Kitabı oku: «I misteri del castello d'Udolfo, vol. 3», sayfa 5
CAPITOLO XXX
Allorchè Montoni fu informato della morte di sua moglie, considerando ch'era spirata senza fargli la cessione tanto necessaria al compimento dei suoi desiderii, nulla valse ad arrestare l'espressione del suo risentimento. Emilia evitò con cura la di lui presenza, e pel corso di trentasei ore non abbandonò mai il cadavere della zia. Profondamente angosciata dal triste di lei destino, ne obliava tutti i difetti, le ingiustizie e la durezza, sol rammentandosene i patimenti.
Montoni non disturbò le di lei preghiere: egli scansava la camera dov'era il cadavere della moglie, e perfino quella parte del castello, come se avesse temuto il contagio della morte. Pareva non avesse dato alcun ordine relativo ai funerali; cosicchè Emilia temette che fosse un insulto alla memoria di sua zia; ma uscì dall'incertezza, quando, la sera del secondo giorno, Annetta venne ad informarla che la defunta verrebbe sepolta la notte stessa. Figurandosi che Montoni non vi avrebbe assistito, era lacerata dall'idea che il cadavere della povera zia andrebbe alla sepoltura senza che un parente od un amico le rendesse gli ultimi doveri: decise perciò di andarvi in persona; senza questo motivo, avrebbe tremato di accompagnare il corteo, composto di gente che avevano tutto il contegno e la figura di assassini, sotto l'orrida vôlta della cappella, ed a mezzanotte, all'ora cioè del silenzio e del mistero, scelta da Montoni per abbandonare all'oblìo le ceneri di una sposa, della quale la sua barbara condotta aveva per lo meno accelerato la fine.
Secondata da Annetta, ella dispose la salma per la sepoltura. A mezzanotte, comparvero gli uomini che dovevano trasportarla alla tomba. Emilia potè contenere a stento l'agitazione vedendo quelle orride figure: due di essi, senza proferir parola, presero il cadavere sulle spalle, ed il terzo precedendoli con una fiaccola, discesero tutti uniti nel sotterraneo della cappella. Dovevano traversare i due cortili della parte orientale del castello, ch'era quasi tutta rovinata. Il silenzio e l'oscurità de' luoghi poco poterono sullo spirito di Emilia, occupata d'idee assai più lugubri. Giunti al limitare del sotterraneo, essa sostò, sovrappresa da una commozione inesprimibile di dolore e di spavento, e si volse per appoggiarsi ad Annetta, muta e tremante al par di lei. Dopo qualche pausa, inoltrò, e scorse, fra le arcate, gli uomini che deponevano la bara sull'orlo d'una fossa. Ivi trovavansi un altro servo di Montoni ed un sacerdote di cui non s'avvide se non quando cominciò le preci. Allora alzò gli occhi, e scorse la faccia venerabile d'un religioso, che con voce bassa e solenne recitò l'uffizio dei morti. Nell'istante in cui il cadavere venne calato nel sepolcro, il quadro era tale, che il più abile pennello non avrebbe sdegnato dipingere. I lineamenti feroci, le fogge bizzarre di quegli scherani, inclinati colle faci sulla fossa, l'aspetto venerabile del frate, avvolto in lunghe vesti di lana bianca, il cui cappuccio, calato indietro, faceva risaltare un viso pallido, adombrato di pochi capelli bianchi, onde la luce delle torce lasciava vedere l'afflizione addolcita dalla pietà; l'attitudine interessante di Emilia appoggiata ad Annetta colla faccia semicoperta d'un velo nero, la dolcezza e beltà della fisonomia, e il suo intenso dolore, che non le permetteva di piangere, mentre affidava alla terra l'ultima parente che avesse; i riflessi tremolanti di luce sotto le vôlte, l'ineguaglianza del terreno, ov'erano stati recentemente sepolti altri corpi, la lugubre oscurità del luogo, tante circostanze riunite, avrebbero trascinato l'immaginazione dello spettatore a qualche caso forse più orribile del funerale dell'insensata ed infelice signora Montoni.
Terminata la funzione, il frate guardò Emilia con attenzione e sorpresa; pareva volesse parlarle, ma la presenza dei masnadieri lo trattenne. Nell'uscire dalla cappella si permisero indegni motteggi sulla cerimonia e sullo stato di lui con grand'orrore d'Emilia. Li sofferse in silenzio, limitandosi a chiedere di essere ricondotto sano e salvo al suo convento, dal quale era venuto dietro richiesta espressa del castellano, a ciò indotto dalle istanze della nipote. Giunti nel secondo cortile, il frate impartì alla fanciulla la sua benedizione, fissandola con occhio pietoso, poi s'incamminò verso il portone. Le due donne ritiraronsi alle proprie stanze.
Emilia passò parecchi giorni in assoluta solitudine, nel terrore per sè e nel rammarico della perdita di sua zia. Si determinò infine a tentare un nuovo sforzo per ottener da Montoni che la lasciasse andare in Francia. Non sapeva formare veruna congettura sui motivi che potea avere d'impedirglielo; era troppo persuasa ch'ei volea tenerla seco, ed il suo primo rifiuto le lasciava poca speranza. L'orrore inspiratole dalla di lui presenza, le faceva differire di giorno in giorno il colloquio. Un messaggio però dello stesso Montoni la tolse da tale incertezza; egli desiderava vederla all'ora che indicava. Fu quasi per lusingarsi, che, essendo morta la zia, egli acconsentirebbe a rinunziar alla sua usurpata autorità; ma rammentandosi poi che i beni tanto contrastati erano divenuti attualmente suoi, temè che Montoni volesse usare qualche stratagemma per farseli cedere, e non la tenesse fin allora prigioniera. Quest'idea, invece di abbatterla, rianimò tutte le potenze dell'anima sua, e le infuse nuovo coraggio. Avrebbe rinunziato a tutto per assicurare il riposo della zia, ma risolse che veruna persecuzione personale avrebbe il potere di farla recedere da' suoi diritti. Era interessatissima a conservare l'eredità a riguardo specialmente di Valancourt, col quale lusingavasi così di passare una vita felice. A questa idea sentì quant'ei le fosse caro, e si figurava anticipatamente il momento in cui la di lei generosa amicizia avrebbe potuto dirgli che gli recava in dote tutti quei beni; si figurava vedere il sorriso che animerebbe i suoi lineamenti, e gli sguardi affettuosi che esprimerebbero tutta la sua gioia e riconoscenza. Credette in quel momento di poter affrontare tutti i mali che l'infernale malizia di Montoni le avrebbe preparato. Si ricordò allora, per la prima volta dopo la morte della zia, ch'essa aveva carte relative a questi beni, e risolse di farne ricerca appena avesse parlato con Montoni.
Con questa idea andò a trovarlo all'ora prescritta: era in compagnia di Orsino e d'un altro uffiziale, e pareva esaminare con diligenza molte carte deposte sur un tavolino.
« Vi ho fatta chiamare, » diss'egli alzando la testa, « perchè desidero siate testimone di un affare che debbo ultimare col mio amico Orsino. Tutto ciò che si vuol da voi, è che firmiate questa, carta. » La prese, ne lesse borbottando alcune righe, la depose sul tavolo, e le diede una penna. Stava per firmare, quando le venne d'improvviso in mente il disegno di lui; le cadde la penna di mano, e negò di firmare senza leggere il contenuto: Montoni affettò sorridere, e ripresa la carta, finse rileggere un'altra volta come aveva già fatto. Emilia, fremendo del pericolo e dell'eccesso di credulità che l'avea quasi tradita, ricusò positivamente di firmare. Montoni continuò alcun poco i motteggi; ma quando, dalla perseveranza di lei, comprese che aveva indovinato il suo progetto, cambiò linguaggio e le ordinò di seguirlo. Appena furono soli, le disse che aveva voluto, per lei e per sè medesimo, prevenire un diverbio inutile in un affare, in cui la sua volontà formava la giustizia, e sarebbe diventata una legge; che preferiva persuaderla anzichè costringerla, e che in conseguenza adempisse al suo dovere.
« Io, come marito della defunta signora Cheron, » soggiunse egli, « divento l'erede di tutto ciò che ella possedeva; i beni, che non ha voluto donarmi mentre viveva, non devono ora passare in altre mani. Vorrei, pel vostro interesse, disingannarvi dell'idea ridicola ch'essa vi diede alla mia presenza, che i suoi beni cioè sarebbero vostri, se moriva senza cedermeli. Penso che voi siate troppo ragionevole per provocare il mio giusto risentimento; non soglio adulare, e voi potete riguardare i miei elogi come sinceri. Voi possedete un criterio superiore al vostro sesso; e non avete veruna di quelle debolezze che distinguono in generale il carattere delle donne, l'avarizia cioè e il desiderio di dominare. »
Montoni si fermò; Emilia non rispose.
« Giudicando come faccio, » ripigliò egli, « io non posso credere vorrete mettere in campo una contesa inutile. Non credo neppure che pensiate acquistare o possedere una proprietà, sulla quale la giustizia non vi accorda nessun diritto. Scegliete dunque l'alternativa che vi propongo. Se vi formerete un'esatta opinione del soggetto che trattiamo, sarete in breve ricondotta in Francia. Se poi foste tanto sciagurata da persistere nell'errore, in cui v'indusse vostra zia, resterete mia prigioniera, finchè apriate gli occhi. »
Emilia rispose con calma: « Io non sono così poco istruita delle leggi relative a tale soggetto, per lasciarmi ingannare da un'asserzione qualunque; la legge mi accorda il possesso dei beni in questione, e la mia mano non tradirà i miei diritti.
– Mi sono ingannato, a quanto pare, nell'opinione che m'era concepita di voi, » disse Montoni severamente; « voi parlate con arditezza e presunzione su d'un argomento che non intendete. Voglio bene, per una volta, perdonare l'ostinazione dell'ignoranza; la debolezza del vostro sesso, dalla quale non sembrate esente, esige anche questa indulgenza. Ma se persistete, avrete a temer tutto dalla mia giustizia.
– Dalla vostra giustizia, signore, » rispose Emilia, « non ho nulla da temere, bensì tutto da sperare. »
Montoni guardolla con impazienza, e parve meditare su ciò che doveva dirle.
« Vedo che siete debole tanto da credere ad una ridicola asserzione. Me ne spiace per voi; quanto a me, poco me n'importa; la vostra credulità troverà il suo castigo nelle conseguenze, ed io compiango la debolezza di spirito che vi espone alle pene che mi costringete di prepararvi.
– Voi troverete, signore, » rispose Emilia con dolcezza e dignità, « la forza del mio spirito eguale alla giustizia della mia causa; e posso soffrire con coraggio quando resisto alla tirannia.
– Parlate come una eroina, » disse Montoni con disprezzo; « vedremo se saprete soffrire egualmente. »
Emilia non rispose, e partì. Rammentandosi che resisteva così per l'interesse di Valancourt, sorrise compiacendosi di pensare ai minacciati maltrattamenti. Andò a cercare il posto indicatole dalla zia, come deposito delle carte relative ai suoi beni, e ve le trovò; ma non conoscendo un luogo più sicuro per conservarle, ve le ripose senza esame, temendo di essere sorpresa.
Mentre, ritornata nella solitudine, rifletteva alle parole di Montoni e ai pericoli nei quali incorreva, opponendosi alla sua volontà, udì scrosci di risa sul bastione; andò alla finestra, e vide con sorpresa tre donne, vestite alla Veneziana, che passeggiavano con alcuni signori. Allorchè passarono sotto la finestra, una delle forestiere alzò la testa. Emilia riconobbe in lei quella signora Livona, le cui affabili maniere l'avevano tanto sedotta il giorno dopo il suo arrivo a Venezia, e che in quel giorno istesso era stata ammessa alla tavola di Montoni: tale scoperta le cagionò una gioia mista a qualche incertezza; era per lei un soggetto di soddisfazione il vedere una persona tanto amabile quanto sembrava la signora Livona, nel luogo istesso da essa abitato. Nondimeno, il di lei arrivo al castello in simile circostanza, il suo abbigliamento, che indicava non esservi stata costretta, glie ne fece sospettare i principii ed il carattere; ma l'idea spiaceva tanto ad Emilia, già vinta dalle maniere seducenti della bella Veneziana, che preferì non pensare che alle sue grazie, e bandì quasi intieramente qualunque altra riflessione.
Quando Annetta entrò, le fece diverse interrogazioni sull'arrivo delle forastiere, e trovò avere colei più premura di rispondere, ch'essa d'interrogare.
« Son venute da Venezia, » disse la cameriera, « con due signori, ed io fui contentissima di vedere qualche altra faccia cristiana in quest'orrido soggiorno. Ma che pretendono esse venendo qui? Bisogna esser pazzi davvero per venire in questo luogo, oppure ci sono venute liberamente, giacchè sono allegre.
– Saranno forse state fatte prigioniere, » soggiunse Emilia.
– Prigioniere! oh! no, signorina: no, nol sono. Mi ricordo bene di averne veduta una a Venezia; è venuta due o tre volte in casa nostra. Si diceva perfino, sebbene io non l'abbia mai creduto, che il padrone l'amasse perdutamente. »
Emilia pregò Annetta d'informarsi dettagliatamente di tutto ciò che concerneva quelle signore, e, cambiando quindi discorso, parlò della Francia, facendole travedere la speranza di tornarvi in breve.
La ragazza uscì per raccogliere informazioni, ed Emilia cercò obliare le sue inquietudini, pascendosi delle fantastiche immaginazioni create da' poeti.
Verso sera, non volendo esporsi, sulle mura, agli avidi sguardi dei soci di Montoni, andò a passeggiare nella galleria contigua alla sua camera. Giugnendo in fondo ad essa udì ripetuti scrosci di risa. Erano i trasporti dello stravizio, e non gli slanci moderati d'una dolce ed onesta letizia. Parevan venire dalla porta del quartiere di Montoni. Un tal baccano in quel momento in cui l'infelice zia era appena spirata, l'indispettì al sommo, e vi riconobbe la conseguenza della mala condotta di Montoni. Ascoltando, credette riconoscere alcune voci donnesche; tale scoperta la confermò nei sospetti concepiti sulla signora Livona e le sue compagne: era evidente ch'elleno non trovavansi per forza nel castello. Emilia si vedeva così negli alpestri recessi degli Appennini, circondata da uomini che riguardava come briganti, ed in mezzo ad un teatro di vizi, che la faceva inorridire. L'immagine di Valancourt perdè ogni influenza, ed il timore le fece cambiare i suoi progetti, riflettendo a tutti gli orrori che Montoni preparava contro di lei; tremando della vendetta, alla quale esso avrebbe potuto abbandonarsi senza rimorsi, si decise quasi a cedergli i beni contrastati, se vi persisteva ancora, e riscattare così la sicurezza e la libertà; ma, poco di poi, la memoria dell'amante tornava a lacerarle l'anima e ripiombarla nelle angosce del dubbio. Continuò a passeggiare finchè l'ombre della sera ebbero invase le arcate. La fanciulla nonpertanto, non volendo tornar alla sua camera isolata prima del ritorno d'Annetta, passeggiava tuttora per la galleria. Passando dinanzi all'appartamento dove avea una volta osato alzar il velo del quadro, le tornò in mente quell'orrido spettacolo, e sentendosi raccapricciare, sollecitossi, di andarsene dalla galleria mentre aveane ancor la forza. D'improvviso sentì rumor di passi dietro lei. Poteva essere Annetta, ma, voltando gli occhi con timore, scorse tra l'oscurità una gran figura che la seguiva, e poco dopo si trovò stretta tra le braccia d'una persona ed udì una voce bisbigliare all'orecchio. Quando si fu alquanto riavuta dalla sorpresa, domandò chi mai si facesse lecito di trattenerla così?
« Son io, » rispose la voce; « non temete. »
Emilia osservò la figura che parlava, ma la fioca luce della finestra gotica non le permise di distinguere chi fosse.
« Chiunque voi siate, » diss'ella con voce tremula, « per amor di Dio, lasciatemi.
– Vezzosa Emilia, » soggiunse colui, « perchè sequestrarvi così in questo luogo tetro, mentre giù dabbasso regna tanta allegria? Seguitemi nel salotto di cedro: voi ne formerete il migliore ornamento, e non vi spiacerà il cambio. »
Emilia sdegnò rispondere, ma procurò di sciogliersi.
« Promettetemi che verrete, ed io vi lascerò subito; ma accordatemene prima la ricompensa.
– Chi siete voi? » domandò Emilia con isdegno e spavento, e cercando fuggire; « chi siete voi che avete la crudeltà d'insultarmi così?
– Perchè chiamarmi crudele? » rispose colui. « Vorrei togliervi da questa orribile solitudine, e condurvi in una brillante società. Non mi conoscete? »
Emilia si ricordò allora confusamente ch'era uno dei forestieri che circondavano Montoni la mattina in cui andò a trovarlo. « Vi ringrazio della buona intenzione, » replicò essa senza mostrar d'intenderlo, « ma tutto ciò che desidero per ora è che mi lasciate andare.
– Vezzosa Emilia, » soggiunse egli, « abbandonate questo gusto per la solitudine. Seguitemi alla conversazione, e venite ad eclissare tutte le bellezze che la compongono; voi sola meritate l'amor mio. » E volle baciarle la mano; ma la forza dello sdegno le somministrò quella di sciogliersi, e fuggendo nella sua camera, ne chiuse l'uscio prima che vi giungesse colui, e si abbandonò spossata sur una sedia. Sentiva la di lui voce e i tentativi che faceva per aprire, senza aver la forza di chieder soccorso. Alfine si avvide che erasi allontanato, ma pensò alla porta della scala segreta, d'onde avrebbe potuto facilmente penetrare, e si occupò subito ad assicurarla alla meglio. Le pareva che Montoni eseguisse già i suoi progetti di vendetta, privandola della sua protezione, e si pentiva quasi di averlo temerariamente provocato. Credeva oramai impossibile di ritenere i suoi beni. Per conservare la vita e forse l'onore, fece il proponimento che, se fosse sfuggita agli orrori della prossima notte, farebbe la cessione la mattina seguente, purchè Montoni le permettesse di partire da Udolfo.
Preso questo partito, si tranquillò: rimase così per qualche ora in assoluta oscurità; Annetta non giungeva, ed essa principiò a temere per lei; ma non osando arrischiarsi ad uscire, dovè restare nell'incertezza sul motivo di questa assenza. Si avvicinava spesso alla scala per ascoltare se saliva qualcuno, e non sentendo verun rumore, determinata però a vegliare tutta la notte, si gettò vestita sul tristo giaciglio e lo bagnò delle sue innocenti lacrime. Pensava alla perdita de' parenti, pensava a Valancourt lontano da lei. Li chiamava per nome, e la calma profonda, interrotta soltanto dai suoi lamenti, ne aumentava le tetre meditazioni.
In tale stato, udì d'improvviso gli accordi di una musica lontana; ascoltò, e riconoscendo tosto l'istrumento già inteso a mezzanotte, andò ad aprire pian piano la finestra. Il suono pareva venir dalle stanze sottoposte. Poco dopo l'interessante melodia fu accompagnata da una voce, ma così espressiva, da non poter supporre che cantasse mali immaginari. Credette conoscere già quegli accenti si teneri e straordinari; ma rammentavasene appena come di cosa molto lontana. Quella musica le penetrò il cuore, nella sua angoscia attuale, come armonia celeste che consola e incoraggisce. Ma chi potrebbe descrivere la sua commozione allorchè udì cantare, col gusto e la semplicità del vero sentimento, un'arietta popolare del paese natio; una di quelle ariette imparate nell'infanzia, e tanto spesso fattele ripetere dal padre? A quel canto ben noto, fin allora non mai inteso fuori della sua cara patria, il cuore le si dilatò alla rimembranza del passato. Le vaghe e placide solitudini della Guascogna, la tenerezza e la bontà de' genitori, la semplicità e felicità de' primi anni, tutto affacciossele all'imaginazione, formando un quadro così grazioso, brillante e fortemente opposto alle scene, ai caratteri ed ai pericoli ond'era circondata attualmente, che il suo spirito non ebbe più forza di riandare il passato e non sentì più che il peso degli affanni.
D'improvviso, la musica cambiò, e la fanciulla, attonita, riconobbe l'istessa aria già intesa alla sua peschiera. Allora le si presentò un'idea colla rapidità del lampo, e secolei una catena di speranze la elettrizzò; poteva appena respirare, e vacillava tra la speranza e il timore: pronunziò dolcemente il nome di Valancourt. Era possibile che il giovane fosse vicino a lei, e ricordandosi d'avergli udito dire più volte che la peschiera, ove aveva sentito quella canzone, e trovato i versi scritti per lei, era la sua passeggiata favorita anche prima che si conoscessero, fu persuasa che fosse la di lui voce.
A misura che le sue riflessioni si consolidavano, la gioia, il timore e la tenerezza lottavano in lei: affacciossi alla finestra per ascoltar meglio quegli accenti, che valessero a confermare o distruggere la sua speranza, non avendo Valancourt mai cantato alla di lei presenza; la voce e l'istrumento tacquero di li a poco, ed essa ponderò un momento se doveva arrischiarsi a parlare. Non volendo, se era Valancourt, commettere l'imprudenza di nominarlo, e troppo interessata al tempo istesso per trascurar l'occasione di chiarirsi, gridò dalla finestra: « E' una canzone di Guascogna? » Inquieta, attenta, aspettò una risposta, ma indarno. Ripetè la domanda, ma non udì altro strepito tranne i fischi del vento traverso i merli delle mura. Cercò consolarsi persuadendosi che l'incognito si fosse allontanato prima ch'ella gli parlasse.
Se Valancourt avesse sentita e riconosciuta la sua voce, avrebbe per certo risposto. Riflettè quindi che forse la prudenza l'aveva obbligato a tacere. « Se egli è nel castello, » diceva essa, « dev'esservi come prigioniero; per cui avrà temuto di rispondermi in tanta vicinanza delle sentinelle. »
Perplessa, inquieta, rimase alla finestra sino all'alba, poi se ne tornò a letto, ma non potè chiuder occhio; la gioia, la, tenerezza, il dubbio, il timore occuparono tutte le ore del sonno, ore che non le parvero tanto lunghe come quella volta. Sperava veder tornare Annetta, e ricever da lei una certezza qualunque, che ponesse fine ai suoi tormenti attuali.