Kitabı oku: «Brani inediti dei Promessi Sposi. Opere di Alessando Manzoni vol. 2 parte 2», sayfa 4
«Da questo rapido cenno delle cose che ci sembrano mende nell'esecuzione del piano tale qual'è, può indursi che lo stile sia generalmente diffuso; e difatti a noi pare così. In quanto a lingua, l'A. ha, più spesso che non si vorrebbe, fatt'uso di parole, d'idiotismi e di maniere proprie del luogo ove l'avvenimento si compie. Omero formava la sua lingua maravigliosa da' differenti dialetti di Grecia, Dante da quelli d'Italia, ma questi due esseri straordinari erano i primi. Gli altri grandi venuti dopo di loro, non l'hanno più fatto, e la ragione n'è chiara; non ne avevan bisogno, nè credevano o bello o necessario tentare ciò che i tempi non concedevano più. Potrebbe aggiungersi anche, e senza tema d'errare, che la continua tendenza ad essere facile, e stretto il più che si può alla natura delle cose, abbia fatto trapassare d'un salto l'A. su certi modi, che appartengono alla lingua parlata sì, ma non sempre alla grammaticale.
«Rispetto allo scopo morale di questo lavoro, a noi sembra che sia e la purità del costume e la sommissione ai decreti della Provvidenza suprema; due grandi insegnamenti ambedue, il primo d'una utilità generale e che balza agli occhi d'ognuno, perchè limpido come la luce del sole; il secondo d'un immenso conforto nelle sventure, allorchè sono consumate e irreparabili, ma che può avere un'influenza rovinosa e veramente fatale nell'atto in che le sventure ti sovrastano o percuotono, essendo allora, com'è difatti, soggetto a tante interpretazioni ed applicazioni quanti sono i caratteri degli uomini, i loro interessi, le passioni, le circostanze di famiglia, di patria, di religione, etc. etc. Perchè, quale sulla terra può dirti sicuramente: – Questa sventura ti viene dal cielo, e convien rassegnarviti; questa no, e puoi e devi lottare contro di essa? – È forse che la lunga tolleranza de' popoli, riguardo agli atti crudelissimi e nefandi della prepotenza feudale e dell'inquisizione, deriva tanto da questo elemento astutamente impiegato, quanto dal timore che si ha d'una potenza stabilita, sia pure qualunque, e dalla naturale tendenza degl'individui alla calma, ove il moto offra un evidente pericolo. Gli ambiziosi vestano poi il manto dell'umiltà o quel degli onori, l'hanno, e spesso pur troppo! usato a lor fini privati: in altre parole, l'altare ed il trono, o meglio ancora, il potere spirituale ed il temporale, i quali per quanto altro possa parere a' poco veggenti, si collegano in essenza fra loro, e sono per ogni società costituita quello che l'anima e il corpo sono per l'uomo, hanno fatto di esso ciò che un avaro fa d'una mina d'oro o d'argento. In fine è tal arma che, secondo la man che la tratta, può essere spada e scudo a vicenda, può salvare un popolo dall'infamia del servaggio, e farvelo piegare vilmente. Ma ne' Promessi Sposi quest'elemento è esso presentato nella sua parte buona o cattiva? Noi oseremmo dare un tal giudizio, quando, non per induzione soltanto, ma per esperienza potessimo veramente sapere qual'è l'impressione che lascia nel comun de' lettori. Certo è intanto che nelle circostanze e ne' tempi che corrono, la virtù della rassegnazione non è quella che occorre alla nostra povera patria: la sua sventura può essere combattuta e vinta da una volontà forte e tenace, temprata dalla prudenza. Che se mai, oltre lo scopo che abbiam creduto dovere accennare, si dicesse che v'è quello anche di far conoscere i tempi e promovere il debito abborrimento contro i privilegiati, un giudice severo risponderebbe nel primo caso, che un tale ufficio tocca alla storia; e nel secondo, che è prodezza intempestiva l'aprire ferite in un corpo già da tanto tempo cadavere. La feudalità, questo mostro immanissimo, non somiglia all'idra della favola: le sue teste cadute nè si riprodusser finora, nè si riprodurranno mai più.
«Presentato ed accennato così il linguaggio della censura, ci si permetta ora passare alla seconda parte della critica, non meno utile e più piacevole a un tempo; nè faccia maraviglia il vedere lodato ciò che ci è parso finora dar luogo a qualche rigida osservazione; non v'ha cosa, che non possa offrire due aspetti. E primamente nella scelta di due protagonisti volgari, il sig. Manzoni ha mostrato avere un concetto, più sensato non solo, ma più generoso ed umano della generalità de' romanzieri presenti. Perchè mostrare di credere che qualche classe della società solamente meriti la menzione e gli onori dell'eloquenza, ed il resto, che pure è base di tutto e fa vivere queste classi medesime, debba essere condannato all'oblio? Strana contradizione questa con lo spirito del secolo e col vantare che fanno i più celebrati scrittori la dignità dell'umana natura, la quale col fatto paiono restringere poi a sola qualche frazione di uomini! Ne' Promessi Sposi le debolezze, gli errori, i vizi e i delitti de' potenti si presentano tai quai sono, e non con quell'aria d'amabile storditaggine, d'interesse e di grandezza quasi, di cui li adornano e li accarezzan sì spesso gli altri scrittori di simil genere; i quali, magnificando i tempi feudali, non sembrano neppur dubitare che posson mettere così in forse il loro titolo di promotori, sostenitori o fautori almeno de' dritti imperscrutibili che la natura ci accorda. Ma tranne il romanziere Britannico, che l'ha fatto con cognizione di causa, e con animo, per quanto esser mai possa, deliberato, gli altri, illusi non sappiamo da quale malia, hanno seguito la corrente, senza pensare ad altro scopo che alla novità; ma speriamo che siano per avvedersene in tempo. Il nostr'A. non è caduto in tal fallo; e per certo, leggendo quest'opera, nessuno risentirà mai la più picciola brama d'essere distinto da' suoi fratelli per qualche privilegio mostruoso, ereditato od usurpato sovr'essi.
«Intanto la ricchezza, la varietà, l'evidenza delle descrizioni, sono pregi che distinguono quest'opera dal principio alla fine. Gli episodi, quelli stessi che sono meno giustificabili, offrono tale abbondanza di cose, di pensieri, d'interesse, e tanta conoscenza del cuore umano, che appunto per questo distraggono dall'azion principale. Commove e desta un'ansia crescente il vedere con quali malizie fittissime la religiosa di Monza sia tratta a compiere l'intiero sacrifizio di sè, e non si può a meno, nel condannar le sue colpe, di sentirne un'affannosa pietà. L'ammutinamento de' Milanesi è descritto sì vivamente, le particolarità ne sono sì vere, che vedi agitartisi tutta quella calca su gli occhi, ne distingui i volti, ne ascolti la voce. L'ebbrietà perfino del povero Renzo non ti percuote meno dell'astuzia per la quale il bargello riesce a carpirgli il nome di bocca. Ma ciò che supera ogni lode è Lucia nel castello dell'Innominato. L'immagine d'un essere debole ed innocuo di fronte ad un altro sì formidabile e spietato, e la vittoria del primo, racchiudono in sè un profondissimo senso di morale, che fa palpitare d'un impeto di speranza e d'ardire, ed eleva ogni anima ben nata. I pensieri di quell'uomo feroce, que' pensieri che lo traggono a disperare, e l'altro che gli arresta la mano; tutta quella notte infine offrono un tal che di sì terribilmente vero, misterioso e solenne, che a noi sembra poco il dire che negli altri lavori di simil genere non v'ha brano che possa paragonarsi a questo. Nè si creda che dopo un tal quadro la fantasia e il cuor del poeta mostrino esaurimento o stanchezza. La descrizione della fame, e più ancora quella della peste, fanno veracemente rabbrividire. In quest'ultima il sogno di don Rodrigo nella notte stessa che n'è colpito, basterebbe esso solo a far conoscere quanto l'A. senta avanti nell'arte somma che segue sì dappresso la natura senza scoprirsi; e la madre che reca la sua bambinella morta a' monatti, è tal misto di desolazioni, di pietà, di amore, di dolor rassegnato, che, breve e toccato di volo, com'è, ti si scolpisce indelebilmente in pensiero. Questi due brani stanno, a parer nostro, con vantaggio in faccia a tutto lo splendore, l'abbondanza e la verità di quella vivace e straordinaria pittura. I caratteri sono disegnati a tratti sì giusti ed arditi e sostenuti con sì gran maestria, che non si smentono mai; e quello di don Abbondio in particolare è nel suo genere d'una verità che dispera. Quel colore locale che non t'induce mai in errore, quell'esattezza di fatti che non si trova mai
Dans les romans où l'on apprend l'histoire,
come ha cantato scherzando un savio francese59, sono qualità che, unite ad uno stile pieno di vita, e vario sempre secondo gli accidenti, e ad una lingua facile, ricca, armoniosa, assicurerebbero la fama di questo libro, quand'anche non vantasse altri meriti, e, come speriamo aver dimostrato, di gran lunga maggiori.
«Quantunque questo genere, per quanto ci pare, non debba porre gran radici in Italia, perchè nell'ampissimo campo delle lettere, offre gli stessi caratteri degl'Ibridi fra le piante, pure trattato da chi, oltre la forza d'ingegno, si figga un alto, un utile proposito in mente, può produrre nobilissimi effetti».
IV
De' tanti giudizi dati da' giornali d'allora intorno a' Promessi Sposi, due levarono un gran rumore: quello della Biblioteca italiana e quello dell'Antologia: ma l'eco di quest'ultimo, scritto da Niccolò Tommaseo60, si dileguò ben presto; non così l'eco dell'altro, uscito dalla penna di Paride Zaiotti61, in voce di critico ingegnoso e acuto tra' partigiani della vecchia scuola. Fin dal '24, appunto nella Biblioteca italiana, aveva scritto un lunghissimo articolo intorno all'Adelchi, diviso in due parti62; ma la Censura austriaca (è proprio il caso di ripetere: Tu quoque, Brute!) ne corresse e mutilò alcuni brani, con grave dispiacere del critico, che li mandò a leggere manoscritti al Manzoni; il quale, vinto dal tratto cortese, fu forzato a rispondergli e a ringraziarlo63.
L'incarico di scrivere la rassegna de' Promessi Sposi l'accettò contro voglia: era un libro che non gli andava a sangue; lo riteneva «sotto alcuni rapporti» inferiore alla Sibilla del Varese che, a suo giudizio, «era un romanzo, cosa che non osava dire degli Sposi promessi». La scrisse finalmente, dopo essersela fatta aspettare un gran pezzo; per concludere: «bello è questo romanzo, ma il Manzoni potea fare anche di più». E si accordò con lui il Tommaseo ripetendo: «dall'ingegno e dall'animo di Manzoni si deve pretender di più»64. Erano due delle tante «persone di gusto», che «lo trovavano molto inferiore all'aspettazione».
Un bibliofilo romagnolo, Giacomo Manzoni di Lugo, il futuro ministro della Repubblica Romana, inviando al P. Alessandro Checcucci l'articolo dello Zaiotti: Del romanzo in generale e dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni discorsi due, l'accompagnava con questa lettera: «Vi mando il libro dello Zaiotti, di cui vi parlai. E certamente questo vi sarà dono gratissimo, chè due prose di questo genere, così ben condotte, e scritte con pari facondia e modestia forse non le ha l'Italia nostra. Fra le lodi le più smodate che da ogni parte son piovute e piovono sopra il romanzo del Manzoni, fra il grido che lo proclama capo-scuola del Romanzo storico e principe dei romanzieri italiani, levarsi in piedi e pubblicare una censura di 101 pagine, giusta dalla prima all'ultima parola, sempre dignitosa senza iattanza, sempre riverente senza viltà, scriverla con istile che ogni letterato vorrebbe invidiargli, piano, armonioso e variatissimo, e divulgarla, e trovar plauso in Milano, sotto gli occhi del Manzoni, nel teatro delle maggiori sue glorie, è impresa ardua davvero». Il P. Checcucci si affrettò a fare una nuova edizione di «questi due maravigliosi discorsi, sì perchè chi non l'ebbe ancora alle mani potesse ammirarvi la vasta dottrina, la stupenda eloquenza, la profonda erudizione ed il retto giudizio di quell'esimio scrittore; sì perchè i giovani specialmente, usi a muoversi più per affetto che per ragione, nel giudicare delle opere, sebbene d'uomini grandi e giustamente reputati, prendano piuttosto norma dalle regole invariabili dell'arte, che dal prestigio dell'opinione, alcune volte sospetta e ben sovente non buona». Il Checcucci battezzò «quinta» la sua edizione65, ignorando che l'autore stesso già ne aveva fatta una «sesta» a Venezia66; nella quale, per bocca del tipografo, manifesta l'intendimento suo: quello di «preservare il cuore e l'ingegno» degli italiani «dalle dannose influenze che recar potevano i grandi esempi di Gualtiero Scott e di Alessandro Manzoni».
Lo Zaiotti, a cui non manca nè erudizione, nè urbanità, nè qualche acuta osservazione particolare, in fondo ammirava il Manzoni, ma come poeta e poeta lirico soprattutto. Fedele alla scuola de' classici, che proscrive in letteratura quanto non ha faccia d'antico, parlò del Manzoni tragico col preconcetto che fosse fuori di strada: «perchè vorrà egli ostinarsi ad esser meno di Sofocle, quando l'Italia gli offre la corona di Pindaro?» Parlò del Manzoni romanziere col convincimento che il romanzo storico sia da rigettarsi; e appunto perchè un grande ingegno si era dato a coltivarlo, gli parve una missione riparatrice flagellare quel nuovo genere senza pietà. A difesa del romanzo storico67 si levò animoso Giuseppe Mazzini; pur confessando (ed era giustizia) che «l'autore dei due discorsi scrivendo a lungo del romanzo d'Alessandro Manzoni, il fece con sì gentile animo e tanto affetto del vero, da insegnare ad ognuno, come la critica debba trattarsi». Nota che lo Zaiotti, «prevalendosi della fama che circonda il caro nome del Manzoni, attribuisce unicamente a vizio del genere il difetto d'interesse e calore ch'ei trova nei Promessi Sposi. Forse il difetto si esagera, e più d'una donna gentile che ha palpitato sui casi dell'ingenua Lucia e impallidito al ritratto dell'Innominato, accusa il giudizio di rigidezza; ma foss'anche vero, che trame? L'ingegno del Manzoni è vastissimo; ma a nessuno è dato balzar fuori, in un genere nuovo, perfetto come Pallade dal capo di Giove. Fors'egli avrebbe dovuto scegliere i suoi e personaggi ideali in una condizione, che ammettesse, se non più amore, modi almeno d'esprimerlo più caldi, e mezzi maggiori d'azione. Fors'anco il fine ch'egli ebbe di rischiarare un oscuro periodo del secolo XVII si svela troppo apertamente ad ogni capitolo, sicchè n'è riuscita piuttosto una storia resa dilettevole da romanzesche avventure innestatevi, che un romanzo fatto utile dall'intreccio d'un quadro storico»68.
Nell'esaminare l'Adelchi lo Zaiotti ne propose un nuovo disegno, «dove il notabile si è che violando la storia, viensi a provare come la storia sia necessaria a poesia»69. Anche nell'esaminare i Promessi Sposi suggerì de' mutamenti; questo, tra gli altri: «anche il luogo, in cui l'ottimo frate» [il P. Cristoforo] «viene ricondotto sopra la scena, ne sembra da collocarsi fra quelli che permettevano all'autore di aprire più largamente in suo volo… Era giusto che il tribolato servo del Signore raccogliesse finalmente la palma di quel suo lungo martirio, e felice era stata l'idea del Manzoni di presentarcelo afflitto di peste, e tuttavia occupato a confortare gl'infermi: anche l'aver colà ridotto don Rodrigo, ed uniti così l'oppressore, il difensore e le vittime, era degno di massima lode, perchè dava campo ai più gagliardi contrasti… Ma diremo noi che fosse impossibile il far meglio che raccontarci così in due parole le morti di don Rodrigo e di padre Cristoforo? Il Manzoni, meditando su quella situazione, avrebbe senza dubbio trovato qualche alto concetto, al quale noi non potremmo nè di lontano mai arrivare: tuttavia chi ne vieta di esporre anche un nostro pensiero? Renzo, che ha già rinvenuta la sua Lucia, torna dal frate per narrargli l'impedimento del voto ed implorarne l'aiuto: ma il frate, oppresso dalla gravezza del male, è caduto presso il letto di don Rodrigo che soccorreva, nè v'è più speranza ch'ei si possa rialzare. Le preghiere di Renzo gli vanno all'anima, ma la morte già vicina lo ha disteso su quella terra a cui sarà ricongiunto fra poco. Corri, egli dice coll'ultimo avanzo della cadente sua voce, corri da Lucia e qua la conduci, prima che venga la chiamata di Dio. Il povero Renzo vola alla capannetta della fanciulla, che con passi vacillanti, pallida pallida, lo segue, finchè giungono a quei due moribondi, che aspettano una sì diversa mercede. Ecco gli accusatori, il testimonio ed il reo: il Giudice sta più in alto, e fra pochi minuti l'irrevocabile sentenza sarà pronunciata. Gran Dio, non entrare in giudizio co' tuoi miseri servi! Noi non osiamo proceder più oltre, che l'ingegno ne cade innanzi a tanto orrore e a tanta pietà: ma che non avrebbe saputo fare il Manzoni? Gli effetti della Grazia erano già stati descritti nell'Innominato; qui rimaneva a mostrarci la disperata morte del reprobo, e il quadro riusciva perfetto, perchè lì presso ne consolava la placida dipartita del giusto. Una maledizione su gli sposi e sopra sè stesso è uscita da Rodrigo, padre Cristoforo ha sciolto il voto, e benedetti i due giovani. Un profondo silenzio è succeduto a quelle parole: tutto è finito. Si separino quei due corpi, che più non saranno vicini in eterno. Guai a chi non intende la muta lezione che s'innalza dalla polvere di quella capanna! È impossibile che i lettori non si dolgano pensando al maraviglioso partito che la mente e il cuore del Manzoni avrebbero tratto da tanta passione: ma anche qui è sempre necessario ripetere, che senza mutare l'orditura del romanzo non poteva arrischiarsi una scena sì viva. La narrazione degli avvenimenti successivi dopo quell'impeto d'affetti non era più tollerabile, ed ivi stesso, davanti a quel letto di morte, Renzo e Lucia doveano rinnovare il loro giuramento, abbandonata ogni più minuta conclusione alla fantasia de' lettori»70.
Nell'ottobre del '27 mentre a Milano usciva alla luce il compimento di questi discorsi, Niccolò Tommaseo veleggiava per l'Adriatico, e parte negli ozi della traversata, parte in mezzo alle isole della sua Dalmazia e nel porto d'Ancona fece una quantità di postille71 sopra un esemplare de' Promessi Sposi donatogli dal Manzoni. Alcune sono in lode; le più in biasimo e non senza acrimonia72. Il Manzoni, raccontata la favola dello «scartafaccio», soggiunge: «Ed ecco l'origine del presente libro». Il Tommaseo chiosa: «Questo non iscusa la bugia. Si dirà che il Romanzo è tutto una bugia. Io rispondo che mentire non è mai bello». Ritiene «che più naturale sarebbe stato, invece di villani73, scegliere una famiglia di città, povera, ma gentile, chè anche allora era modo di dar risalto anche ai quadri campestri». Trova «che don Abbondio in questo romanzo fa troppa figura, occupa troppo spazio»; gli sembra «scarso di sovrane bellezze tutto ciò che» nel secondo tomo «appartiene al cardinal Federigo e all'Innominato»; e giudica si convertisse «troppo rabbiosamente»74. Del resto, a mettere in evidenza i biasimi tutti, bisognerebbe trascrivere le postille in grandissima parte, e con le postille l'ostico giudizio che inserì nell'Antologia75; dove la lode è sempre misurata, il desiderio di censurare vivissimo sempre; e la lode rivolta non al libro, ma all'uomo, «grande e per cuore e per ingegno», «ingegno mirabile», «sovrano ingegno», «ingegno divino», «uomo divino», «genio e cuore apertissimo», «il giusto solitario», «il poeta del meglio», che si era perfino «abbassato a donarci un romanzo»; divinizzazione76 che dispiacque ai Leopardi, «perchè ha dell'adulatorio, e gli eccessi non sono mai lodevoli».
Il Tommaseo a mano a mano andò temperando e modificando quel severo giudizio, e quando nel '43 ristampò ne' suoi Studi critici il vecchio articolo dell'Antologia molto vi tolse, non solo per condensar meglio il pensiero, ma anche per renderlo meno aspro e meno reciso77. V'aggiunse un accenno alla lingua adoperata dal Manzoni ne' Promessi Sposi; punto che fin allora non aveva toccato altro che in una lettera confidenziale a Cesare Cantù, scritta da Parigi l'11 gennaio del '37. Gli dice: «Godo che il Manzoni pensi a ristampare il romanzo, egli stesso; e tanto meglio se con mutazioni e con giunte. Non ponga indugio; non badi a' suoi scrupoli troppi, nè agli sdottoramenti dei consiglieri immancabili, de' quali è provveduto appunto chi non ne ha bisogno. Lasci stare ogni cosa, muti solo qualche parola o qualche modo, se vuole: e anche questo con carità, senza spellare vivi quel Renzo e quella Lucia»78. Le parole aggiunte al vecchio scritto son queste: «Nella dicitura senti meditazione e cura continua. Io non dirò se per tal cura Manzoni sia giunto a veramente italiana proprietà di linguaggio e snellezza di stile: ma certo è che ne' modi lombardi e francesi o non acconciamente toscani della prima stampa, quanto nelle docili e felici (sebbene non sufficienti) correzioni della stampa recente, è copia grande d'ammaestramenti agli amatori dell'arte»79. Il primo giudizio nella sostanza non lo mutò mai. Già vecchio, a un amico, che voleva scrivere intorno a' Promessi Sposi dava per consiglio: «Com'egli» [il Manzoni] «senta e ritragga la natura visibile è altresì da notare; il cielo, i monti; gli alberi, le acque; i suoni, i colori; se non che alla freschezza del sentimento e alla maestria dello stile, in quanto lo stile è concetto, non direi corrispondere sempre, anzi di rado, la freschezza e franchezza dello stile in quant'è lingua e armonia». Poi soggiungeva: «All'arte proprio direi, che nell'esame di tale lavoro non sia da dare peso se non in quanto essa è moralità». Voleva «della lingua e del numero» de' Promessi Sposi studiasse «quel che c'è di straniero, d'incerto, d'improprio, di prolisso senza necessità di chiarezza»80.
Giambattista Bazzoni81, uno degli emuli, volle egli pure dire la sua. «I Promessi Sposi s'udirono annunziare tanto tempo innanzi che apparissero al pubblico, ch'ebbero tutto il campo di ricevere dalle mani abilissime del loro valente autore quella forbita, lucente e veramente nuziale acconciatura di cui egli seppe adornarli. V'ha in quei libri una inimitabile proprietà di vocaboli, espressioni fine, vere, calzanti: vi si trova per tutto una vita, un'indagine profonda del cuore, delle circostanze, delle cause; un nesso invisibile, ma universale, efficace, che offre pascolo a tutti i gradi d'intelligenza; è un complesso insomma di quadri affatto nuovi e sublimi. È vero però che vi si rinvenne un lato vulnerabile come il calcagno nel fatato corpo d'Achille; ma però le saette ad essi scagliate dai nostri Paridi non li ferirono sì addentro da togliere loro la vita, che durerà anzi sempre robustissima».
Ombra di Giambattista Bazzoni, che ti aggiri tra le rovine dimenticate del tuo Castello di Trezzo, metti il cuore in pace: non ebbero da quelle saette neppure scalfita la pelle; del resto, così dura, che sfida i secoli!
Torino, 27 marzo 1905.
Giovanni Sforza.
Cfr. Ispirazione e arte o lo scrittore educato dalla società e educatore, studi di Niccolò Tommaseo, Firenze, Felice Le Monnier, 1858; pp. 417-426.