero, e bisognerebbe sostenerla con decoro almeno per un anno»55. La Rivista ebbe vita, ma per due mesi soltanto, e vi fece la sua comparsa l'articolo dello Scalvini56; addirittura «bellissimo», anzi quanto di meglio venne allora pensato e scritto intorno a' Promessi Sposi. E fu giustizia il toglierlo dalla dimenticanza colpevole in cui giaceva, il ristamparlo e il divulgarlo57 a onore della critica e del nome italiano.
Il Giannone nel giornale L'Esule, che incominciò a stamparsi a Parigi nel settembre del '32 con a lato la traduzione in francese; e lo dirigevano Giuseppe Cannonieri, Angelo Frignani e Federigo Pescantini; non si limitò a parlare del romanzo, trattò anche del Carmagnola e dell'Adelchi, de' Carmi e degl'Inni sacri58. Del romanzo ne dette un largo sunto, poi pigliò a farne l'esame. «Un lettore difficile» (son sue parole) «esigerebbe forse un piano più magnifico, e condizione e caratteri meno comuni ne' due, che dan pure il titolo all'opera. Le avventure de' promessi sposi son esse le principali, a cui s'aggiungono come episodi il cappuccino Cristoforo, la monaca, il moto de' Milanesi, l'innominato, il cardinale, la fame, il passaggio d'un esercito, la peste e in generale la condizion di que' tempi, o viceversa? Renzo che è? Un filatore di seta, onestissimo giovine per altro, e, come dice egli stesso, un buon figliuolo, ma nè distinto per altezza di sensi, nè per vigor di carattere, nè per altro che dia lustro e importanza. Interessa, non per sè, ma per la persecuzione di Don Rodrigo. Ne' moti di Milano soltanto acquista qualche valor che gli è proprio, e nella costanza del suo amor per Lucia. Questa poi è anche minore di lui, e se non si trovasse nel castello dell'innominato, ov'è bella veramente e per dolore ineffabile e per isventura, la sua rassegnazione abituale ci parrebbe mancanza d'ogni umana affezione. Il medio evo offriva avvenimenti più splendidi e caratteri d'un'energia che spaventa, per così dire. Che importa che nell'avvilimento in cui sono gl'Italiani, sappiano che altre volte sono stati così, per trovare un esempio e una scusa forse alla loro ignavia presente? Nel vedersi presentare un quadro d'oppressione attiva da una parte e di passiva stupidezza dall'altra, si consoleranno forse perchè que' tristi tempi passarono, e soffriranno quindi pazientemente i mali che rimangono loro, perchè in cumulo minore? Ma che han mai guadagnato? I pessimi de' mali che gravan sempre sovr'essi, terribili, insistenti, mortali: la divisione e 'l dominio straniero. Ecco ciò che un lettore severo, un lettore che riferisca ogn'opera alla gloria e all'utilità della patria, le uniche non usurarie e generose davvero, potrebbe osservare riguardo alla scelta del soggetto; ma questa scelta non era nell'arbitrio dell'A. per la difficoltà de' tempi e de' luoghi, e gli è costato, ne portiam ferma opinione, mille volte più sforzo d'ingegno, il cercarlo e il combinarlo così, che se avesse fatto altrimenti. Discutiamo dunque sul piano com'è, senza cercare più oltre. Il sig. Manzoni volendo, e noi ne siamo convinti non solo, ma certi, anzi tratto ci proverebbe, non che così dovess'essere, ma che poteva essere solamente così.
«Questo fatto, sì breve, semplice e chiaro, ha però tali episodi e schiarimenti così allungati, che distraggon l'attenzione da esso. Quanto a questi ultimi, l'insistere che si fa, e nel bel principio dell'opera, su la inutilità de' decreti contro i bravi, basterà, crediamo, a provare, che le digressioni non son sempre nè felici, nè brevi. Quanto a' primi, quello della monaca di Monza fa accorgere che dovria finire molto più presto. Gli altri, la fame cioè, e il guasto prodotto dal passaggio degl'imperiali, e la descrizione della peste, nel tempo stesso che mostran la forza d'ingegno e di pennello di chi ha saputo dipingerli con sì terribile evidenza, potrebbero spingere su le labbra a più d'uno la breve, ma calzante sentenza: non erat hic locus. Le pagine che riguardano il cardinal Federigo sono protratte in modo da farci credere che l'autore temesse che quel prelato non fosse conosciuto abbastanza, e ne faccia perciò il panegirico; e quelle poi ove si parla del carattere e degli studi di don Ferrante, sembrano, e quasi per confessione dello stesso scrittore, veramente perdute. Ma vi sono due altri episodi, due, l'uno per la brevità, l'altro pel legame immediato alla narrazion principale, entrambi per verità di colori e per interesse fortissimo, la cui bellezza è rara veramente e mirabile; gli eventi del P. Cristoforo quand'era al secolo, e l'apparizione sulla scena dell'innominato. Peccato che il primo, a cui ci eravamo tanto affezionati, scompaia quasi al cominciare, e non ritorni che al finir dell'azione; e l'altro, il di cui carattere è gigantesco senz'essere esagerato, non produca qualche cosa di veramente straordinario e solenne come l'indole sua! Nella storia ciò accade sovente; ma nel romanzo, e sia pure storico quanto vuolsi, lo scrittore non ha il privilegio d'intendere con ogni sforzo all'effetto dell'arte?
Appunto nell'Arcadico [xxxvi; 305] discorrendo della versione delle Odi di Pindaro fatta da Giuseppe Borghi prese a mordere «la miserabile e bislacca e torta foggia di metri regalataci con tante altre cose non poetiche e non italiane da Alessandro Manzoni». Il Borghi, in una lettera a Gaetano Cioni, stampata nell'Antologia [n.º 87, marzo 1828, pp. 166-167], sorse a difesa del Poeta; ma l'iroso critico, duro più che mai in quel suo giudizio, diede fuori lo scritto: Intorno gl'Inni sacri di Alessandro Manzoni dubbi di Giuseppe Salvagnoli Marchetti, Roma 1829. Presso la Libreria Moderna, Via del Corso n.º 348 [In Macerata, presso Benedetto di Antonio Cortesi]; in-16.º di pp. xxiv-112. A questi «biasimi da pedante», come li chiama il Tommaseo, l'Arcadico [XLII, 131] applaudì di gran cuore. La Biblioteca italiana [tom. 55, luglio 1829, pp. 1-20], pur non menandogli buone tutte quante le censure, concluse: «Il parlare di originalità, di nuova scuola, d'ingegno divino, di culto, è un sostituire l'entusiasmo alla ragione, un traviare il giudizio dei giovani e dar nascimento a quelle tante poesie che il Manzoni non vorrebbe al certo aver fatte e nemmanco approvate, e non di meno si credono manzoniane». Enrico Mayer, peraltro, nell'Antologia [n.º 104, agosto 1829, pp. 92-99] prese «a difendere» (son parole del Tommaseo) «non tanto il nome dell'Italiano poeta, quanto l'onore d'Italia», e «lo difese con alto sentimento dell'arte e con facondia cordiale». Videro pure la luce le Osservazioni di un giovane italiano sui Dubbi del signor Giuseppe Salvagnoli Marchetti intorno agli Inni sacri di Alessandro Manzoni, Reggio, tip. Toreggiani e comp., mdcccxxx; in-16.º di pp. 230. Sono di Luigi Fratti, che, sebbene pregato dalla modestia del Poeta a «mettere da banda» il lavoro, per consiglio del P. Bottini gesuita, lo diede alle stampe. Cfr. intorno a questa controversia: Gambini Carlo, Richiamo di alcune verità manifestate nel 1829 dal Salvagnoli sugli Inni sacri del Manzoni, Milano, tip. Galli e Raimondi, [1882]; in-16.º di pp. 12. —Intorno gl'Inni sacri di Alessandro Manzoni dubbi di Giuseppe Salvagnoli Marchetti, ristampati con aggiunte, in forma di dialogo, fatte da Federico Balsimelli, Bologna, tipografia pont. Mareggiani, 1882; in-16.º di pp. 360.