Kitabı oku: «I misteri del castello d'Udolfo, vol. 3», sayfa 7
CAPITOLO XXXII
Quando, allo spuntar del giorno, Emilia aprì la finestra, restò sorpresa contemplando le bellezze che la circondavano. La casa era ombreggiata da castagni, misti a cipressi e larici. A settentrione e a levante gli Appennini, coperti di boschi, formavano un anfiteatro superbo e maestoso. Le loro falde verdeggiavano di vigne e di oliveti. Le ville elegantissime della nobiltà toscana, sparse qua e là sui colli, formavano una vista sorprendente. L'uva pendeva a festoni dai rami dei pioppi e dei gelsi. Prati immensi costeggiavano il ruscello che scendeva dalle montagne; a ponente ed a mezzogiorno, si scorgeva il mare a gran distanza. La casa era esposta a mezzogiorno, e circondata da fichi, gelsomini e viti dai rubicondi grappoli, che pendevano intorno alle finestre: il praticello innanzi alla casa era smaltato di fiori e d'erbe odorifere. Quel luogo era per Emilia un boschetto incantato, la cui vaghezza comunicò successivamente al di lei spirito la calma, che non aveva gustata da tanto tempo.
Fu chiamata all'ora della colazione dalla figlia del contadino, fanciulla di fisonomia interessante, dell'età di circa diciassette anni. Emilia vide con piacere che parea animata dalle più pure affezioni della natura: tutti quelli che la circondavano, annunziavano più o meno cattive disposizioni: crudeltà, malizia, ferocia e doppiezza; quest'ultimo carattere distingueva specialmente la fisonomia di Dorina e di suo marito. Maddalena parlava poco, ma con voce soave ed un'aria modesta e compiacente che interessarono Emilia. Le donne fecero colazione in casa mentre Ugo, Bertrando ed il loro ospite mangiavano sul prato prosciutto e formaggio, inaffiati di vini toscani. Appena ebbero finito, Ugo andò in fretta a cercare la sua mula. Emilia seppe allora ch'egli doveva tornare ad Udolfo, mentre Bertrando sarebbe rimasto alla capanna.
Quando Ugo fu partito, Emilia propose una passeggiata nel bosco; ma essendole stato detto che non poteva uscire se non in compagnia di Bertrando stimò meglio ritirarsi nella sua stanza.
Preferendo la solitudine alla società di quello scellerato e de' suoi ospiti, Emilia pranzò in camera, e Maddalena ebbe il permesso di servirla. La di lei conversazione ingenua le fece conoscere che i contadini abitavano da molto tempo in quella casa, la quale era un regalo di Montoni in ricompensa d'un servizio resogli da Marco, stretto parente del vecchio Carlo. « Sono così tanti anni, signora, » disse Maddalena, « ch'io ne so pochissimo; ma sicuramente mio padre deve aver fatto del gran bene a sua eccellenza, perchè la mamma ha detto spessissimo, che questa casa era il menomo regalo che potesse fargli. »
Emilia ascoltava con pena questo racconto, che dava un colore poco favorevole al carattere di Marco. Un servizio che Montoni ricompensava così, non poteva essere che delittuoso; e si convinceva sempre più di non essere stata mandata in quel luogo se non per un colpo disperato.
« Sapete voi quanto tempo sarà, » disse Emilia, pensando all'epoca in cui la signora Laurentini era sparita dal castello, « sapete voi quanto tempo sia che vostro padre ha reso al signor Montoni il servizio di cui mi parlate?
– Fu un po' prima che venisse ad abitare in questa casa; saranno circa diciotto anni. »
Era l'epoca in cui si diceva presso a poco che fosse sparita la signora Laurentini. Venne in mente ad Emilia che Marco avesse potuto servir Montoni in quell'affare misterioso, secondando forse un omicidio. L'orribile pensiero la piombò in angosciose riflessioni. Restò sola fino a sera, vide tramontare il sole, ed al momento del crepuscolo le sue idee furono tutte occupate di Valancourt. Riunì le circostanze relative alla musica notturna, e tutto ciò che appoggiava le sue congetture sulla di lui prigionia nel castello, e si confermò nell'opinione di averne udita la voce. Stanca d'affannarsi, si gettò finalmente sul letto, e cedè al sonno. Un colpo battuto all'uscio non tardò a svegliarla. L'immagine di Bertrando con uno stile alla mano, si presentò alla di lei immaginazione alterata. Domandò chi fosse. « Son io, signorina, aprite, non abbiate timore, sono la Lena.
– Che cosa vi adduce sì tardi? » disse Emilia facendola entrare.
– Zitto, signora, per l'amor del cielo, non facciamo rumore. Se ci sentissero, non me la perdonerebbero. Mio padre, mia madre e Bertrando dormono, » soggiuns'ella chiudendo la porta. « Siccome voi non avete cenato, vi ho portato uva, fichi, pane ed un bicchier di vino. » Emilia la ringraziò, ma le fece conoscere che si esponeva al risentimento di Dorina, quando si fosse accorta della mancanza dei frutti. « Riprendeteli, Lena, » le disse, « io soffrirò meno a non mangiare, che se sapessi doveste domani esserne sgridata da vostra madre.
– Oh! signora! non v'è pericolo, » soggiunse la Lena; « mia madre non può accorgersi di nulla, poichè è la mia parte di cena; mi fareste dispiacere ricusando. » Emilia fu talmente intenerita della generosità della buona fanciulla, che le vennero le lagrime agli occhi. « Non v'affliggete, » le disse la Lena; « mia madre è un po' viva, ma le passa presto. Non vi accorate dunque. Ella mi sgrida spesso, ma io ho imparato a soffrirla; e se mi riesce di scappare nel bosco, quando ha finito, mi scordo di tutto. »
Emilia sorrise, malgrado le sue lagrime, disse a Lena che aveva un ottimo cuore, ed accettò il dono. Desiderava molto sapere se Bertrando, Dorina e Marco avessero parlato di Montoni e dei suoi ordini in presenza di Maddalena; ma non volle sedurre l'innocente fanciulla, facendole tradire i discorsi de' suoi genitori. Quando se ne andò, Emilia la pregò di venire a trovarla più spesso che poteva, senza però mancare ai doveri di figlia; Lena lo promise, ed augurolle la buona notte.
Emilia per alcuni giorni non uscì mai di camera, e la Lena veniva a trovarla solo nel tempo de' pasti. La sua dolce fisonomia e le sue maniere interessanti consolavano la solitaria nostra eroina. In quest'intervallo il di lei spirito, non avendo ricevuta alcuna nuova scossa di dolore o di timore, potè giovarsi del divertimento della lettura. Ritrovò alcuni abbozzi, carta e matite, e si sentì disposta a ricrearsi disegnando qualche parte della magnifica prospettiva che aveva sott'occhio.
La sera d'un dì che faceva gran caldo, Emilia volle provarsi a fare una passeggiata, benchè Bertrando dovesse accompagnarla. Prese la Lena ed uscì seguita dallo scherano, che la lasciò padrona di scegliere la strada. Il tempo era sereno e fresco: Emilia ammirava con entusiasmo quella bella contrada.
Il sole all'occaso dorava ancora la cima degli alberi e le vette più alte. Emilia seguì il corso del ruscello lungo gli alberi che lo costeggiavano. Sulla riva opposta alcune bianche pecorelle spiccavano fra il verde. D'improvviso, udì un coro di voci. Si ferma, ascolta attenta, ma teme di farsi vedere. Fu la prima volta che riguardò Bertrando come il suo protettore; ei la seguiva davvicino discorrendo con un pastore. Rassicurata da questa certezza, si avanza dietro una collinetta; la musica cessò, e di lì a poco sentì una voce di donna che cantava sola. Emilia, raddoppiando il passo, girò dietro la collina, e vide un praticello coronato da alberi altissimi. Vi osservò due gruppi di contadini che stavano intorno ad una giovinetta, la quale cantava, tenendo in mano una ghirlanda di fiori.
Finita la canzone, alcune pastorelle si avvicinarono ad Emilia ed alla Lena, le fecero sedere in mezzo a loro, e le presentarono uva e fichi. Quella placida scena campestre la commosse oltremodo, e quando tornò a casa, si sentì lo spirito più calmato.
Dopo quella sera passeggiò spesso in compagnia della Lena, ma sempre colla scorta di Bertrando. La tranquillità in cui viveva, le faceva credere che non si avessero cattivi disegni su di lei; e senza l'idea probabile che Valancourt in quel momento fosse prigioniero nel castello, avrebbe preferito di restare colà fino all'epoca del suo ritorno in patria. Riflettendo però ai motivi che potevano aver deciso Montoni a farla passare in Toscana, la sua inquietudine non diminuiva, non essendo persuasa che il solo interesse della di lei sicurezza l'avesse deciso a condursi in questa guisa.
Emilia passò qualche tempo nella capanna prima di ricordarsi che, nella precipitosa partenza, aveva lasciato ad Udolfo le carte della zia relative ai beni della Linguadoca. Ciò le fece pena, ma poi sperò che il nascondiglio sarebbe sfuggito alle ricerche di Montoni.
CAPITOLO XXXIII
Torniamo un momento a Venezia, dove il conte Morano geme sotto il peso di nuove sciagure. Appena giunto quivi, era stato arrestato per ordine del Senato, e messo in una segreta così rigorosa, che tutti gli sforzi degli amici non riuscirono a saperne notizia. Egli non avea potuto indovinare a qual nemico dovesse la sua prigionia, a meno che non fosse Montoni, sul quale appunto fissavansi i suoi sospetti.
Essi erano non solo probabili, ma anche fondati. Nella faccenda della coppa avvelenata, Montoni avea sospettato Morano; ma, non potendo acquistar il grado di prova necessaria alla convinzione del delitto, ebbe ricorso ad altri modi di vendetta. Da una persona fidata fece gettare una lettera d'accusa nella bocca del leone, destinata a ricevere le denunzie segrete contro i cospiratori politici.
Il conte erasi attirato il rancore de' principali senatori; i modi altieri, la smodata ambizione faceanlo odiar dagli altri; non dovea dunque aspettarsi alcuna pietà da parte de' suoi nemici.
Montoni intanto faceva fronte ad altri pericoli. Il suo castello era assediato da gente risoluta a vincere. La forza della piazza resistè al violento attacco, la guarnigione si difese strenuamente e la mancanza di viveri costrinse gli assalitori a sgomberare. Quando Montoni si vide di nuovo pacifico possessore d'Udolfo, impaziente di aver ancora Emilia in mano, mandò a cercarla. Costretta a partire, la fanciulla, diè un tenero addio alla dolce Lena. Risalendo l'Appennino, fissò un luogo sguardo di rammarico sulla deliziosa contrada che abbandonava; ma il dolore che risentiva a dover tornare al teatro de' suoi patimenti, fu addolcito dalla probabile speranza di ritrovarvi Valancourt, benchè prigioniero.
Giunti a sera inoltrata, e senza tristi incontri, presso al castello, poterono scorgere al chiaro di luna i danni patiti dalle mura durante l'assedio. Anche i boschi avean sofferto: alberi atterrati, schiantati, spogli di frondi, bruciati, indicavano i furori della guerra.
Profondo silenzio era susseguito al tumulto delle armi. Alla porta, un soldato munito di lampada venne a riconoscere i viaggiatori, e li introdusse nel cortile. Emilia fu colta quasi da disperazione udendo rinchiudersi alle spalle quelle formidabili imposte che parevano separarla per sempre dal mondo.
Traversato il secondo cortile, trovaronsi alla porta del vestibolo; il soldato augurò loro la buona notte e tornò al suo posto. Intanto Emilia pensava al modo di ritirarsi nella sua antica stanza senza esser veduta, per paura d'incontrare sì tardi o Montoni o qualcuno della sua compagnia. L'allegria che regnava nel castello era allora talmente clamorosa, che Ugo batteva alla porta senza poter farsi intendere dalla servitù. Questa circostanza aumentò i timori di Emilia, e le lasciò il tempo di riflettere. Avrebbe forse potuto giugnere allo scalone, ma non poteva andare alla sua camera senza lume. Bertrando aveva appena una torcia, ed ella sapeva benissimo che i servi accompagnavano col lume solo fino alla porta, perchè il lampione sospeso alla vôlta illuminava sufficentemente il vestibolo.
Carlo aprì alfine la porta: Emilia lo pregò di mandar subito Annetta con un lume nella galleria grande dove andava ad aspettarla, e, salita la scala, sedette sull'ultimo gradino. Il buio della galleria la dissuase dall'entrarvi. Mentre stava attenta per sentire se venisse Annetta, sentì Montoni ed i suoi compagni, che, parlando tumultuosamente con gente ebbra, si dirigevano a passi barcollanti verso la scala. Obliando la paura, entrò colle braccia avanti nella galleria, sempre attenta alle voci che udiva dabbasso, e tra le quali distinse quelle di Bertolini e Verrezzi. Dalle poche parole che potè intendere, capì che si parlava di lei: ciascuno reclamava qualche antica promessa di Montoni. Dopo aver alcun poco altercato, sentì venir su gente, e si slanciò nella galleria colla rapidità del lampo. Percorse così alla ventura parecchi di que' vetusti anditi; finalmente riescì in uno d'essi in fondo al quale le parve vedere un filo di luce.
Mentre dirigevasi colà, scorse venirle incontro Verrezzi barcollante. Per cansarlo, si gettò in una porta che trovò a sinistra, sperando di non essere stata veduta; poco dopo, socchiuse l'uscio per cercar d'andarsene, quando un lume spuntò in fondo a quel corridoio, e riconobbe Annetta; le corse incontro, e questa, vedendola, le si buttò al collo con un grido. Emilia potè farle comprendere il suo pericolo, e recaronsi ambedue nella camera di Annetta alquanto distante. Alcun timore però non valse a farla tacere. « Oh! mia cara padrona, » diceva essa camminando, « quanta paura ho avuto! Ah! ho creduto di morire mille volte, e non sapeva se sarei sopravvissuta al fragor dei cannoni per potervi rivedere. Non ho mai provato in vita mia un contento maggiore quanto adesso che vi ritrovo.
– Zitto! » diceva Emilia; « siamo inseguite! »
Ma era l'eco de' loro passi.
« No, » disse Annetta, « hanno chiusa una porta.
– Facciamo silenzio per carità, e non parliamo più, finchè non siamo giunte alla tua camera. » Vi arrivarono finalmente senza sinistri incontri. La cameriera aprì, e Emilia si mise a sedere sul letto per riposarsi alquanto. La sua prima domanda fa se Valancourt era prigioniero. Annetta le rispose non poter dirglielo con precisione, ma esser certa ch'eranvi molti prigionieri nel castello. Poscia cominciò a sua guisa a fare la descrizione dell'assedio, o piuttosto il dettaglio di tutte le paure sofferte durante l'attacco. « Ma, » soggiuns'ella, « quando intesi sulle mura i gridi di vittoria, credei che noi fossimo stati presi, e mi tenni perduta; in vece avevamo scacciati i nemici. Andai nella galleria settentrionale, e vidi un gran numero di fuggitivi sulle montagne. Del resto poi si può dire che i bastioni sono in rovina. Facea spavento il vedere nel bosco sottoposto tanti morti, ammucchiati l'un sopra l'altro!… Durante l'assedio, il signor Montoni correa qua, là, era da per tutto, a quanto mi disse Lodovico. Per me, egli non mi lasciava veder nulla. Mi chiudeva in una stanza nel centro del castello, mi portava da mangiare, e veniva a trovarmi più spesso che poteva. Debbo confessare che, senza Lodovico, sarei morta, sicuramente.
– E come vanno le cose dopo l'assedio?
– V'è un fracasso terribile, » rispose Annetta; « i signori non fanno altro che mangiare, bere e giuocare. Stanno a tavola tutta notte e giuocano tra loro le belle e ricche cose, che hanno preso quando andavano al saccheggio od a qualcosa di simile. Hanno alterchi vivissimi sulla perdita e sul guadagno; il signor Verrezzi perde sempre, a quanto si dice: Orsino guadagna, e sono sempre in lite. Tutte quelle belle signore sono ancora qui, e vi confesso che mi fanno ribrezzo quando le incontro.
– Sicuramente, » disse Emilia sussultando, « odo rumore, ascolta.
– Oibò! è il vento. Lo sento spesso quando soffia più forte del solito, e scuote le porte della galleria. Ma perchè non volete coricarvi? credo non vorrete restar così tutta notte. »
Emilia si stese sul letto pregandola di lasciare il lume acceso. Annetta si coricò accanto a lei; ma la fanciulla non poteva dormire, e le pareva sempre d'intendere qualche rumore. Mentre Annetta cercava persuaderla ch'era il vento, udirono rumor di passi vicino all'uscio. La cameriera voleva scendere dal letto, ma Emilia la trattenne; si bussò leggermente, e si chiamò Annetta sottovoce.
« Per l'amor del cielo, non rispondere, » disse Emilia, « sta quieta. Faremmo bene a spegnere il lume, che potrebbe tradirci.
– Madonna! » sclamò la cameriera; « non resterei al buio adesso per tutto l'oro del mondo. » Mentre parlava fu ripetuto più forte il nome di Annetta. « Ah! è Lodovico, » gridò essa allora, e si alzava per aprir la porta; ma Emilia ne la impedì volendo prima assicurarsi se era solo. Annetta gli parlò qualche tempo, ed egli le disse che, avendola lasciata uscire per andare a trovar la padroncina, veniva a rinchiuderla di nuovo. Questa temendo di essere sorpresa se continuavano a parlare in quel modo, acconsentì a lasciarlo entrare. La fisonomia franca e buona del giovane rassicurò Emilia, la quale implorò il di lui soccorso, se Verrezzi lo avesse reso necessario. Lodovico promise di passar la notte in una camera attigua per difenderla da qualunque insulto, e, acceso un lume, se ne andò al suo posto.
Emilia avrebbe desiderato riposare, ma troppi interessi occupavano la sua mente: si vedeva in un luogo divenuto soggiorno del vizio e della violenza, fuori della protezione delle leggi, in potere d'un uomo instancabile nella persecuzione e nella vendetta; e riconobbe che resistere più a lungo alla di lui prepotenza sarebbe stata follia. Abbandonò pertanto la speranza di vivere agiatamente con Valancourt, e decise di ceder tutto a Montoni la mattina seguente, purchè le permettesse di tornarsene tosto in Francia. Queste riflessioni la tennero svegliata tutta notte.
Appena fu giorno, Emilia ebbe un lungo colloquio con Lodovico, il quale le raccontò varie circostanze relative al castello, e le diè alcune notizie sui progetti di Montoni, che accrebbero i suoi fondati timori. Gli dimostrò gran sorpresa perchè, sembrando così commosso dalla di lei trista situazione in quel castello non pensasse d'andarsene. Ei l'assicurò non essere sua intenzione di restarvi, ed allora essa rischiò a domandargli se volesse assecondare la sua fuga. Lodovico l'accertò ch'era dispostissimo a tentarla, ma le rappresentò tutte le difficoltà dell'impresa, giacchè la di lui perdita sarebbe stata certa, se Montoni li raggiungesse prima d'esser fuori de' monti. Promise nulladimeno di cercarne con premura l'occasione, e di occuparsi d'un piano di fuga. Emilia gli confidò allora il nome di Valancourt, pregandolo d'informarsi se fosse nel numero dei prigionieri. La debole speranza che le rinacque da questo colloquio, dissuase Emilia dal trattare immediatamente con Montoni; risolse, s'era possibile, di ritardare a parlargli fin quando avesse saputo qualcosa da Lodovico, e di non far la cessione se non quando le fosse riuscito impossibile ogni mezzo di fuggire. Mentre fantasticava così, Montoni rinvenuto dall'ubbriachezza, la mandò a chiamare; essa obbedì, e lo trovò solo, « Ho saputo, » diss'egli, « che non passaste la notte nella vostra camera; dove siete stata? » Emilia gli dettagliò le circostanze che ne l'aveano impedita, e le chiese la sua protezione per l'avvenire. « Voi conoscete i patti della mia protezione, » diss'egli; « se realmente ne fate caso, procurate di meritarvela. »
Quella dichiarazione precisa, che non l'avrebbe protetta se non condizionatamente, durante la sua cattività nel castello, convinse Emilia della necessità di arrendersi; ma prima gli domandò se le avrebbe permesso di partire immediatamente dopo aver firmata la cessione; egli le ne fece solenne promessa, e le presentò la carta, colla quale essa gli trasferiva tutti i suoi diritti.
Fu per qualche tempo incapace di firmare, avendo il cuore lacerato da opposti affetti; stava per rinunziare alla felicità della sua vita, e alla speranza che l'avea sostenuta in un sì lungo corso di avversità.
Montoni le ripetè i patti della sua obbedienza, osservandole che tutti i momenti erano preziosi. Essa prese la penna e firmò la cessione. Appena ebbe finito, lo pregò di ordinare la sua partenza e di lasciarle condur seco Annetta. Montoni allora si mise a ridere. « Era necessario ingannarvi, » diss'egli; « era l'unico mezzo per farvi agire ragionevolmente: voi partirete ma non adesso. Bisogna prima ch'io prenda possesso di quei beni; quando ciò sarà fatto, potrete tornarvene in Francia. »
La fredda scelleratezza colla quale ei violava il solenne impegno da lui preso, ridusse Emilia alla disperazione, conoscendo che il suo sacrifizio non le avrebbe giovato a nulla, e sarebbe rimasta prigioniera: non sapeva trovar parole per esprimere i suoi sentimenti, e capiva bene che ogni osservazione sarebbe stata infruttuosa; guardò Montoni con aria supplichevole, ma egli volse il capo, e la pregò di ritirarsi. Incapace di fare neppure un passo, ella si abbandonò sopra una sedia, sospirando affannosamente senza poter piangere, nè parlare.
« Perchè abbandonarvi a questo inopportuno dolore? » le disse Montoni; « sforzatevi di sopportare coraggiosamente ciò che ora non potete evitare. Non avete da lagnarvi di verun affanno reale; abbiate pazienza, e sarete rimandata in Francia. Intanto tornate alla vostra stanza.
– Non oso, signore, » rispose Emilia, « andare in un luogo ove può introdursi il signor Verrezzi. – Non vi ho io promesso di proteggervi? » disse Montoni. – Promesso! » ribattè Emilia titubando. – La mia promessa dunque non basta? » riprese egli severamente. – Rammentatevi della vostra prima promessa, » disse Emilia tremando, « e giudicherete voi stesso qual caso io debba fare delle altre. – Guardatevi dal farmi ritrattare le mie parole. Ritiratevi, voi non avete nulla da temere nel vostro appartamento. »
Emilia ritirossi a passi lenti, e quando fu giunta nella sua camera, esaminò attentamente se vi fosse nascosto qualcuno, chiuse la porta, e si mise a sedere vicino alla finestra. La misera avrebbe forse perduta la ragione, se non avesse lottato fortemente contro il peso delle sue sciagure. Invano sforzavasi di credere che Montoni l'avrebbe realmente rimandata in Francia, tostochè si fosse assicurato de' suoi beni, e che intanto l'avrebbe guarentita dagl'insulti. La sua speranza principale però era riposta in Lodovico; nè dubitava del suo zelo, malgrado la poca fiducia di lui stesso nella progettata evasione.
Questa trista giornata la trascorse come tante altre nella propria camera. Calò la notte, ed Emilia sarebbesi ritirata nella stanza di Annetta se un interesse più forte non l'avesse trattenuta: voleva attendere all'ora consueta il ritorno della musica, la quale, se non potea assicurarla positivamente della presenza di Valancourt nel castello, valea a confermarla nella sua idea e procurarle una consolazione sì necessaria nel suo attuale abbattimento.
La notte era burrascosa: il vento soffiava veemente; le ore passarono: Emilia udì appostar le sentinelle. Di lì a poco, una fioca melodia traversò l'aere; riconobbe il suono di un liuto accompagnato da' queruli accenti d'un uomo. Essa ascoltava sperando e temendo; ritrovò la dolcezza armoniosa della voce e del liuto, che già conosceva. Convinta che la musica partiva da una delle stanze sottoposte, si sporse in fuori per iscoprire alcun lume, ma indarno. Chiamò anche sottovoce, ma il vento impedì senza dubbio di udirla; la musica continuava. D'improvviso, udì battere all'uscio della camera, ed avendo riconosciuto la voce di Annetta, le aprì, invitandola ad avvicinarsi pian piano alla finestra per ascoltare.
« Gran Dio! » sclamò Annetta; « io conosco questa canzone: essa è francese, ed una delle ariette favorite del mio caro paese… È un nostro compatriota che canta e dev'essere il signor Valancourt. – Piano, Annetta, » disse Emilia, « non parlar sì forte; potremmo essere intese. – Da chi? dal cavaliere? – No, ma qualcuno potrebbe tradirci. Perchè credi tu sia Valancourt quello che canta? Ma zitto: la voce diventa più forte. La riconosci? – Signorina, » rispose Annetta, « io non ho mai udito cantare il cavaliere. » Ad Emilia spiacque assai che l'unico motivo di Annetta per credere ch'era Valancourt, fosse che il cantore era Francese. Poco dopo udì la romanza intesa alla peschiera, e il di lei nome fu ripetuto così spesso, che Annetta gridò ad alta voce: « Signor Valancourt! signor Valancourt! » Emilia tentò trattenerla, ma essa gridava sempre più forte; la musica cessò, e nessuno rispose. « Non importa, signora Emilia, » disse la ragazza; « è il cavaliere senz'altro, ed io voglio parlargli. – No, no, Annetta; voglio parlargli io stessa. Se è lui, riconoscerà la mia voce, e risponderà. Chi è, » gridò ella, « che canta così tardi? » Susseguì un lungo silenzio. Ripetè la domanda, ed intese fievoli accenti, i quali parevano venir sì da lontano, che non potè distinguer nessuna parola. Allora credè che l'incognito fosse Valancourt senz'altro, giacchè aveva risposto alla sua voce, e lusingandosi che l'avesse riconosciuta, si abbandonò a trasporti di gioia. Annetta intanto continuava a chiamare. Emilia, temendo allora di esser tradita nelle sue ricerche, la fece tacere, riservandosi ad interrogare Lodovico la mattina seguente.
Stettero ambedue qualche tempo alla finestra, ma tutto rimase tranquillo. Emilia, giubilante, camminava a gran passi per la camera, chiamando sottovoce Valancourt, e tornava quindi alla finestra, dove non udiva altro che il mormorio del vento tra le frondi. Annetta mostravasi impaziente quanto lei; ma la prudenza le decise infine a chiudere la finestra, ed andarsene a letto.