Kitabı oku: «Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I», sayfa 18
CAPITOLO IV
In questo tempo capitò nei mari di Sicilia un'armatetta spagnuola condotta da Asbagh-ibn-Wekîl, della tribù berbera di Howâra, soprannominato Ferghalûsc.481 Era gente di quella schiuma che la società musulmana di Spagna spandea ribollendo; e il caso ne faceva ladroni, eroi, martiri, conquistatori: come gli usciti di Cordova in Creta; come cento altre masnade che afflissero per un secolo e mezzo le costiere meridionali della Francia e dell'Italia di sopra, e fino i più rimoti recessi delle Alpi. Approdato Ashagh in Sicilia, e richiesto di soccorso da' Musulmani, par ne desse tanto da vettovagliare Mineo; e più ne promettea, senza far ciance, vedendo largo il campo ai guadagni. Forse giunse qualche altro aiuto d'Affrica, ove Ziadet-Allah avea spento alfine la ribellione di Tunis.482 Dalla parte de' Cristiani la guerra allenò. L'armata veneziana, venuta di nuovo in Sicilia l'anno ottocento ventinove, o quel d'appresso, niente premurosa di mettersi a sbaraglio per solo amor dello imperatore di Costantinopoli, se ne tornò, così dice un cronista nazionale, senza trionfo.483 Nè riportonne altrimenti il patrizio Teodoto da più d'un anno che bloccava Mineo; forse men travagliato dai nemici che dal proprio governo, dall'azienda confusa e dilapidata, dalla marea che saliva o calava a corte; tanto più che morto Michele il Balbo, d'ottobre dell'ottocento ventinove, gli era succeduto Teofilo, giovane d'animo dritto e valoroso, ma poco cervello; però capriccioso nel render giustizia, male avventurato nella guerra, crudele in casa; e spesso si gittò, come ogni altro, ad atti di perfidia, poichè il dispotismo è pendío da non potervisi trattenere il piè quando si vuole.
Sopraggiunse nella state dell'ottocento trenta il poderoso rinforzo aspettato dai Musulmani di Sicilia: trecento legni, dice un cronista,484 i quali, per piccioli che fossero, dovean portare da venti a trenta migliaia d'uomini, se prendiamo per misura la espedizione di Ased. Uomini diversi di schiatta, d'indole, di proponimento: Arabi e Berberi d'Affrica mandati da Ziadet-Allah a proseguire il conquisto:485 e maggior numero d'Arabi e Berberi e fors'anco antichi abitatori di Spagna, intenti solo a far correrie; capitanati da Asbagh e da altri condottieri, come il nota espressamente una cronica;486 tra i quali un'altra nomina Soleiman-ibn-'Afia da Tortosa.487 Gli Spagnuoli, che si doveano trovar assai male in arnese, diersi a saccheggiare, menar via prigioni che si vendean come ogni altro bottino, prender castella qua e là per taglieggiarle e lasciarle: nè mossero all'aiuto di lor fratelli di Mineo, se prima il presidio non stipulò che Asbagh avesse il supremo comando,488 e se non furono forniti di cavalli,489 forse dagli Affricani che teneano Mazara. Allora, occupate per via le fortezze che gli assicurassero la ritirata, Asbagh assalì Teodoto sotto Mineo; lo ruppe e uccise; e gli avanzi dello esercito bizantino corsero a chiudersi in Castrogiovanni: la quale battaglia seguì tra luglio e agosto dell'ottocento trenta.490 Asbagh, diroccata e arsa l'infausta Mineo, marciò con tutto lo esercito sopra una città che il Baiân scrive Ghalûlia o Ghallûlia, e dalla somiglianza del nome e opportunità del luogo parrebbe la Calloniana dell'Itinerario d'Antonino, posta nel sito attuale di Caltanissetta, o non lungi,491 in riva al Salso che taglia in due la Sicilia meridionale. Quinci i Musulmani avrebbero dominato quel che poi si chiamò val di Mazara, che si stende a ponente del fiume, ed è la regione più aperta dell'isola; avrebbero fronteggiato Castrogiovanni che s'innalza a greco di Caltanissetta a mezza giornata di cammino; e il fiume li avrebbe diviso dalla provincia che occupa l'angolo tra levante e mezzodì, montuosa e assicurata dalle armi bizantine di Siracusa. Il sito però ottimamente era eletto. Ma impadronitisi i Musulmani di Ghallûlia, si appresero malattie nell'esercito; scoppiarono in fiera pestilenza, e ne morirono Asbagh stesso e parecchi condottieri. Deliberati gli altri ad abbandonare la città, i Bizantini che n'ebbero sentore, li assalirono nella ritirata. Dopo lunghi e sanguinosi combattimenti, gli avanzi dell'esercito giunsero alfine alla marina, forse di Mazara. Dove, risarciti i legni, se ne tornarono sconsolati in Ispagna.492
Ma mentre Asbagh s'era avviato a Mineo, un altro stuolo musulmano, la più parte Affricani, mosse, com'e' pare, da Mazara, alla volta di Palermo; e principiò l'assedio lo stesso mese di giumadi secondo del dugento quindici (25 luglio a 22 agosto 830) che fu rotto Teodoto.493 La occupazione di Ghallûlia assicurò gli assedianti dalle forze bizantine che potessero venire ad assalirli da Castrogiovanni, ovvero da Siracusa; e il disastro dell'esercito di Asbagh tornò loro men grave, poich'e' pare che non pochi condottieri, in vece di ritrarsi alla marina verso ponente e mezzodì andassero al campo sotto Palermo.494 Città fondata dai Fenicii innanzi la venuta delle colonie greche in Sicilia; rinomata nelle guerre puniche; prosperante o meno consumata che le altre sotto la dominazione romana; forte nel sesto secolo quando espugnolla Belisario; popolata e ricca nel settimo, come ne fan fede le epistole di San Gregorio; e durava la importanza sua nella rivoluzione d'Eufemio. Ricinta da un braccio di mare e dalle lagune, la città che occupava il centro dell'attuale, tenne il fermo per un anno contro i Musulmani; poco o punto aiutandola l'imperatore Teofilo. Però i cittadini si consumarono in una memorabilissima difesa: che da settantamila che ve n'era al principio dell'assedio, verso la fine ne avanzarono manco di tremila, e gli altri tutti perirono, se è da stare alla testimonianza d'Ibn-el-Athîr. Che che ne sia delle cifre, tal tradizione prova la grande mortalità, aumentata al certo dalla pestilenza che da quattro anni serpeggiava in Sicilia. Alfine, correndo il mese di regeb del dugento sedici (13 agosto a 11 settembre 831), il governatore s'arrese, salve le persone e la roba:495 egli, il vescovo Luca, e que' pochi che poteano abbandonare il paese496 senza morir di fame, se n'andarono via per mare: la popolazione del territorio fu assoggettata alla schiavitù, scrivea Giovanni Diacono di Napoli, forse alla condizione di dsimmi, o vogliam dire vassalli, senza lasciarsi ad alcuno il possesso di beni stabili.497 Nè è a dire se nel corso dell'assedio e dopo, quelle mescolate masnade di Musulmani commettessero guasti, violenze, eccidii in tutto il paese. Però la storia può accettare dalle leggende religiose il martirio del monaco San Filareto da Palermo e di parecchi altri, i quali, volendo rifuggirsi in Calabria quando il nemico occupò il territorio o la città, furon presi; messi all'alternativa di rinnegare o morire; e virtuosamente elessero la morte.498 Su questo fatto alcuni imaginaron lor novelle, e quel ch'è peggio fabbricaron lettere dei monaci Benedettini di Palermo dispersi dagli Infedeli.499 Fondato poi nel decimoquarto secolo, in un sito delizioso tra i monti che sovrastano alla città, il monastero benedettino di San Martino, il novello priore spacciò e scrisse essere stato quel suo chiostro edificato da San Gregorio, illustrato dalla pietà di antichi monaci e suore, e abbattuto da' perfidi Saraceni l'anno ottocento ventisette, quand'ei li credeva entrati in Palermo.500
CAPITOLO V
L'occupazione di Palermo fu vero principio a quella dell'isola. Fin qui i Musulmani non avean fatto stanza che in campo o entro piccole castella, chè tal era anco Mazara; per quattro anni le forze loro, ragunate di là dal mare in qualche boglimento di zelo religioso o di cupidigia, erano state poi rifornite a stento, e con più fatica traghettati gli aiuti nell'isola; tutti eran vivuti di rapina che si sperpera; avean guerreggiato sotto varii capi, senz'accordo nè disciplina. Ma la vasta e forte città, quasi vota d'abitatori, il fertile territorio e i contadini che il coltivavano, rimasi preda al primo occupante, allettarono la comune dei vincitori a soggiornare in Palermo; ammoniti altresì dalle sventure passate. I più veggenti doveano comprendere con ciò gli avvantaggi d'una colonia moderata da governo regolare; grossa di popolazione, da fornire uomini e materiali alla guerra; posta sì presso al cuor dell'isola, con un porto comodo e difendevole, ove le arti di costruzione navale non mancavano, o si poteano agevolmente ristorare.
Però da una parte si gittarono sul cadavere di Palermo le genti affricane e spagnuole dell'esercito; piatiron tra loro, dice Ibn-el-Athîr501 e azzuffaronsi: senza dubbio, quando si venne al parteggio delle possessioni. Dall'altro canto Ziadet-Allah pose mano ad ordinare la colonia. Quantunque gli Spagnuoli potessero pretestare la sovranità del principe omeiade, prevaleva pur manifestamente in Sicilia il dritto della casa aghlabita per lo merito della intrapresa guerra, per la sede più vicina e le forze sue più considerevoli nell'esercito. Pertanto l'anno medesimo dugentosedici, che ne avanzarono cinque mesi dopo la dedizione di Palermo, Ziadet-Allah elesse a luogotenente in Sicilia il suo cugin germano Abu-Fihr-Mohammed-ibn-Abd-Allah-ibn-Aghlab,502 segnalatosi una volta combattendo in Sicilia, e poi con infelice lealtà egli e i suoi fratelli nella guerra civile di Mansur Tonbodsi.503 Con la riputazione di principe del sangue, e anco forse con gente fidata, giunse Abu-Fihr in Sicilia, correndo già il dugento diciassette (6 febbraio 832 a 25 gennaio 833). Costui ne cacciò, dice la cronica, Othman-ibn-Kohreb504 non sappiam di che nazione, certamente un de' capi di parte venuti su in que' trambusti: e leggiamo altrove che le discordie tra Affricani e Spagnuoli si composero in questo tempo.505
Par che la colonia si ordinasse come centro di uno stato novello, poco dipendente dall'Affrica; al che portavano quegli elementi suoi eterogenei e turbolenti, non disposti a sottomettersi al principato aghlabita senza larghissime franchigie. Ciò si vedrà dal progresso degli avvenimenti. N'è segno altresì il titolo di Sâheb dato da scrittori assai diligenti al primo governatore dell'isola; il qual titolo, posto assolutamente senz'altra voce che lo determini, tocca al capo d'uno Stato;506 differente perciò da emir, e da wâli.507 Sappiamo inoltre che del dugento ventuno (836) moriva a Kairewân un cadi di Sicilia;508 donde si argomenta che questo supremo magistrato fosse stato posto fin dal principio delle nuove instituzioni nella colonia. A questo tempo appartiene un dirhem, pubblicato dal Tychsen, e ch'io non ho visto. Se non è falso, servirà a confermare che nel dugento venti dell'egira (4 gennaio a 24 dicembre 835) Mohammed-ibn-Abd-Allah reggea la Sicilia, e che battea moneta di argento col nome suo e del principe d'Affrica; sì come avea fatto sei anni innanzi Mohammed-ibn-el-Gewâri.509
Nondimeno per due anni non seguì fazione d'importanza, per cagion delle preoccupazioni che dava ai Musulmani l'assetto delle proprietà e d'ogni altra civil faccenda; ed anco per la riputazione di Alessio Muscegh, nuovo patrizio di Sicilia. Questo bello e valoroso giovane armeno era salito in subito favore appo Teofilo, sì che, tra' suoi ghiribizzi, lo fidanzò alla propria figliuola Maria, ancorchè bambina; lo fe' patrizio, proconsolo, maestro degli offici a corte; gli diè titolo di Cesare, e lo destinava forse a succedergli nello impero, quando insospettito per mene di palagio, volendo allontanarlo, lo prepose all'esercito di Sicilia (832). E i cronisti bizantini che dipingono sì studiosamente ogni inezia e perfidia di corte e confondono nell'ombra il resto de' fatti, si contentano qui d'aggiugnere ch'Alessio egregiamente compiè i voleri dello imperatore; potendosi al più inferire da qualche parola che, fatte genti in Calabria, cominciasse già a ristorar la guerra nell'isola. Ma tra i nemici che avea lasciato a Costantinopoli, e que' che l'invidia gli suscitò d'un soffio in Sicilia, fu accusato di pratiche coi Musulmani; di tramare ribellione: solite contraddizioni della calunnia, che Teofilo si bevve senza esame. Donde chiamato Alessio appo di sè (833), ed esitando quegli a ubbidire, il principe trovò più comodo un tradimento. Mandò a persuaderlo l'arcivescovo Teodoro Crethino, al quale fe' sacramento del gran bene che voleva ad Alessio, e gli diè un salvocondotto soscritto di sua mano, e, più sacro pegno, una croce ch'ei solea portare al petto; sì che l'onesto sacerdote, ingannato, ingannò Alessio e seco il ricondusse a Costantinopoli. Quivi il Cesare era imprigionato, vergheggiato, confiscatigli i beni. L'arcivescovo che in una solenne cerimonia della chiesa osò rinfacciar lo spergiuro allo imperatore, fu strappato dagli altari, battuto, mandato in esilio. Poi Teofilo, pentito per le rimostranze del patriarca di Costantinopoli, liberò l'uno e l'altro: ma Alessio era ristucco sì tosto del mondo, che dei beni resigli edificò un monastero e vi si serrò.510 Così fatto imperatore, così fatto capitano, e i soldati fiacchi, il popolo rimbambito, gli ottimati di Sicilia sì saputi a calunniare, sì mal disposti a combattere, non erano al certo gli uomini che poteano salvare l'isola dai Musulmani. Il solo espediente strategico in cui si affidarono dopo la occupazione di Palermo, fu di adunare il grosso dell'esercito a Castrogiovanni; sì che gli scrittori musulmani dicono trasferita da Siracusa in quella città la sede del governo.511 Oggidì si chiamerebbe campo di osservazione. Quivi sedea il capitan generale dell'isola, spettatore ozioso d'ogni guasto che facevano i Musulmani.
Abu-Fihr andò dritto ad assalirlo ne' principii dell'anno dugento diciannove dell'egira (15 gennaio 834 a 3 gennaio 835): uscitigli incontro i Cristiani, li rompea dopo aspra zuffa, li ricacciava negli alloggiamenti, e, tornatovi in primavera, lor dava una seconda sconfitta. L'anno appresso intraprese più grossa guerra. Principiando dal campo di osservazione, lo combattè una terza fiata (835); espugnò gli alloggiamenti, li saccheggiò, vi fece prigioni la moglie e un figliuolo del patrizio che capitanava lo esercito; e tornatosi egli in Palermo, mandò un grosso di genti con Mohammed-ibn-Sâlem infino a Taormina, su la costiera orientale, i quali fecero ricco bottino. Altre gualdane saccheggiarono altri luoghi. Tra coteste vittorie scoppiava contro Abu-Fihr una sollevazione militare in cui fu ucciso, e gli omicidi si rifuggirono presso l'esercito cristiano.512
Mandato da Ziadet-Allah in Sicilia, in luogo del congiunto, un Fadhl-ibn-Ia'kûb, segnalossi immantinente con due correrie, l'una sopra Siracusa, l'altra forse nelle parti di Castrogiovanni; poichè leggesi che il patrizio andò con grosso stuolo a tagliar il cammino ai Musulmani. Se non ch'essi furono pronti ad afforzarsi in un aspro terreno e boscaglie intricate, ove il nemico non osò assalirli. Aspettato invano insino a sera che scendessero quelli a combattere, le genti del patrizio, com'era l'indole delle milizie bizantine, più neghittose che vigliacche, si partirono; sciolsero gli ordini nella ritirata. Addandosene i Musulmani, saltavan fuori da loro rupi, caricavano il nemico d'una carica vera, dicono gli annali, e lo sbaragliavano: il patrizio, ferito di parecchi colpi di lancia, cadde da cavallo, ma fu valorosamente difeso da' suoi, tanto che sel portarono fuggendo così mal concio, abbandonando armi, arnesi, cavalli. Così la scorreria finì in segnalata battaglia.513 Seguiano coteste due fazioni nella state dell'ottocento trentacinque; e si terminò con quelle la missione provvisionale di Fadhl, sendo venuto all'entrar di settembre a reggere la Sicilia un altro principe del sangue aghlabita. Fu questi Abu-'l-Aghlab-Ibrahim-ibn-Abd-Allah-ibn-el-Aghab,514 cugin germano di Ziadet-Allah e fratello dell'ucciso Mohammed. Uomo di grande saviezza e vedere politico, come il mostrò promovendo le fazioni navali. Venne con una armatetta in Palermo, capitale della Sicilia, come già la chiama un cronista, di mezzo ramadhan del dugentoventi (11 settembre 835), campato da grave fortuna in cui avea perduto parecchie navi per naufragio ed altre presegli dai Cristiani.515 Tra queste leggiamo che fosse una harrâka, e che una squadra di legni della medesima denominazione, capitanata da Mohammed-ibn-Sindi, uscì immediatamente alla riscossa, e diè la caccia al nemico, finchè la notte non glielo tolse di vista;516 e nei combattimenti che seguirono indi a non molto, si fa menzione altresì d'una harrâka presa dai Musulmani sopra i Greci.517 Or cotesta voce arabica significa appunto “incendiaria”; e però denota le galee da lanciar fuoco, che i Musulmani per avventura avean preso ad imitar dai Greci, tra il fine dell'ottavo e il principio del nono secolo: ancorchè tal foggia di navi in Oriente si fosse anco adoperata ad altri usi, e in Italia al commercio, riconoscendosi quello infausto nome nella appellazione di “carraca” e “caracca” che occorre sì sovente nei ricordi di Genova e di Venezia.518 È manifesto dunque che la colonia di Palermo tentava già il gran problema della tattica navale del tempo, di costruire cioè le navi incendiarie, ed a ciò adoperava le arti conosciute in Africa, in Ispagna, e forse meglio in Sicilia, poichè di harrâke non fanno menzione gli annali arabici, della Spagna nè dell'Affrica. Abu-'l-Aghlab non lasciò in ozio tal novella forza. Mandate alcune navi in una città di cui manca il nome nei Manoscritti, sia che fosse nelle isole Eolie, o nella costiera tra Palermo e Messina, i Musulmani combatterono un'armatetta cristiana, la vinsero, depredarono il paese e tornarono addietro coi prigioni, ai quali Abu-'l-Aghlab fe' mozzare il capo. Un'altra squadra approdata a Pantellaria, vi colse un dromone,519 nel quale, oltre i soldati greci, trovossi un uom d'Affrica fatto cristiano; e tutti al paro furon messi a morte per comando del governatore di Palermo:520 crudeltà non comandata dalla legge, fuorchè contro i rinnegati, e non solita nelle guerre degli Arabi; onde vi si scorge lo accanimento e invidia dei vincitori contro il navilio bizantino che sì raro lor avvenia di sgarare. Al tempo stesso, una torma di cavalli, spinta verso le falde dell'Etna e tra le fortezze della regione orientale, arse le campagne, saccheggiò e sparse gran sangue; ma combattendo, non scannando prigioni.521
L'anno seguente (221, 25 dicembre 835 a 12 dicembre 836) fatta irruzione di nuovo nel paese dell'Etna, se ne tornarono i Musulmani in Palermo con tanta preda di roba, e sopratutto di uomini, che il prezzo degli schiavi molto rinvilì, scrive laconicamente Ibn-el-Athîr. Un'altra schiera che mosse, credo io, lungo la costiera settentrionale non mai prima infestata, arrivò infino a Castelluccio, rôcca in su i monti a mezza via tra Palermo e Messina, e vi fe' anco bottino e prigioni; ma sopraggiunta dal nemico, dopo aspro combattimento, fu sconfitta. L'armata intanto, capitanata da Fadhl-ibn-Ia'kûb, assaliva e spogliava le isolette adiacenti, senza dubbio le Eolie; espugnava poi una fortezza, che volentieri leggerei Tindaro, e parecchie altre rôcche, e vittoriosa se ne tornò a Palermo.522 Dond'è manifesto che dopo le isole Eolie avesse scorso anch'essa la costiera di settentrione. Nel medesimo anno o piuttosto in quel d'appresso (222, 13 dicembre 836 a 1 dicembre 837) Abu-'l-Aghlab spingeva una grossa schiera capitanata da Abd-es-Selâm-ibn-Abd-el-Wehâb sul territorio di Castrogiovanni; contro la quale sceso il nemico a combattere, andarono in volta i Musulmani, lasciando assai gente sul campo di battaglia e non pochi prigioni, e tra quelli Abd-es-Selâm, che fu indi liberato, forse in uno scambio.523 Perocchè l'armata ch'era uscita anco questa stagione, scontratasi in quella dei Bizantini, la ruppe, e presele nove grossi navigli e una salandra524 con tutte le ciurme; e l'esercito, per far vendetta o riavere i prigioni, tornò più forte sotto Castrogiovanni, e vi si messe a campo.
Tra i quali travagli innoltratosi il verno, avvenne una notte che un Musulmano scoprì un di Castrogiovanni che si riduceva in città per viottoli ignoti; e tenutogli dietro, chetamente salì fino al sobborgo ove erano gli alloggiamenti dell'esercito. Donde tornato in fretta il Musulmano a darne avviso ai suoi, tutti s'armarono, s'inerpicarono per quel sentiero; e, superatolo, diedero il grido d'Akbar-allah (è massimo Iddio), e furono addosso ai nemici. Si rifuggivan quegli entro la cittadella, abbandonato il borgo; e fieramente indi resisteano, sicuri nella fortezza del sito. Alfine, dice il cronista, chiesero ed ottennero l'amân; e così i Musulmani carichi di preda se ne tornarono a Palermo.525 Si deve intendere che i Cristiani profferirono una taglia, e che i Musulmani, stando all'assedio tra i dirupi da una parte e un grosso presidio dall'altra, furon lietissimi di uscir dal pericolo con onore e guadagno. Ma nè s'impadronirono della rôcca, nè rimasero nel sobborgo; perocchè egli è certo che Castrogiovanni fa combattuta per più di venti anni dopo questo accordo; e ognun vede che se i Musulmani vi fossero entrati una volta, non avrebbero di leggieri lasciato sì importante fortezza.
In questo medesimo tempo stringeano Cefalù su la costiera settentrionale, a quarantotto miglia a levante di Palermo; il cui nome gli Arabi scrissero Gefalûdi e Scefalûdi: e ciò mostra ch'abbiano trovato guasta, forse da molti secoli, la pronunzia di Kefalídion.526 Così addimandarono quella terra i Greci dalla sembianza d'una rupe ritonda, inaccessa, sporgente in mare; la quale sovrasta alla città odierna, e sostenne l'antica oltre venti secoli, incominciando da tempi che non hanno storia; poichè vi si trovano avanzi di mura ciclopiche. Il forte sito la rese città di qualche momento nell'antichità e nel medio evo; e indi a prima vista alcun potrebbe maravigliare che i Musulmani conducessero insieme ambo le imprese di Cefalù e di Castrogiovanni, e ne potrebbe credere la colonia di Palermo assai più potente che non fu nei primi principii. Ma suppliva al numero dei Musulmani l'audacia loro e il terrore dei nemici. Una schiera solea dare il guasto al contado; porsi in luogo forte presso le mura; minacciare chiunque ne uscisse; combattere ed opprimere chi l'osava; spiare l'occasione di qualche colpo di mano: e questo chiamavasi assedio. E l'era, poichè sovente riduceva i terrazzani ad arrendersi, per amor dei poderi, per noia dei disagi, per paura di sè, della famigliuola, della roba, per tutti quei sintomi del pacifico cittadino, come il chiamano per dileggio coloro che il menano a verga. Nondimeno la fortezza del sito o del presidio faceva andare in lungo l'assedio di Cefalù, quando, dell'anno dugentoventitrè (2 dicembre 837 a 21 novembre 838), probabilmente in primavera, giunservi grossi rinforzi per mare. Eran costretti da quelli i Musulmani a levare l'assedio, a combattere molte fazioni,527 com'e' pare, con disavvantaggio, ritraendosi sempre verso Palermo. Dove risaputa tra questi travagli la morte di Ziadet-Allah, ch'era seguita in Affrica il quattordici di regeb (10 giugno 838), la colonia se ne costernò fortemente, leggiamo negli annali; ma dileguato il primo sbigottimento, si apprestò a mostrare il viso alla fortuna.528 Donde è chiaro che si temessero nuovi rivolgimenti in Affrica, e si disperasse indi degli aiuti che per avventura si credevano necessarii contro il nemico sbarcato a Cefalù.
Svanirono poi que' timori per lo savio e forte reggimento di Abu-I'kâl-Aghlab-ibn-Ibrahim; il quale succeduto tranquillamente al fratello Ziadet-Allah, seppe contentare le milizie, raffrenare le violenze private, tenere a freno i Berberi, ristorare nella capitale d'Affrica que' ch'eran buoni costumi secondo le idee religiose de' Musulmani. E tosto mandò nuove genti in Sicilia; onde la colonia continuava sue correrie nel dugentoventiquattro (22 novembre 838 a 10 novembre 839), dalle quali, leggiamo che i Musulmani tornassero in Palermo carichi di bottino;529 e però si vede che la espedizione dei Bizantini a Cefalù era finita, come le precedenti, senza alcun frutto. Con più formidabili appresti i Musulmani uscirono alla campagna l'anno appresso (11 novembre 839 a 29 ottobre 840) nel quale si arreser loro a patti Platani, Caltabellotta, Corleone, e, se ben leggiamo, anco Marineo e Geraci, e molte altre rôcche di cui gli annali non portano il nome.530 Così anco del dugento ventisei (30 ottobre 840 a 19 ottobre 841) una torma di cavalli diè il guasto al territorio di Castrogiovanni, arse, depredò, fece prigioni, senza che il presidio osasse uscirle incontro. Pertanto scorrendo oltre fino alla fortezza delle Grotte, chè così addimandavasi, scrive Ibn-el-Athîr, per trovarvisi quaranta grotte, i Musulmani la presero e saccheggiarono.531 Il sito e il nome danno a credere che sia la città che or si chiama Grotte, presso Girgenti, ancorchè parecchi altri luoghi di Sicilia abbiano la stessa denominazione negli annali musulmani, e in Sicilia al par che in Sardegna, in Puglia, in Affrica, in Egitto e altrove, come ognun sa, si veggano assai frequenti coteste stanze tagliate nella roccia in tempi antichissimi, per albergo de' vivi o tomba de' morti. I nomi delle città arrese ai Musulmani tra l'ottocentotrentanove e il quarantuno, bastano a mostrare che fosse ormai signoreggiato da loro tutto il val di Mazara, e lasciato in pace fin qui il rimanente dell'isola. Contuttociò aveano non solo portato le armi nella terraferma d'Italia, ma, quel che più è, fattovi lega con la repubblica di Napoli.
Si riscontri il Dandolo, lib. VIII, cap. II, §i 1 e 9 presso il Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo XII, e la Cronica Altinate, nello Archivio Storico Italiano, tomo VIII, p. 20.
Il Rampoldi, Annali Musulmani, tomo IV, p. 237, muta le due imprese dell'827 ed 829, o 30, in due “forti combattimenti ch'ebbe a sostenere Ased traversando da Susa a Mazara con una flotta di Veneziani alleati dell'imperatore.” E quel ch'è peggio, egli cita Nowairi, il quale non dice una parola di questi fatti.
Il Martorana, Notizie Storiche ec., tomo I, p. 39, fa venire il naviglio greco l'830, sotto il comando di Teofilo, mandato dal padre Michele il Balbo (ch'era morto l'829), e fa abbottinare contro Teofilo l'armata veneziana. Delle sue citazioni a questo proposito l'una è inesatta, l'altra non vale.
Questa sola cronica porta la morte di Teodoto, e la dice seguita l'anno dell'era costantinopolitana 6339, quando fu presa dai Musulmani una città il cui nome nel testo arabico si legge misawa. Il Nowairi porta la sconfitta di Teodoto sotto Mineo, e ch'ei si rifuggisse a Castrogiovanni del mese di giumadi secondo del 215, cioè dal 25 luglio al 22 agosto 830, e però pochi giorni innanzi il principio del 6339, che corre dal 1 settembre 830 al 31 agosto 831. Ibn-el-Athîr e il Baiân dicono anche levato l'assedio da Mineo. Or questo nome, scritto in arabico minâw, si può scambiare facilmente con quel della cronica di Cambridge confondendovi le due lettere i n sì che rassomiglino ad una s. Però ho creduto di correggere l'arbitraria lezione di Messina che si era adottata nelle versioni di detta cronica. Si leggano con questa avvertenza i passi corrispondenti del Martorana, tom. I, pag. 41, e del Wenrich, lib. I, cap. IV, § 37. Nell'831, quand'essi registrano la presa di Messina, gli Arabi combatteano ben lungi da quella provincia.
La cronaca della Cava, nella edizione di Pratilli, Historia Principum Langobardorum, tomo IV, p. 391, reca la presa di Palermo l'anno 832; ma questa è manifestamente la notizia della Cronica di Cambridge interpolata dal Pratilli con quella misera frode che si può sospettare dalle sue proprie parole (stesso volume, p. 381), e che ormai è chiarita dopo le ricerche del Pertz e del Köpke, Archiv für ältere Teutsche Geschichts Kunde.
Convengono così fatte espressioni con quelle di Giovanni Diacono, citato di sopra: Ad postremum vero capientes Panormitanam provinciam, cunctos ejus habitatores in captivitatem dederunt. Tantummodo Lucas ejusdem oppidi electus et Symeon spatharius cum paucis sunt exinde liberati.
Come si debba intendere questa cattività sarà detto quando tratteremo in generale della condizione dei Cristiani di Sicilia sotto i Musulmani, la quale non era uguale in tutti i luoghi. Intanto si ritenga che a que' di Palermo non fu lasciato il possesso di beni stabili. Ciò mi par che risalti manifesto dalle parole d'Ibn-el-Athîr e di Giovanni Diacono.
Il Nowairi, non badando alta importanza del passo analogo della cronica ch'egli ebbe sotto gli occhi come Ibn-el-Athîr, dice in generale presa Palermo con l'amân, ossia a patti. Da ciò il Di Gregorio suppose accordate tutte le solite condizioni dello amân che si dava alle città; e ne spiegò alcune nella nota (c) al Nowairi, nell'opera citata, p. 7. Ma le condizioni, massime in fatto di proprietà, non erano nè poteano essere uguali in ogni luogo.
La leggenda di questo dirhem è stata ristampata dal signor Mortillaro, Opere, tomo III, p. 344.
Il Baiân ci dà il bandolo d'una matassa in cui gli altri annalisti han confuso questo personaggio con altri governatori di Sicilia; ed ecco in qual modo.
Ibn-el-Athîr, citato di sopra, dà Mohammed-ibn-Abd-Allah-ibn-el-Aghlab come già esercente la carica di governatore di Sicilia nel 220. Poi narra ch'ei fu ucciso lo stesso anno, ed eletti successivamente dopo di lui, Fadhl-ibn-Ia'kûb ed Abu-'l-Aghlab-Ibrahim-ibn-Abd-Allah. (MS. A, tomo I, fog. 124 verso.) In ultimo, quasi dimenticando cotesti nomi e date, registra nel 236 la morte di Mohammed-ibn-Abd-Allah, governatore di Sicilia, dopo 19 anni di egregio governo; ma egli dubita di così fatta tradizione, aggiungendo la solita frase di scappatoia: “Del resto, la verità la sa Iddio.” (MS. A, tomo II, fog. 2 recto; MS. C, tomo IV, fog. 212 recto.)
Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 120; Abulfeda, Annales Moslemici, ann. 237; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 8, ed Ibn-Abi-Dinâr, MS. di Parigi, fog. 20 verso e 21 recto, replicano il nome di Mohammed-ibn-Abd-Allah-ibn-el-Aghlab, e la tradizione dei 19 anni di forte e savio governo, finito per morte il 236 o il 237 e cominciato, come dice il Nowairi con evidente sbaglio di computo, il 225.
Ibn-Abbâr, infine (MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 148 verso), porta il nome di Abu-'l-Aghlab-Ibrahim-ibn-Abd-Allah-ibn-Ibrahim-ibn-el-Aghlab, che “assestò (dice egli), ed egregiamente resse la Sicilia dall'anno 221 ch'ei vi fu mandato, per tutto il tempo della sua vita.”
Comparando le quali testimonianze, e notando la fede che merita ciascuna, è evidente lo errore di tutti gli altri, fuorchè il Baiân, e Ibn-Abbâr; e che Ibn-el-Athîr, seguíto da Ibn-Khaldûn, che il vero nome dapprima, e poi con troppa fretta ripetè lo errore altrui. Lo errore stava nel confondere i tre anni di governo di Mohammed-ibn-Abd-Allah (217 a 220), e i sedici di Ibrahim (220 a 236), e far dei due fratelli un solo personaggio che avesse retto la Sicilia per 19 anni.
Chiarito or questo punto, rimarrebbe un sol dubbio, cioè se il padre di Ibrahim, chiamato Abd-Allah, fosse stato figliuolo di quell'Aghlab, dal quale prese nome la dinastia, ovvero del costui figliuolo Ibrahim primo principe d'Affrica; e perciò se il governatore mandato in Sicilia il 220 fosse stato cugino germano di Ziadet-Allah, ovvero nipote, figliuolo cioè del fratello che avea regnato prima di lui. Rimane il dubbio, io dico, per lo nome di Ibn-Ibrahim che si legge in Ibn-Abbâr, e ch'io ho scritto in corsivo nella citazione; ma come il MS. di Ibn-Abbâr che ho sotto gli occhi è copia moderna e scorretta, così io credo si debba sopprimere questo grado di genealogia, e stare al nome dato dal Baiân.
Presso i Musulmani il nome di (nave) incendiaria apparisce la prima volta, credo io, verso l'813; facendosi menzione da Ibn-el-Athîr d'una harrâka con la quale il califo Amîn solea andare a diporto sul Tigri. Poi, questa denominazione occorre al tempo delle Crociate nel significato di barca da fiume, battello, gondola; ma tuttavia alcuni scrittori arabi la definivano: “galea con un ordegno da gittar fuoco.” Da tale contraddizione tra il nome e il fatto, è nato disparere su la qualità di nave che si dovesse intendere sotto il nome di harrâka; ostinandosi i dotti a credere che si trattasse sempre di una sola qualità di nave: e le varie opinioni su tal punto si leggono nelle note dei signori Reinaud, Extraits etc. relatifs aux Croisades, p. 415; ed E. Quatremère, Histoire des Sultans Mamlouks par Makrizi, tomo I, p. 143, e tom. II, parte I, p. 24 e 25.
La menzione fatta delle harrâke dei Musulmani, e sopratutto d'una dei Bizantini, nei combattimenti di Sicilia, parmi che tronchi ormai la lite, mostrando come in varii tempi e luoghi si addimandarono così or navi da guerra, or barche da diporto o commercio. In simil guisa le “bombarde” dell'Italia meridionale ritengon oggi lo antico nome, ancorchè le si adoprino a traffico di cabotaggio e siano smesse nella guerra.
Procedendo nelle conghietture, io penso che gli Arabi abbiano costruito navi apposta, o almeno ingegni da incendiare, quando cominciarono ad appropriarsi quel che poteano delle scienze ed arti de' Greci. In questo particolare, come in parecchi altri, gli Arabi fallirono; e forse l'uso delle navi incendiarie fu abbandonato da loro, perchè non seppero mai costruire i dromoni veloci e forti come i Bizantini, e perchè fino al tempo delle Crociate non venne lor fatto giammai di scoprir la vera composizione del fuoco greco. Il nome che trovasi a Bagdad, come ho detto, nell'813, e in Sicilia nell'835, prova che il saggio fosse stato cominciato o continuato nei principii del IX secolo. E il tentativo fatto si può argomentare anco dai ricordi cristiani che abbiamo intorno il fuoco greco: cioè che recollo a Costantinopoli, verso la metà del settimo secolo, Callinico ingegnere di Siria, e che sendosi adoperato con felice successo contro i Musulmani nei due assedii di Costantinopoli, passò tra i segreti di Stato: e la corte spacciò che un angelo lo avesse insegnato a Costantino il Grande; che Iddio serbasse tremendi supplizii a chiunque lo rivelava; e che in fatti un traditore che volle darlo ai nemici fu divorato da fiamme scese dal cielo. Come gli imperatori non trascuravano i mezzi umani di guardare gelosamente quel segreto, e come i chimici musulmani non seppero indovinar bene la composizione prima del tempo delle Crociate, così i saggi di qualche officiale subalterno che passasse dai Bizantini agli Arabi, tornarono tutti vani. Forse le harrâke di Sicilia furono costruite con questo mezzo, e però imperfettamente, e però si disusarono; affidandosi meglio i Musulmani alle spade, alle lance e all'impeto e numero con che andavano all'arrembaggio.
La voce carraca, mutata poi in caracca, carrica, carraque ec., dà esattamente il suono della harrâka arabica, pronunziandosi anche così la h nella voce genovese camâlo, venuta dall'arabo hammâl, e in tante altre. La etimologia da harrâka mi pare assai più naturale che quelle imaginate fin qui, su le quali veggansi Ducange, Glossarium mediæ et infimæ latinitatis, alle dette voci; e Jal, Archéologie navale, tomo II, p. 211, seg.
Il nome che ho letto Tindaro si vede scritto m d nâr nel Baiân. Trattandosi di una fortezza importante, e su la costiera settentrionale, poichè l'assaliva l'armata reduce dalle isole Eolie, Tindaro mi è parso, tra tutti i nomi antichi e moderni, quel che più si avvicina al testo del Baiân. Lo scambio della prima lettera non sarebbe caso straordinario. Edrisi scrive Tindaro d n dâri. Tindaro fu città importante fino al tempo dei Musulmani, e si trova noverata tra le sedi vescovili nel IX o X secolo. Durò anco fino al XIV, leggendosi di un Vinciguerra Aragona signore di Tyndaris.
È da avvertire, in fine, che il Baiân non dice se questa impresa fosse stata fatta dall'armata o dall'esercito, che la reca nel 222, quando Ibn-el-Athîr la riferisce al 221, e l'attribuisce alle forze navali. Leggiamo in questo autore essere state prese “cittadi e fortezze;” ma la prima parola, in arabico Modonan, potrebbe essere alterazione del detto nome geografico.
Il Fazzello, supponendo che il nome di Ἐρβησσὸς ed Herbesus derivasse da ἔρεβος, e che significasse “caverne,” credette riconoscere una delle due Erbesso dell'antica Sicilia nella terra delle Grotte, e l'altra non lungi da Siracusa nel burrone della rupe di Pantalica, ch'è bucherato, in fatti, di simili grotte come un alveare (Deca I, lib. X, cap. III, e lib. IV, cap. I). Veggasi su cotesti giudizii del Fazzello il Cluverio, Sicilia Antiqua, lib. II, cap. X e XI. Su le grotte destinate ad abituri o sepolture in varie parti della Sicilia, meritano di esser lette le osservazioni di M. Felix Bourquelot, Voyage en Sicile (Paris 1848), p. 164 e segg. M. Bourquelot ne cita a Castrogiovanni, altre presso il lago Pergusa, altre tra Piazza e Caltagirone, a Vizzini, Spaccaforno, Monte Aperto, Avola, Licodia, Ferla, Valle d'Ispica, e quelle infine di Pantalica, ch'ei descrive minutamente.
Il mio amicissimo Saverio Cavallari, ingegnere e archeologo, ne ha osservato altre a Lentini, Sortino, Palagonia, e crede importanti sopra tutte quelle dette “Le Grotte di San Cono” presso Caltabellotta, e “Le Grotte dei Giganti” tra Bronte e Maletto. Lo ritraggo da una lettera ch'egli ha scritto recentemente al duca di Luynes, della quale il dotto archeologo francese si è piaciuto darmi una copia.