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Kitabı oku: «Storia delle cinque gloriose giornate di Milano nel 1848», sayfa 4

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In tal modo otteneva un altro intento; quello di gittare la diffidenza, che dissolve, nelle file de' rivoluzionarii. Questo fatto che ci viene attestato dagli storici contemporanei e dallo stesso Cattaneo nel suo Archivio triennale delle cose d'Italia, pur si riprodusse nel 1859, coprendosi di obblio le opere inique di vecchi impiegati di polizia, i quali, essendo state bruciate le carte che li riguardavano, potevano simulare con sfacciata impudenza d'esser stati liberali; comechè l'Austria promovesse facilmente a stipendio in polizia uomini che fossero liberali! Col lasciar false note invece di onesti cittadini, tentava snervar la forza del partito liberale. Il fuoco però che Torresani appiccò alle carte compromettenti, poco mancò che col suo fumo non soffocasse i poveri carcerati della polizia, i quali a squarciagola gridavano che si aprissero le finestre.

Torresani aveva poi impartito ordini iniqui che tristamente lo caratterizzavano; fra i quali vi fu quello dato al cavalier Paladini, direttore della Casa di correzione, di scarcerare i 460 detenuti che vi si trovavano e di armarli al meglio qualora si verificasse il caso di tumulti popolari; ritenendo anche con tal fatto di discreditare la rivoluzione per la natura de' suoi elementi, renderla diffidente e sospettosa, ed obbligarla a distrarre le sue cure dal moto politico onde sorvegliare gli uomini iniqui che, confusi nel popolo, non poteva conoscere; convinto Torresani infine che que' condannati approfittando della libertà, delle armi che tenevano, dello appoggio che loro accordava la polizia, dell'ignoranza che ognuno aveva intorno al loro vero essere, si sarebbero abbandonati agli assassinii, alle depredazioni, agli incendii e ad ogni altro delitto.

Ma il disegno di Torresani mancò di esecuzione in causa di rifiuto da parte del cavalier Paladini di prestarsi all'iniqua determinazione.

Erasi intanto diffuso fra i difensori delle barricate un canto di guerra di Luigi Carrer, e che noi riproduciamo come documento storico.

1
 
Via da noi, Tedesco infido,
Non più patti non accordi:
Guerra! Guerra! ogn'altro grido
È d'infamia e servitù.
Su que' rei di sangue lordi
Il furor si fa virtù.
Ogni spada divien santa
Che nei barbari si pianta;
È d'Italia indegno figlio
Chi all'acciar non dà di piglio,
E un nemico non atterra:
Guerra! Guerra!
 
2
 
Tentò indarno un crudo bando
Ribadirci le catene;
La catena volta in brando
Ne sta in pugno, e morte dà.
Guerra! Guerra! non s'ottiene
Senza sangue libertà.
Alla legge inesorata
Fa risposta la Crociata;
Fan risposta al truce editto
Fermo core, braccio invitto,
Ed acciaro che non erra:
Guerra! Guerra!
 
3
 
Non ci attristi più lo sguardo
L'abborrito giallo e nero;
Sorga l'italo stendardo
E sgomenti gli oppressor.
Sorga, sorga e splenda altero
Il vessillo tricolor.
Lieta insegna, insegna nostra
Sventolante a noi ti mostra;
Il cammino tu ci addita,
Noi daremo sangue e vita
Per francar la patria terra:
Guerra! Guerra!
 
4
 
È la guerra il nostro scampo;
Da lei gloria avremo e regno:
Della spada il fiero lampo
Desti in noi l'antico ardir.
È d'Italia figlio indegno
Chi non sa per lei morir.
Chi fra l'Alpi e il Faro è nato
L'armi impugni e sia soldato;
Varchi il mare, passi il monte,
Più non levi al ciel la fronte
Chi un acciaro non afferra:
Guerra! Guerra!
 
5
 
Dal palagio al tetto umile,
Tutto, tutto il bel paese
Guerra eccheggi, e morte al vile
Che tant'anni ci calcò.
Guerra suonino le chiese
Che il ribaldo profanò,
Vecchi infermi, donne imbelli,
Dei belligeri fratelli
Secondate il caldo affetto;
Guerra! Guerra! In ogni petto
Che di vita un'aura serra,
Guerra! Guerra!
 

IL 19 MARZO

La notte del 18 era stata piovosa;—l'alba del 19 portava il sereno: pareva che il cielo che aveva pianto alle terribili prove d'un popolo inerme, sorridesse di poi al successo che l'audacia, la perseveranza, i sacrifizii d'ogni genere non lascian mancare agli uomini forti.

Appena giorno le campane rintronarono per l'aere col lor cupo suono a stormo, e generale si diffuse per Milano il grido di: All'Armi!

Ed all'armi non mancò alcuno:—le fatiche, i disagi, le sevizie del Tedesco non avevano fiaccato animo alcuno:—tutti accorrevano sulle barricate nello stesso modo che nei corrotti momenti della pace accorrevano ai teatri, ai veglioni, alle feste! Grida di gioja si diffondevano: la gajezza era sui visi; la fermezza negli sguardi! Non tardò l'armonia del cannone a rispondere colla terribile sua voce alle canzoni patriottiche che si canterellavano preparandosi alla vittoria od alla morte:—ma il suo rombo percosse le orecchie, ma non scese punto al cuore a raffreddarvi l'ardore.

Frattanto il generale Rivaira, comandante dei gendarmi, veduto il Decreto d'O' Donell che affidava al municipio la gestione della polizia, mandò ad offrire al podestà i trecento gendarmi ch'erano in Milano. Quel reggimento unico di tal milizia nell'impero e riservato alla Lombardia e al Tirolo italico, nota Cattaneo, era assai rispettato dai popoli, e poteva inoltre fornire officiali. Ma il podestà che voleva mutare il governo senza disobbedirgli, voleva chiedere al Torresani, capo della polizia austriaca, colla seguente lettera, il permesso d'accettare l'offerta. E così se ne rimetteva a quella polizia medesima ch'era incaricato di scacciare e di surrogare. Certo che quel Casati avrebbe fatto volentieri una ribellione colla licenza dell'imperatore! Ajutanti di campo in questa manovra furono il conte Cesare Giulini e don Alessandro Porro. Non vi fu modo di persuadere Casati a desistere dalla sua accettazione condizionata. Egli parlava di legalità. «Io mi sono opposto, scrisse Cernuschi, quasi violentemente, ma senza frutto, all'ostinato proposito di non accettare l'offerto concorso della gendarmeria; testimonii il dottor Perini, il conte Giulini, don Alessandro Porro e un figlio del conte Casati9» Questa scena si compì nella camera da letto verso i giardini del conte Carlo Taverna, in casa sua.

La lettera era così concepita:

«Signor Delegato
19 marzo 1848, 7 e mezzo antim.

li generale Rivaira disse ai signori dottori Perini e Viglezzi ch'esso tiene la gendarmeria a disposizione del municipio e di Lei, incaricato della polizia in conseguenza del decreto del vice-presidente di governo. Questo è forse il migliore mezzo termine per venire a tranquillare la città, permettendo che si uniscano ai gendarmi alcuni cittadini per aumentare il numero della guardia, in modo che questi cittadini sieno dai medesimi guidati. Sono persuaso che il signor Torresani non vorrà fare opposizione a questo divisamento, che potrebbe condurre ad una soluzione pacifica. Io non posso muovermi dal luogo ove sono; la prego a prendere a petto la cosa; e portarsi da Torresani per convenire su questo punto, onde non nasca un'opposizione che guasti tutto. Il maresciallo Rivaira è disposto, eziandio mettere il corpo al completo immediatamente, coll'aumento di 300 uomini concessi. Affido al suo zelo questo affare importantissimo. Mi creda

Suo aff. serv. Gabrio Casati».

I commenti, vi aggiungeva un giornale d'allora10, sono superflui: mezzo termine; tranquillizzare: speranza che Torresani non vorrà fare opposizione: soluzione pacifica: convenire con Torresani.—Si mormorava: Tiene egli dunque il piede in due stivali? Basta; dico che la lettera fu lacerata.

»All'una paura altra succedeva più grande e attuale. Casati si ripose a tavolino, e torturato scrisse un nuovo biglietto con cui s'accettava la gendarmeria. Ma l'ora era avanzata. A sedurlo—bisognò logorare tutti i ferri del mestiere. E fu troppo tardi.—La lotta impegnata su tutti i punti, e le comunicazioni interrotte, divenne impossibile ogni corrispondenza, e quindi anche quella per l'accettazione della gendarmeria. Così noi dobbiamo riconoscenza al padre della patria, al conte Casati, d'una vittoria di più: abbiamo combattuto anche gli amici e fratelli della gendarmeria.»

Le truppe imperiali si diressero da prima verso Porta Comasina e verso S. Giovanni sul Muro, dove si diramarono in varii drappelli. Non potendo prender posizioni nell'interno della città, le truppe cercarono impadronirsi degli sbocchi principali delle corsie sino ai ponti sul naviglio. L'artiglieria fu spinta ne' borghi di P. Orientale, di Monforte e di porta Ticinese, nonchè pelle vie di Brera, della Cavalchina e del Baggio, aprendosi strada colla violenza, col terrore diffuso da crudeli atti e con numerosi arresti di cittadini che venivan tratti in Castello, sollecitandosi il lor passo con pugni e con punture di bajonetta.

La lotta incominciò ben presto: il cannone battette le barricate, ed, ove le rompeva, i fanti correvano alla bajonetta contro i male armati cittadini, li scannavano; mentre la cavalleria s'inoltrava a calpestare sotto le zampe de' cavalli i morenti e i morti. I cittadini non piegaron per questo: saliti alle finestre e sui tetti, di là battevan l'inimico coi sassi, colle tegole, colle fucilate: con grida festose rispondevano alla terribile voce del cannone; col nome d'Italia e di Pio IX sulle labbra morivan nel combattimento, non lagnandosi, ma animando gli altri a continuar la pugna. A tanto eroismo la forza bruta delle armi tedesche non resisteva: ma combattuti inesorabilmente, senza tregua, dalle barricate, per le strade, dalle finestre, dai tetti;—incalzati ove piegavano, raddoppiando i colpi mortali ove i soldati inoltravansi, urtati da cozzo terribile, decimati da fucilate che non erravan nella mira, dalle tegole che rompevano i cranii, dai sassi che ferivano ne' visi, i soldati vacillaron nel coraggio, dubitaron dell'esito, cominciarono a provar il terrore che la carneficina de' loro sollevava; cedettero, ritiraronsi;—in molti luoghi fuggirono;—e nella fuga non potendo provvedere alla salvezza dell'artiglieria, essendo subitaneamente assaltati dai cittadini chè osservavano la confusione e lo sgomento essersi impossessato de' soldati, restavano i cannoni agli insorgenti.

Mancata la gendarmeria al Municipio, non gli restarono de' corpi armati che le guardie di finanza e i pompieri; questi ultimi non armati però a' quei tempi di fucile.

Il difetto d'armi facendosi sentir troppo fortemente, non si lasciò intentato mezzo qualsiasi onde procurarsele, non badando se fossero da taglio o da fuoco, vecchie o nuove. Persino le private gallerie d'armi vennero spogliate; fra le quali quella in contrada Pantano, appartenente ad Ambrogio Uboldo; la quale costituiva il più bel monumento del medio evo, e che veniva visitata da ogni forastiero. Ma la patria prima di tutto e sopra tutto! e il sacrificio fu consumato.

Nè l'Uboldo, che amava come parenti quelle reliquie d'un'età remota, si dolse del gravoso sacrifizio che la patria gli domandava, e volonteroso cedette le armi al bisogno imperioso della sua terra … Furon pure spogliate le sale d'armi antiche e moderne (di molto valore) di Pezzoli, l'armeria degli I. R. Teatri, ecc.

Difettose eran l'armi da fuoco all'uso della guerra, ma difettose ben più eran le munizioni; in un momento però si cercò provvedervi nel modo e colle forze che si avevano. Il chimico Calderini, in casa Borromeo, altri in casa Calvi, in Bocchetto, fabbricavan polvere: lo speziale Ballio, alla corsia della Palla, preparava cotone fulminante e buona polvere. Altrove fabbricavansi palle. Il tutto distribuivasi poi ai combattenti.

Distinzioni sociali non dividevano il popolo: il ricco fraternizzava coll'operajo: ognuno attendeva colle provvisioni che aveva a preparar cibi pei combattenti non solo, ma pelle famiglie loro ben anco.

Il Codice penale era scritto sui muri: MORTE AI LADRI! MORTE ALLE SPIE! E la rivoluzione di Milano si mantenne illibata da ogni rapina, da ogni furto: si invadevano i pubblici uffici onde prenderne possesso: ma nulla si toccava, niuno osò mai appropriarsi il valore di un soldo. Anzi moltissimi sono gli esempi di valori ritrovati da poveri operai e scrupolosamente consegnati all'Autorità.

Il sentimento religioso rafforzava gli animi nello sfidar la morte, perchè la rivoluzione era stata benedetta dal pontefice Pio IX e dall'arcivescovo di Milano. Il clero lombardo dimostrò sentimenti eminentemente liberali, e si prestò come ogni altro cittadino in que' supremi bisogni della patria. Ciò valga a sbugiardare coloro che gridan la croce contro il clero in genere, senza distinzione di reazionarii e di veri ministri di Dio. Ci basti citare alcuni nomi di questi per suffragare la nostra asserzione. Giovanni Besesti, coadjutore nella parrochia di S. Calimero, animava i combattenti alla pugna e raccoglieva i feriti nei luoghi ove più accanita disputavasi la lotta di sangue. Giuseppe Volonteri, cappellano di S. Celso, ajutò a scacciare i Croati dalla caserma di S. Apollinare. L'abate Malvezzi non curò i pericoli delle fucilate nel soccorrere i feriti e nel sorvegliar la costruzione delle barricate. Il canonico Vimercati ed i sacerdoti Groppetti, Airoldi, Zerbi, Marcionni, Mauri, Bianchi e molti altri condivisero col popolo la difesa delle barricate. I sacerdoti Carlo Ferrario, Lorenzo Denna e Ambrogio Decio consacraronsi a ricoverare le famiglie fuggenti dalle case devastate dal cannone tedesco, ed a provvederle di pane. Il sacerdote Lattuada si consacrò alla cura de' feriti. Nella contrada di S. Romano, allorchè gli Austriaci s'accinsero ad atterrare le porte di casa Tinelli, un canonico di S. Babila fece schioppettate contro i militari, uccise l'ufficiale che li comandava e li obbligò a ritirarsi. I seminaristi risposero all'appello della patria col trasportare in strada i loro letti, cassettoni, orinaliere ed ogni altro mobile, costruendo fortissime barricate al largo di Porta Orientale, e ponendovisi poscia a difenderle.

Gloriosi esempii di amore, di sacrifizii, di coraggio diedero pure le donne.

La marchesa di Lajatico Rinuccini e la sposa di Giorgio Trivulzio con altre signore si consacrarono in modo ammirabile a curare i feriti, senza risparmio di sacrifizii e di disagi. In casa Borromeo molte donne si erano dedicate a liquefar piombo ed a convertirlo in palle. Altre donne, anche dell'aristocrazia, attendevano con amore e con entusiasmo a preparar filacce e bende; altre, più coraggiose, correvan per le vie devastate dalla mitraglia tedesca a portar soccorsi a' bisognosi. Anche le suore di carità consacravano il tempo che sopravvanzava alla cura de' feriti nello fonder palle. Due popolane si distinsero molto. Luigia Battistotti, nativa di Stradella, d'anni 24, ed abitante in Milano alla Vettabia, fu la prima a costrurre barricata nel suo quartiere: strappata ad un soldato la pistola che impugnava, intimò ad altri cinque d'arrendersi e li fece prigionieri: deposta quindi la gonna, e indossati abiti della compagnia dei fucilieri volontarii sotto il comando di Bolognini, impugnò il fucile e furiosamente combattette, e sempre apparve nelle prime file ove maggiore si presentava il pericolo; e per cinque giorni non abbandonò le armi, nè la pugna.—Giuseppina Lazzaroni, giovanetta delicata, si sottrasse ai parenti mentre più ardeva la pugna, impugnò un fucile e, accompagnata dal fratello Giovan Battista, portossi a Porta Comasina, ove il nemico, numeroso e ben provveduto di artiglieria, manteneva ardente fuoco di fucileria e dei grossi pezzi; là ella affrontò le palle e la mitraglia nemica ed operò prodigiosi fatti di valore. Anche fuor di Milano si dimostrarono amazzoni valorose, fiere spartane; in Acquate Angela Martelli volò al soccorso di Milano con altre quindici donne.

Le barricate improvvisate nel dì precedente, aumentarono considerevolmente nel 19 di marzo e si rafforzarono. Ogni cosa servì alla loro costruzione: carri, carrozze private e di corte, diligenze, letti, casse, panche da chiesa, tavole, sedie, pagliaricci. A Porta Tosa si fecero delle barricate mobili con immensi rotoli di fascine, il cui disegno si dovette a Carnevali Antonio, già professore di matematica e strategia alla scuola militare di Pavia sotto il primo regno italiano, e ch'era stato in que' giorni di rivoluzione nominato alla direzione delle fortificazioni campali: queste barricate cilindriche avevano due grandi vantaggi; per la loro forma eran mobili, potendosi far rotolare in avanti e in dietro; per la connessura di infinite minime parti assumevano una tale elasticità da togliere ogni forza alle palle non solo di fucileria, ma ben anche di cannone: l'incarico di ridurre in esecuzione queste barricate mobili suggerite dal Carnevali, fu affidato al pittore Gaetano Borgocarati. Tra coloro che più meritarono dal paese per l'opera prestata nelle costruzioni delle barricate, non possiam passar sotto silenzio i seguenti: il piemontese Valenzasca, il pittore Bareggi, l'ingegnere Tarantola, il geometra Lilliè, i fratelli Carentico, i seminaristi Giulio Rimoldi, Rosa Verza, Candiani Luigi, Alessandro Ponzoni, e Valentini Gottardo.

In quel giorno cinquecento cittadini milanesi di vita intemerata e d'alti natali, oltre a molti di provincia, vennero arrestati.

Le disposizioni d'offesa da parte dei Tedeschi erano terribili e disposte per tutta la città: le riassumeremo in breve. Fuor di Porta Romana eranvi due cannoni mascherati onde mitragliare l'inerme popolazione che si radunasse sul corso omonimo, e che a' que' giorni era stato ribattezzato per corso Pio, a memoria di Pio IX.—Il palazzo reale e quello di Piazza Mercanti erano ben presidiati, e vi avevan cannoni a lor difesa. Il primo circondario di polizia, esistente sulla piazza Mercanti, fu preso a viva forza dal popolo inferocito nella pugna. La Direzione generale di Polizia era ben presidiata e difesa; ma fu vinta dalle armi popolane: si cercò di Bolza e di Torresani, ma non si scoversero allora.

Dei cannoni di Piazza Mercanti, uno era collocato al posto della Gran Guardia, l'altro all'uscita della piazza verso i Ratti; essi non ozieggiavano ma vomitavano continuamente enormi palle devastatrici. I soldati di fanteria, appiattati a tre a tre nelle porte delle contrade degli Orefici, dei Ratti e dei Fustagnari, sortivano di tanto in tanto a far fuoco. Quelli del popolo che avevano armi da fuoco in quel luogo, si posero a bersagliar di preferenza i cannonieri, ed anzi, preparatisi a dar l'assalto ad un cannone, dopo avervi ucciso tre artiglieri lo presero. Alle 12,30 ne davan quindi avviso al popolo col seguente affisso onde rinfrancare il lor coraggio:

Cittadini!

«La vittoria è sicura—due cannoni presi a piazza de' Mercanti e a Porta Ticinese. Il nemico in fuga a porta Orientale, a Borgo Monforte e a Porta Nuova. Como è armata, Crema parimenti, Bergamo marcia in nostro soccorso. A Magenta vi sono i Piemontesi. Gli amici aumentano per ogni parte; introduceteli in città e avrete armi e munizioni. Il nostro quartier generale è organizzato, la Guardia nazionale in attività.

«Continuate a suonare a stormo»

Dal Broletto i soldati, che vi stanziavano, coi loro obizzi e mortai mantenevano vivo fuoco per la contrada di S. Maria Segreta, gettando bombe e piccoli razzi incendiarii. Contro di loro stava una barricata, formata di cassoni, posta di contro alla farmacia Ravizza; dietro la barricata il popolo si difese strenuamente per l'intiera giornata.

A porta Nuova il combattimento ferveva accanito, e fu uno dei principali in quella rivoluzione. Vi si segnalorono grandemente alcuni che la storia deve registrare; e noi ne registriamo uno che più vi si distinse. Egli fu Augusto Anfossi, nato a Nizza nel 1812, esule nel 1831 in Francia, che quindi in Egitto militò negli eserciti d'Ibraim Bascià e ne uscì colonnello: passato quindi nel commercio a Smirne, prosperò, e la prosperità sarebbe sempre cresciuta se le notizie dei moti d'Italia non avessero parlato al suo cuore, e suggerito alla sua volontà di far ritorno in patria ad aiutarla. Egli si pose communicazione coi patrioti di Piemonte, della Liguria e della Lombardia, e capitò in Milano pochi giorni prima della rivoluzione. Allorchè questa scoppiò, egli fu destinato in prima a organizzar la guardia civica e quindi a comandar tutte le forze attive della rivoluzione: agli archi di Porta Nuova, monumento della sconfitta di Barbarossa, respinse un drappello di granatieri ed un cannone, ed ivi arditamente vi piantò, baciandola, la bandiera tricolore: in seguito, nell'assalto del Genio, avvenuto nel 21 di marzo, appuntato un cannoncino alla porta principale di esso, nell'atto che la sfondava, fu colpito in fronte da una palla di moschetto; morì quindi nel quarto giorno della rivoluzione, come Epaminonda, lieto della vittoria de' suoi: morì invocando Dio e la patria.—

A porta Orientale tre volte il Tedesco arditamente si spinse verso S. Damiano, e per tre volte fu arditamente respinto e ricacciato lontano: l'entusiasmo eravi grandissimo: una palla di cannone avendo portato via tutta una gamba ad un ragazzo di 12 anni, egli sclamò: Benedetti coloro che muojono per la patria!

A Porta Comasina gravi fatti si deplorarono. In quel dì di domenica essendosi molte persone recate ad assistere alla messa che celebravasi nella chiesa di S. Simpliciano verso le ore 9 e mezzo, durante la celebrazione udironsi fucilate per di fuori: eran esse dirette contro coloro ch'entravano od uscivano dalla chiesa. Il prevosto Carlo Ferrario cercò allora persuadere i fedeli a non uscir di chiesa, onde sfuggire alle fucilate; ma un tal Luigi Bocciolini, avendo a casa quattro teneri figli, in lui più che il timor di propria vita prevalendo l'amor paterno, volle uscire per recarsi a provvedere di cibo i figli, perchè egli era vedovo: ma presentatosi appena sulla porta della chiesa, una palla gli traforò il braccio destro, che l'obbligò a ricoverarsi di nuovo in chiesa.

Le fucilate contro il tempio però aumentarono, e s'udì pur anco lo scoppio di due bombe. Tutti eran spaventati, giacchè in quel luogo vi si trovavano 131 persone assediate, alle quali l'uscirne equivaleva a certa morte: si pensò allor a provvedere di nutrimento tutta quella gente e col mezzo di segnali dalle finestre si fece conoscere quanto avveniva, e da fornai di altro luogo si fecero trasmetter pane che fu distribuito e mangiato nella chiesa. Là vi rimasero tutti que' popolani sino alle ore 4 pomeridiane, nella qual ora potettero di soppiatto a poco a poco riparare nelle proprie case perchè la truppa era stata impegnata altrove in combattimento.—Nella mattina stessa che avveniva il fatto a S. Simpliciano, anzi qualche ora prima, una pattuglia di circa cento soldati avviandosi dalla Foppa al Magazzeno delle Proviande (Forni militari) onde provvedersi di pane, cercavano spazzar la strada con frequenti fucilate; se non che, giunti a metà della contrada, vennero colpiti da un grandinar di tegole che li obbligò a fuga. Quel fatto invendicato li indusse a ritornarvi alla sera di quel giorno, cominciando lor vendette sugli abitanti della casa che trovasi all'angolo della contrada. Diedero prima il sacco; poi incendiaron due botteghe; abbrucciarono vive tre donne; indi fecero prigionieri tre giovani, i quali, trascinati sui vicini spalti, li attaccarono legati insieme ad una pianta, e quindi, scostatisi que' soldati alquanto, si posero a scaricare le armi contro quegli infelici, che servirono de' loro corpi di bersaglio per una buon'ora a quegli uomini efferati; quindi, semivivi, li lasciarono in una crudele agonia fino alla mattina seguente, in cui furon trovati dagli altri cittadini che li liberaron dai legami di cui eran stretti; potendo così quegli infelici terminare il martirio loro coi conforti della religione11.

Altri luttuosi fatti registra la cronaca del Tettoni, che noi riproduciamo integralmente onde non scolorirne il valore storico dato da chi registrò i fatti al momento. Alle 6 pom., nella casa al N. 2047, entrati i soldati, dopo di aver saccheggiato e rovinato tutto nelle abitazioni dei diversi inquilini che si erano salvati colla fuga, passarono al piano superiore, ove sgraziatamente si trovavano in casa un certo Giovanni Roncari, accenditor di lampade del comune, uomo onestissimo, colla moglie Giuseppa Zamparini, una figlia ed un loro conoscente, per nome Paolo Murari, lavoratore in seta, ancora nubile. Essi si raccolsero fra il letto e il muro; ma, appena entrati i soldati nella camera, i due uomini caddero a terra trucidati, e la moglie e la figlia si ebbero busse e maltrattamenti. Svaligiaron quindi la camera di quei pochi risparmi della famiglia, di alcuni arredi preziosi della moglie, di tutta la biancheria, e se ne partirono. La moglie disperata si pose accanto all'agonizzante corpo del marito, e si diede ogni cura per adagiarlo sopra alcuni cuscini, onde meno tormentosi gli riuscissero gli ultimi momenti della vita.

Ma, rientrati alcuni soldati in quella camera, martoriarono di nuovo il semivivo Roncari, e con inaudita barbarie afferrarono la mano della moglie ridotta quasi fuor di sensi per la disperazione, e, maltrattandola, la costrinsero di strappare al marito le cervella che per le ferite gli uscivano dal volto:—essa quindi cadde svenuta a tanta oltraggiante barbarie!…

Altrove, ma sempre in quel rione, ad un popolano dopo essersi battuto disperatamente e aver uccisi e feriti molti del reggimento Kaiser, venne portato via, combattendo, il dito anulare della mano sinistra: nel mentre gli si fasciava strettamente la ferita non emise un gemito; ma, fasciata che fu, continuò a combattere, mostrando il suo dito ai circostanti, e accompagnando quell'atto colle parole: Una testa-di-legno mi ha fatto saltar via questo povero dito cui tutto ilare riponeva in saccoccia12.

Sulla piazza del Carmine cadde una bomba: tutti si diedero alla fuga, temendone lo scoppio; la miccia appiccatavi metteva vivide scintille mano mano che abbruciava, avvicinandosi al pertugio; quand'ecco un popolano, mal conformato di gambe, ma pieno d'ardire, lanciarsi d'improvviso vicino alla bomba, e, cadendovi sopra col corpo, soffocare e spegnere la medesima13.

A porta Tosa gli attacchi furon gagliardissimi sin dall'alba per parte del popolo: verso le ore 10 ant. gli abitanti dei sobborghi tentarono di sorprendere e prendere la polveriera detta della Bicocca; il colpo non avrebbe fallito se Giuda non avesse venduta per poche monete la patria; imperocchè il conduttore della birraria situata sul bastione suggerì alla truppa di entrare nel suo negozio, come luogo che si presentava il più adatto a difendere la polveriera ed a scacciar gl'insorti borghigiani: ciò che si effettuò e la polveriera fu salva! ad onore però del nome italiano dobbiam notare che quel Giuda era un originario tedesco, calato dalle nevose sue contrade per arricchirsi nel nostro paese, e poi … e poi tradirlo!…

Verso mezzodì arrivò da porta Romana un pezzo di artiglieria scortato da dodici uomini di cavalleria, e si piazzò a porta Tosa: la pugna era accanita: un colpo di cannone colpì il campanile di S. Pietro in Gessate, ma non l'atterrò.—Più tardi arrivarono a porta Tosa altri due cannoni, i quali vennero piazzati avanti la birraria, aprendo tosto il lor fuoco: verso sera la mischia si rallentò, e i popolani s'approfittaron delle tenebre per restaurare le barricate, rinforzarle con nuove opere, e prender posto nelle vicine ortaglie.

A porta Ticinese un fatto d'arme al tenente delle guardie di Polizia al ponte delle Pioppette procurò armi e munizioni al popolo.—Alla Vettabbia si combattette per alcune ore contro soldati del reggimento Reisinger, cinque dei quali furon fatti prigionieri per opera di una donna; della Battistotti di cui abbiam già parlato.—A S. Calocero cento soldati che stavano a guardia della casa Orelli, in cui alloggiava il lor colonnello, tennero vivo per tutto il giorno il fuoco di fucileria: il popolo, nel dar loro l'attacco, potette togliere ad una compagnia di soldati due forgoni carichi delle robe del colonnello e il cavallo carico di munizioni da guerra destinate ai cento soldati di guardia alla casa Orelli: l'ufficiale fu ferito e steso al suolo, diversi soldati rimasero feriti, gli altri fuggirono: fra que' popolani combattenti si distinsero Giacomo Colombo, Borletti, e Biancardi.—Altrove in porta Ticinese si distinse molto anche Giovanni Onetti che pugnò disperatamente tutto il giorno.

A porta Vercellina (ch'era quella che oggi chiamasi porta Magenta) pur vi si combatteva. Nella contrada di S. Vicenzino, e precisamente ov'essa forma angolo coi Cavenaghi, venne costrutta una barricata; e l'opera costò molte fatiche e molto sudore, per la ragione che dal Castello i soldati tiravano fucilate continuamente. Nella costruzione vi si adoperarono cestoni di vimini, i quali venivan man mano riempiuti di ciottoli e sostenuti colle lastre di granito dalla strada, che si erano levate appositivamente.

Il davanti venne foderato con terra e con sacchi ripieni di cascami di bozzoli. Per ultima operazione fu legata insieme con grosse catene di ferro. Verso le ore tre pomerediane i Tedeschi appostarono contro la barricata due cannoni e vi diedero fuoco: ciò non intimorì i difensori della barricata, che al grido di W. L'Italia! W. Pio IX sostennero intrepidi l'urto, ed obbligarono il nemico a ritirarsi. Non aveva però egli dismesso il pensiero di ritentarne l'assalto: infatti verso le ore sei pom. egli vi ritornò e ritentò l'assalto battendo prima in breccia coll'artigliera; rimanendovi però frustraneamente sino alle ore 7 e mezzo. Numerati i colpi mandati a questa barricata, si rilevò che dovettero essere 84.—A S. Vittore, verso le ore 2 pom., in una casa del Borgo delle Oche cinque cittadini appiattativi essendo stati scoperti da una pattuglia, furon percossi coi fucili, poscia mutilati, e infine barbaramente trucidati.

Il console di Francia nel conoscere gli atti barbari commessi dai soldati tedeschi, e comprendendo quanti danni avrebbe arrecati ai suoi connazionali un generale bombardamento, del resto parzialmente incominciato, stese la seguente protesta che verso le ore tre e mezzo del 19 marzo spediva a tutti gli altri consoli esteri residenti in Milano, da dirigersi a Radetzky, e che ottenne le adesioni che riscontriamo dalle firme appostevi.

«Signor Maresciallo

«Ci venne detto che l'Autorità militare ha minacciata la città di un bombardamento: se, il che non possiamo credere, dovesse essere adottata una tale misura estrema in una città di 160,000 anime, in una città ove risiede un sì gran numero de' nostri patriotti, noi saremo obbligati, signor Maresciallo, di protestare verso V. E. in nome dei nostri Governi, contro un atto di tal sorta.

«In ogni caso, facciamo conto abbastanza sulla vostra giustizia ed umanità per sperare che V. E. ci farebbe avvertiti e ci accorderebbe il tempo necessario di poter mettere i nostri nazionali e le loro proprietà al sicuro dei danni a cui potrebbero trovarsi esposti; come si farebbe certamente in simile caso verso i sudditi austriaci nei nostri rispettivi paesi.

«Aggradite, ecc.

«Milano, 19 marzo 1848.

«Firmati: Ferd. Dunois, Console generale di Francia—Cav. Gaet. Deangeli, Console generale di Sardegna.—De Simone, Console generale dello Stato pontificio.—Raymond, Console generale della Svizzera.—Cambel, Vice-console inglese.—Valerio, Console del Belgio.

«A sua Eccelenza il Maresciallo Radetzki

Nella giornata del 19 perdette la vita Giuseppe Broggi. Egli era nato in Milano in via della Spiga nel 1814 ed ebbe educazione comforme allo svegliato suo ingegno. Bollente di carattere, credette che la carriera militare meglio d'ogni altra si confacesse alla sua indole, ed entrò nella milizia. Il disinganno gli mietette ben tosto l'illusione preconcetta, comprendendo dalla triste esperienza dei fatti che gli eserciti non sono altro ne' paesi non liberi se non stromento di tirannide e nulla più: che la organizzazione stessa della milizia è diretta ad invilire lo spirito umano, distruggendo le affezioni di famiglia, di amicizia, di patria, per sostituirvi un ridicolo spirito di corpo, che si risolve in ultima analisi a far degli uomini tante macchine e null'altro, tanti strumenti e nulla più del capriccio di un regnante. Abbandonò quindi la milizia e ricoverossi in Francia, ove si assoldò; sperando in quel paese una politica più libera, non essendosi ancora convinto che i governi tendon più spesso all'assolutismo che non a liberi sensi, e gli eserciti non esser altro che le stampelle su cui sorreggonsi. Militò egli quindi per la Francia in Africa, ove tenne alto il nome italiano acquistandosi diploma di prode con sette ferite. Egli era triste però in strania terra, il cuore si volgeva alla sua patria, alla sua famiglia, a' suoi amici:—sperò clemenza nel reggitor del suo paese,—troppo facilmente cullandosi di nuovo in fallaci illusioni;—e tornò!—ma tornato che fu, trovò rinnovarsi il disinganno che gli mietette le speranze preconcette,—e pagò la pena della troppo facil fede col venir arrestato e condannato … Languì per sette mesi colla catena ai piedi in Castello,—quindi coll'oro e colle raccomandazioni degli amici rivide la libertà … Il passato gli si era scolpito nella mente,—e non lo dimenticò più … La condotta dell'Austria gli generò nel cuore il sentimento dell'odio,—e odiolla sempre di poi … Venuto il dì delle prove, egli non mancò all'appello della patria sulle barricate, sui tetti, colle parole animando gli altri, colla fermezza dello sguardo contenendo i dubbiosi, colla valentia nel tiro della carabina aprendo molti vuoti nelle file austriache nella rivoluzione del 1848. Ove fervea accanita la pugna non vi mancò il Broggi; nè la sua carabina sciupava polvere e piombo inutilmente: i suoi colpi eran sempre sicuri!

9.Dichiarazione di E. Cernuschi, nel N. 28 dell'Operajo del 17 giugno 1848.
10.Giornale L'Operajo, nel N, 38 del 1 luglio 1848.
11.Tettoni, Cronaca della rivoluzione di Milano, Milano 1848 edit. Wilmant.
12.Tettoni, opera citata.
13.Milano nelle cinque memorabili giornate, pag. 12.
Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 haziran 2018
Hacim:
156 s. 11 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain