Kitabı oku: «Viaggi di Ali Bey el-Abbassi in Africa ed in Asia, v. 3», sayfa 5
Salirono in tale ordinanza fino alla più alta parte della città, ove giunti incominciarono a sfilare a piccoli corpi separati per entrare nel tempio per la porta Beb el-Salem.
Un gran numero di fanciulli della città, che d'ordinario servono di guida agli stranieri gli si fecero incontro, presentandosi loro in piccoli gruppi per insegnar loro le sacre cerimonie: osservai che tra queste guide non eravi un solo uomo di età matura. Già i primi corpi in atto d'incominciare i giri della Kaaba si facevano premura di baciare la pietra nera, quando altri impazienti d'aspettare, si avanzano tumultuariamente, mischiandosi coi primi, e facendo una tale confusione che più non era intesa la voce delle guide. Alla confusione tien dietro il tumulto: tutti vogliono ad un tempo baciare la pietra nera, tutti vi si affollano, e molti cercano di aprirsi un passo col bastone. Invano uno de' loro capi monta sullo zoccolo presso alla pietra sacra per rimettere l'ordine; le sue grida, i suoi segni tornano vani perchè il santo zelo della casa di Dio che li divora non permette loro d'udir ragione, nè la voce del capo. Il movimento in giro s'accresce per mutuo impulso. Finalmente si vedono, a guisa d'uno sciame di api, che volano intorno all'alveare, girare confusamente intorno alla Kaaba, e nel loro confuso zelo rompere coi fucili che hanno sulle spalle tutte le lampadi di vetro che circondano la casa di Dio.
Dopo le diverse cerimonie intorno al tempio, doveva ognuno bere l'acqua del pozzo miracoloso, e spargerne sul proprio corpo, ma perchè ogni cosa facevasi disordinatamente, ben tosto i secchi, le corde, le tazze sono fatte in pezzi: i capi e gl'impiegati dello Zemzem abbandonano il loro posto; ed i Wehhabiti rimasti soli padroni del pozzo si danno mano, formano una catena, scendono in fondo, ed attingono l'acqua come possono.
Il pozzo chiede elemosine, offerte la casa di Dio, mercede le guide; ma la maggior parte de' Wehhabiti non avevano alcuna moneta; e soddisfano a quest'obbligo di coscienza dando venti o trenta grani di polvere assai grossa, alcuni piccoli pezzi di piombo, e pochi grani di caffè.
In fine delle cerimonie avendo essi i capelli lunghi un pollice, si fecero coscienza di farli radere, la quale operazione si eseguì nelle strade, ed i barbieri furono pagati colla stessa qualità di monete onde furono compensate le guide e gl'inservienti del tempio.
I Wehhabiti di Draaïya, principale luogo della riforma, hanno il color di rame. Sono in generale ben fatti e perfettamente ben proporzionati, ma di bassa statura: ed ho specialmente distinti tra loro alcuni che avevano così belle teste da poter pareggiarsi a quelle dell'Apollo, dell'Antinoo, o del Gladiatore. Hanno pure gli occhi vivacissimi, il naso e la bocca regolarissimi, i denti belli, ed una fisonomia piena d'espressione.
Figuriamoci una folla d'uomini nudi ed armati, quasi privi di ogni idea di civiltà, e parlanti un linguaggio barbaro: questo primo quadro è spaventoso, e ributta l'immaginazione; ma sormontata questa prima impressione, trovansi in questi uomini alcune rare qualità; essi non rubano giammai nè colla violenza, nè coll'astuzia, se non quando credono che l'oggetto appartenga al nemico, o ad un infedele; tutto ciò che comprano, e qualunque servigio venga loro reso si paga colla loro moneta. Ciecamente sottomessi ai loro capi soffrono in silenzio tutte le fatiche, e si lascerebbero condurre in capo al mondo. Finalmente si conosce essere costoro uomini dispostissimi ad essere inciviliti, se fosse loro data una conveniente direzione.
Ritornato a casa mia seppi che arrivavano altri corpi di Wehhabiti per soddisfare al dovere del pellegrinaggio. Intanto che faceva egli il sultano Sceriffo?.. nell'impotenza di resistere a tante forze stava rinchiuso, o a meglio dire nascosto, temendo di essere attaccato; le fortezze approvvigionate e poste in istato di difendersi; i soldati Arabi, Mogrebini, e Negri non abbandonavano i loro posti: vidi guardie e scorte ai forti, e varie porte chiuse e murate; in una parola tutto era disposto per rispingere un'aggressione. Ma la moderazione dei Wehhabiti, e le trattative dello Sceriffo resero inutili le prese precauzioni.
CAPITOLO XXXIV
Pellegrinaggio ad Aarafat. – Grande riunione di pellegrini. – Descrizione di Aarafat. – Sultano ed armata dei Wehhabiti. Cerimonie di Aarafat. – Ritorno a Mosdelifa. – Ritorno e cerimonie a Mina. – Ritorno alla Mecca e fine del pellegrinaggio. – Appendice al pellegrinaggio.
Il gran giorno del pellegrinaggio al monte Aarafat era il martedì 17 febbrajo. Io partii il 16 dopo mezzogiorno, in una chevria posta sopra un cammello, eguale a quella di cui mi valsi per venire da Djedda alla Mecca. Alle due circa dopo mezzogiorno passai innanzi alla caserma delle guardie negre, posta all'estremità settentrionale della città.
Di là piegando a levante giunsi dopo pochi minuti in faccia ad una gran casa di campagna dello sceriffo, ed un quarto d'ora dopo scopersi la celebre montagna Diebel Nor, ossia montagna della luce, sulla quale l'Angelo Gabriele portò al più grande dei profeti i primi capitoli del Corano. Questa montagna s'inalza isolata in figura di pane di zucchero, sopra il livello delle altre montagne che la circondano. Eravi altra volta sulla sommità una cappella, che era una stazione del pellegrinaggio, ma i Wehhabiti dopo averla atterrata, posero una guardia alle falde della montagna per impedire ai pellegrini di salirlo per farvi le preghiere, che Abdoulwehhab dichiarò superstiziose. Vi si saliva, mi fu detto, per una scala tagliata nella roccia; e trovandosi questa montagna distante un quarto di lega a sinistra dalla strada, non la vidi che passando cogli altri pellegrini, ma pure ne presi uno schizzo in prospettiva.
Seguendo la strada verso l'E. S. E. vidi alle tre ore meno un quarto una piccola sorgente d'acqua dolce, con vasche artefatte, e poco dopo entrai in Mina. Il primo oggetto che si scopre entrando nel borgo è una fontana, in faccia alla quale vedesi un'antica opera che il volgo dice essere stata fatta dal demonio.
Il borgo di Mina, chiamato anche Mòna, non ha che una sola strada, ma così lunga che io impiegai venti minuti per arrivare dalle prime alle ultime case. Sonovi belli edificj, molti de' quali cadono in rovina, o sono senza tetto, ed alcuni recinti con muraglie a secco alte cinque piedi che vengono affittati ai pellegrini ne' giorni della Pasqua.
A tre ore e mezzo feci porre il campo fuori di Mina dal lato di levante in una piccola pianura presso ad una moschea circondata di mura come una specie di fortezza.
Tutto il paese attraversato fin qui è una angusta valle chiusa da montagne granitiche affatto sterili. Tutta la strada era coperta di cammelli, di persone a piedi ed a cavallo, e da un gran numero di schevrias.
Un distaccamento di Wehhabiti montati sopra dromedarj, che io aveva incontrati alle falde del Dièbel-Nor venne ad accamparsi avanti alla porta della moschea. Fu ben tosto raggiunto da altri corpi della stessa nazione montati egualmente sopra dromedarj o cammelli; ed in breve tutta la pianura ne fu piena. Dopo tramontato il sole giunse il sultano de' Wehhabiti, Saaoud, la di cui tenda era stata preparata al piede della montagna in poca distanza dalle mie.
Una carovana di Tripoli di Barbaria, un'altra dell'Iemen, di una quantità di pellegrini negri del Soldano, o dell'Abissinia, molti Turchi giunti per la strada di Suez, assai Mogrebini venuti per mare, una carovana di Bassora, ed altre del Levante: gli Arabi dell'alto e del basso Egitto, quelli del paese, ed i Wehhabiti, trovavansi allora riuniti, o piuttosto ammucchiati gli uni su gli altri in quest'angusta pianura, nella quale i pellegrini devono accamparsi per dovere, perchè la tradizione riferisce che il santo Profeta faceva lo stesso qualunque volta andava ad Aàrafat.
Non era giunta la carovana di Damasco, quantunque partisse con molte donne, e fosse scortata dalla truppa, e dall'artiglieria portando il ricco tappeto che ogni anno viene mandato da Costantinopoli pel sepolcro del Profeta a Medina; perchè i Wehhabiti che riguardano questa usanza come peccaminosa gli vennero incontro fin presso a Damasco, e fecero sapere a quel Pascià Emir-el-Stage, che la comandava, che non si poteva ricevere il tappeto destinato pel sepolcro; che se voleva proseguire il viaggio per la Mecca, dovesse rimandare addietro i soldati, l'artiglieria e le donne, e che trasformandosi in tal modo in veri pellegrini, la carovana non incontrerebbe verun ostacolo nel suo viaggio. Non volendo il Pascià sottomettersi a tali condizioni fu costretto di retrocedere. Altri pretendono che si esigesse da lui una forte contribuzione di denaro: ma ciò è contraddetto da altri meglio informati.
Il martedì 17 febbrajo del 1807 (9 Doulhagea, 1221 dell'Egira) alle sei ore della mattina, era in cammino nella direzione di S. E. ¾ E. A breve distanza dal luogo della partenza lasciai a destra una casa dello Sceriffo; alle sette passai Mosdèlifa, piccola cappella con una gran torre in una stretta valle; e dopo avere attraversata una gola ancora più chiusa tra le montagne, camminai lungo una vallata al S. E. che sbocca alle falde del monte Aàrafat, ove giunsi alle nove ore del mattino.
Il monte Aàrafat è l'oggetto primario del pellegrinaggio dei musulmani; quindi molti dottori furono d'opinione che quando non esistesse più la casa di Dio, il pellegrinaggio al monte Aàrafat sarebbe tanto meritorio quanto il fare i sette giri della Kaaba; e questa è pure la mia opinione.
Non è che al monte Aàrafat ove uno possa formarsi un'idea dell'imponente spettacolo che presenta il pellegrinaggio de' musulmani: una immensa folla d'uomini di tutte le nazioni, di tutti i colori, venuti dalle estremità della terra attraverso di mille pericoli, e sopportando gravi fatiche, per adorare assieme lo stesso Dio, lo stesso Dio della natura; l'abitante del Caucaso presentando una mano amica all'Etiope o al Negro della Guinea; l'Indiano ed il Persiano fraternizzando col Barbaresco e col Marocchino; tutti risguardandosi come fratelli, o come individui d'una sola famiglia, uniti dai legami della religione, parlando la maggior parte, o almeno intendendo la stessa lingua, la sacra lingua dell'Arabia: nò, alcun culto non presenta ai sensi uno spettacolo più semplice, più maestoso!..7 Filosofi della terra permettete, permettete ad Ali Bey di sostenere la sua religione, come voi sostenete lo spiritualismo o il materialismo, il vuoto o il pieno, la necessità dell'esistenza o la creazione. Il monte Aàrafat è una rupe granitica come le altre montagne vicine, alta circa cento cinquanta piedi, chiusa da una muraglia, e posta alle falde di un'altra montagna più alta all'E. S. E. d'un piano di tre quarti di lega di diametro, circondato da ogni banda di sterili montagne. Vi si sale per alcune scale, parte tagliate nella rupe stessa, parte formate di nuovo. Avvi sulla sommità una cappella di cui i Wehhabiti stavano allora distruggendone l'interno. Non potei vederla perchè resta vietato agl'individui del mio rito, cioè ai Maleki di salire sulla cima, secondo le intenzioni dell'Iman fondatore del rito; quindi ci fermiamo a metà del monte per recitarvi la preghiera. Al piede della montagna trovasi una piattaforma preparata a tale uso, detta Dianaà Arràhma, o moschea della misericordia: secondo la tradizione, colà pregava anco il Profeta.
Presso alla montagna sonovi quattordici grandi vasche riparate dal Sultano Saaoud. Somministrano esse una immensa quantità d'acqua bonissima a beversi, che serve pure ai pellegrini per lavarsi in questo giorno solenne. Affatto vicina dalla banda di S. O. vedesi una casa dello Sceriffo, e ad un quarto di lega a N. O. trovasi un'altra piattaforma sulla quale si fa la preghiera, ed è intitolata Diaman Ibrahim, moschea di Abramo.
Fu sul monte Aàrafat che il comun padre degli uomini incontrò o riconobbe la nostra madre Eva dopo un lungo divorzio, e per tal ragione questo luogo si chiama Aàrafat, ossia riconoscimento. Si crede che fosse lo stesso Adamo il fabbricatore della cappella, che i Wehhabiti hanno cominciato a distruggere8.
Dopo la preghiera dell'aassar, che ognuno fa nella propria tenda, e tutto essendo pronto per la partenza, prescrive il rituale di portarsi presso alla montagna per aspettarvi il cadere del sole. Per ubbidire a tale precetto i Wehhabiti ch'erano accampati in luoghi assai lontani, cominciarono ad avvicinarsi, avendo alla testa il Sultano Saaoud, ed Abounocta loro secondo capo. In poco tempo vidi sfilare un'armata di quarantacinque mila Wehhabiti quasi tutti montati sopra cammelli o dromedarj, con un migliajo di cammelli carichi d'acqua, di tende, di legna da bruciare, e di fieno per i cammelli dei capi. Un corpo di dugento uomini a cavallo portava stendardi d'ogni colore appesi sopra le lancie: e mi fu detto che questa cavalleria apparteneva al secondo capo Abounocta. Vedevansi inoltre sette in otto altre bandiere tra le file de' cammelli, ma senza verun'altra insegna, senza tamburi, trombette, od altri stromenti militari. Siccome tutti questi uomini erano affatto nudi, non esclusi i loro capi, non mi fu possibile di ben distinguerli. Pure un vecchio venerando con una lunga barba bianca, e preceduto da uno stendardo reale parvemi essere il Sultano. Tale stendardo di color verde aveva per insegna distintiva la professione di fede = Là illaha ila Allah = «Non v'è altro Dio che Dio» ricamata a grandi caratteri bianchi.
Riconobbi perfettamente per i lunghi ondeggianti suoi cappelli uno de' figliuoli di Saaoud, fanciullo di sette in otto anni, di una carnagione bruna come gli altri, vestito con una grande camicia bianca, circondato da una scorta particolare, e montato sopra di un bellissimo cavallo bianco, senza speroni, essendo il costume de' Wehhabiti che non conoscono selle; questo era coperto di un drappo rosso ricamato, e sparso di stelle d'oro.
La montagna e tutto il contorno furono ben tosto coperti di Wehhabiti: in seguito avvicinaronsi alla montagna le carovane ed i pellegrini. Malgrado le dissuasioni de' miei domestici ardii penetrare tra i Wehhabiti, avanzandomi fino al loro centro onde vedere più da vicino il Sultano: ma molti di loro, cui io ne feci inchiesta, mi assicurarono che la cosa era impossibile, perchè il timore di un avvenimento uguale a quello dello sventurato Abdelaazis, ch'era stato assassinato, aveva fatto moltiplicare le guardie intorno alla persona di Saaoud.
Devo per amore di verità confessare, che ho trovato ragionevoli e moderati tutti quei Wehhabiti con cui ebbi opportunità di parlare, e da costoro ebbi la maggior parte delle notizie che soggiugnerò in ordine alla loro setta. Peraltro a fronte di tanta moderazione, nè gli abitanti, nè i pellegrini possono senza fremere udirne il nome; e non lo pronunciano che dicendone male; e cercano a tutto potere di non avere comunicazione di sorte con simil gente.
Il Sultano Sceriffo aveva, secondo la pratica stabilita, mandato un corpo delle sue truppe con quattro pezzi d'artiglieria; ed era voce che venisse in persona, lo che non si verificò. È antichissima costumanza che un Imano dello Sceriffo venga ogni anno a fare un sermone sulla montagna. Venne anche quest'anno, ma fu dal Sultano Saaoud rinviato prima di cominciarlo, e vi supplì il suo Imano, che io non ho potuto intendere per essere troppo distante, ma i Wehhabiti lo applaudirono assai.
Non mi sarebbe mancato modo d'introdurmi presso il Sultano Saaoud, ed ardentemente lo desiderava; ma prevedendo che ciò mi avrebbe reso sospetto al Sultano Sceriffo, il quale avrebbe attribuito qualche motivo politico alla mia curiosità, me ne astenni.
Stavamo sulla montagna aspettando l'istante del tramontar del sole. Arrivato questo momento… quale confusione! Figurisi una massa di ottantamila uomini, duemila femmine, un migliajo di fanciulli, con sessanta in settantamila tra cammelli, asini e cavalli, che in sul far della notte vogliono tutti entrare correndo, come ordina il rituale, in un'angusta valle, camminando gli uni sopra gli altri in mezzo ad una nuvola di polvere, e ad una foresta di lancie, di fucili, di spade: ed in tal modo forzando il passaggio il meglio che per noi si poteva, pressandosi, urtandosi gli uni gli altri, si tornò a Mosdelifa in un'ora e mezzo, quando eransene impiegate più di due nella venuta.
La ragione di tanta precipitazione ordinata dal rituale, è quella che non deve farsi la preghiera della sera, ossia del Mogareb, ad Aàrafat, ma bensì a Mosdelifa nello stesso tempo di quella dell'Ascha, ossia della notte. Tali preghiere si fanno in privato; ogni famiglia, ogni unione di gente la fa nel luogo ove si trova. Noi ci facemmo premura di recitarle subito arrivati, avanti d'alzare le tende, ed il giorno si terminò con reciproche felicitazioni intorno alla prosperità della nostra santificazione col pellegrinaggio del monte Aàrafat.
All'indomani mercoledì 18 febbrajo (10 del mese doulhaeja, e primo dì di Pasqua), noi partimmo alle cinque ore e mezza del mattino per andare ad accamparsi a Mina. Appena arrivati, posto piede a terra, camminammo a furia verso la casa del diavolo, che sta in faccia alla fontana. Ognuno aveva sette pietre della grossezza d'un pisello, raccolte a bella posta nella precedente notte a Mosdelifa per gettarle al di sopra del muro nella casa del diavolo. I Musulmani di rito maleki, com'erano, le gettano una dopo l'altra, dopo avere pronunciate queste parole: Bison illah-allah-huakibar, cioè in nome di Dio, Dio grandissimo. Siccome il diavolo ebbe la malizia di porre la sua casa in luogo assai angusto, che non ha forse trentaquattro piedi di larghezza, e che è inoltre occupato da aspre grotte che conviene sormontare per gettare le pietre con sicurezza, e più ancora perchè tutti i pellegrini vogliono eseguire questa santa operazione nell'istante che arrivano a Mina, vi si forma una strana confusione. Ne venni a fine coll'ajuto de' miei domestici, e soddisfeci esattamente a questo santo dovere, non però affatto felicemente, avendo riportate due ferite nella gamba sinistra. Mi ritirai poscia nella mia tenda per ristorarmi dalle sostenute fatiche, onde potere nello stesso giorno celebrare ancora il sacrificio pasquale. Anche i Wehhabiti costumano di gettar le pietre, perchè soleva fare lo stesso il Profeta.
Devo encomiare la moderazione ed il buon ordine che si mantennero in mezzo a tanta folla di gente di così lontane e diverse nazioni. Più di duemila donne confuse con ottantamila uomini non diedero motivo alla più piccola malintelligenza, e quantunque vi fossero quaranta o cinquantamila fucili, non si udì che un solo colpo partito a non molta distanza da me: nello stesso istante accorse un capo de' Wehhabiti, e corresse l'imprudente dicendogli con dolce severità: perchè avete voi tirato questo colpo di fucile? forse che qui si fa la guerra?
La stessa mattina incontrai sulla strada il figlio di Saaoud. Era a cavallo alla testa d'un corpo di dromedarj: sopravanzandomi presso a Mina, e passandomi di fianco, gridò alla sua compagnia; andiamo, figliuoli, avviciniamoci; poi volgendosi a manca, e prendendo il trotto, seguìto da tutto il corpo, si restituì alla tenda di suo padre, accampato alle falde della montagna come il giorno precedente. Le mie tende si alzarono presso a quelle delle truppe dello Sceriffo.
Il giovedì 19 febbraio essendomi levato in sullo spuntare del giorno per fare la preghiera, mi avvidi ch'era stato rubato il mio scrittojo, i miei libri, le carte ed alcuni mobili. Lo scrittojo conteneva un cronometro, alcune gioje, pochi piccoli utensili, il mio grande suggello, varj disegni ed osservazioni astronomiche.
I miei domestici colpiti da tale accidente si fecero a cercarne in ogni lato, temendo le conseguenze di un furto che li dichiarava trascurati nella guardia ch'io aveva loro ordinato di fare in tempo di notte. Ma essi erano oppressi dalla fatica de' precedenti giorni, ed altronde si erano fatalmente fidati delle vicine guardie turche e mogrebine dello Sceriffo.
Io feci tranquillamente la preghiera alla testa delle mie genti; e quando il giorno permise di distinguere gli oggetti, si videro delle carte sparse sulla montagna. Accorservi tutti i miei domestici, e trovarono essere stata forzata la serratura dello scrittojo, e sparsi in terra tutti i libri e le carte, ad eccezione del cronometro, delle gioje, e delle mie tavole logaritmiche ch'erano legate elegantemente, e che nella oscurità saranno state dai ladri credute un Corano.
Avanti la preghiera del mezzogiorno andammo a gettare sette pietre lavate nell'acqua contro un pilastro fatto di pietre e di calce, alto sei piedi, largo quasi due piedi quadrati, posto in mezzo alla strada di Mina, e creduto opera del diavolo: ne ho gettate altre sette contro un altro pilastro simile, innalzato dallo stesso architetto, lontano quaranta piedi dal primo: e le ultime sette furono gettate contro la casa di cui si è parlato poc'anzi.
Il venerdì 20 febbrajo, 12 del mese doulhaeja, e terzo della Pasqua, dopo aver ripetuta la cerimonia delle sette pietre, tornai alla Mecca.
Appena entrato in città, passai al tempio ove feci di nuovo i sette giri della casa di Dio, in appresso dopo la preghiera e dopo aver bevuta l'acqua dello Zemzem, uscii dalla porta di Saffa per terminare il pellegrinaggio coi sette viaggi tra Saffa e Meroua, come la notte del mio arrivo.
Quest'atto solenne era in addietro accompagnato da altre pratiche di stazione e di devozione, inventate da varj dottori, e da anime pie; ma i Wehhabiti soppressero tutte queste addizioni quali formole superstiziose, e non lasciarono che la seguente appendice da me osservata in tutta la sua estensione.
La domenica 22 febbrajo, quasi tutti i pellegrini vanno una lega lontano dalla Mecca verso l'O. N. O., in un luogo ove trovasi una moschea che cade in ruina, detta el-Aàmar. Si incominciò dal fare la preghiera, poi si posero divotamente tre pietre l'una sopra l'altra a poco distanza dalla moschea. Si passò in appresso nel luogo ove abitò l'infame Abou-gehel acerrimo nemico del nostro santo Profeta, dove animati da un santo furore, lo caricammo di maledizioni, gettandoli contro sette pietre. Ritornati in città si fecero di nuovo i sette giri alla casa di Dio, ed i sette viaggi a Saffa ed a Meroua, che chiusero la cerimonia del pellegrinaggio per la nostra santificazione.
Vuole la tradizione che quest'appendice sia una giunta istituita da Ayescha, la più cara sposa del nostro santo Profeta.
Darò adesso una concisa notizia degl'impiegati del tempio. L'Haram ha il suo capo principale detto Schéich-el Haram, ed il pozzo Zemzem egualmente il suo, chiamato Scheih Zemzem. La Kaaba è servita da quaranta eunuchi negri, che sono ad un tempo guardie e domestici della casa di Dio. Portano per distintivo sopra il loro abito ordinario un grande caftan, o camicia di tela bianca, stretta con una cintura, uno spazioso turbante bianco, e per ordinario una canna od una mazzetta in mano.
Il pozzo Zemzem conta pure un considerabile numero d'impiegati, e di portatori d'acqua, ai quali spetta inoltre l'amministrazione delle stuoje che dispiegansi tutte le sere sul suolo della corte e della galleria del tempio.
Un altro sterminato numero d'impiegati è formato dai fabbricatori di lampadi, smoccolatori, serventi di Makam Ibrahim, serventi della piccola fossa della Kaaba, serventi di cadaun luogo di preghiera dei quattro riti, portieri, domestici delle torri, serventi di Saffa, di Meroua ec. Inoltre domestici che custodiscono i sandali dei pellegrini a tutte le porte d'entrata del tempio, mudden, o gridatori pubblici, imani e mudden particolari per tutti i quattro riti, il Kadi ed i suoi impiegati, i cantori del coro, i monkis, ossia osservatori del sole per annunciare le ore della preghiera, l'amministratore ed i serventi del tobel-kaaba, i conservatori dalla chiave della Kaaba, il mouft, le guide ec. ec.; di modo che la metà degli abitanti della Mecca possono ritenersi impiegati o servitori del tempio, non avendo altro salario che il prodotto delle elemosine eventuali de' pellegrini.
Per questo motivo quando arriva un pellegrino tutti gli s'affollano intorno, tutti sforzansi a gara di servirlo e di onorarlo voglia o non voglia: essi prendono il più grande interesse all'eterna sua salute, facendo ogni sforzo per fargli aprire le porte del cielo con preghiere e pratiche mistiche secondo il rito del pellegrino.
Le numerose carovane che in addietro giugnevano da tutte le parti del mondo ove si pratica l'islamismo, provvedevano colle larghe loro elemosine ai bisogni di tutti; ma ora che il numero è minorato assai, pochi pellegrini si trovano abbastanza ricchi per supplire alle spese, cresciute a dismisura, perchè il numero degl'impiegati al tempio è ancora il medesimo, ed appena bastano in elemosine e gratificazioni mille cinquecento in duemila franchi. Perfino i più poveri pellegrini, e quei medesimi che viaggiano mendicando, sono costretti di lasciarvi qualche scudo.
Siccome queste elemosine sono individuali, ogni impiegato si appropria quello che può in pubblico o in privato, ad eccezione degli eunuchi negri, e degl'impiegati dello Zemzem, che formano due specie di corporazioni. Vero è che malgrado questa specie di società, malgrado i loro registri e le loro casse, ogni individuo di questi due corpi cerca di scroccare in particolare tutto quello che può.
In altri tempi le carovane portavano dai loro paesi considerabili elemosine per parte dei loro compatriotti; ora non si manda quasi nulla: manifesto indizio di un deplorabile rilasciamento.
In altri tempi il Capo del paese concorreva alla sussistenza degl'impiegati, ma oggi lo Sceriffo impoverito dalla rivoluzione dei Wehhabiti, invece di far elemosine, prende per sè quanto può.
Il Sultano di Costantinopoli somministra gli eunuchi negri per guardie e domestici della Kaaba, e per gl'impieghi de' cantori e dei mudden.
I pellegrini avevano altra volta varie altre stazioni da fare, che pure fruttavano agl'impiegati maggiori elemosine, ma i Wehhabiti hanno tutto distrutto, e privati i pellegrini del maggior merito che acquistavano visitando que' santi luoghi, fra i quali la cappella di Setaa Fatima figlia del Profeta, di Sidi Mahmud, la casa d'Aboutaleb ec.