Kitabı oku: «Storia delle cinque gloriose giornate di Milano nel 1848», sayfa 6
L'intrepidezza, l'audacia, la fermezza spesso atterriscon più che il numero: questo fu l'effetto morale prodotto sul presidio del Comando militare, il quale tentò con perfida arte trarre i giovani guerrieri in agguato. Sulla porta del palazzo militare comparve un ufficiale con bandiera bianca, chiedendo pace; ma essendosi uno degli insorgenti presentato a parlamentare, conobbe tosto l'insidia ordita, e gridò al tradimento. E quel grido diffondendosi pella contrada, echeggiando per cento labbra, pose gl'insorgenti in guardia. Nè si sbagliaron essi, poichè ben tosto sbucava truppa dalla contrada dei Fiori, aprendo vivo fuoco di fucileria; ma senza frutto.—Nello stesso dì, verso le ore 3.30, un drappello di soldati sfondò le porte dell'antica osteria di Brera, situata sull'angolo che quella contrada fa con quella del Monte di Pietà, ed entrativi, misero tutto a sacco e ruina sotto il comando del proprio colonnello.
A porta Comasina (ora porta Garibaldi) un maggiore degli ungheresi tentò sorprendere la buona fede del popolo colla solita menzogna di sospensione d'armi, ed agitando in aria un fazzoletto bianco nel mentre si avanzava al Ponte Vetro, assicurò aver ordinato anche altrove a' suoi di sospendere il fuoco, e propose di recarsi alcuno con lui in Castello per un accomodamento. Il sacerdote don Pietro Mauri, della parrochia di S. Tommaso, si presentò al maggiore e si offerse a parlamentario di pace; ma più non ritornando, si arrestò una guardia di polizia e si notiziò la truppa che la si sarebbe scannata se non ritornava il prete; e la minaccia valse, giacchè poco dopo ricomparve don Pietro Mauro, dichiarando ch'erasi ordito tradimento. Tradimento che si tradusse ben presto in atto con un ben nudrito fuoco di moschetteria da parte della truppa e con frequenti colpi lanciati di spingarda.
Atroce fatto, narra Tettoni, successe nella casa di certo signor Torelli, verso S. Marco, nella quale tenevasi osteria. Gli Austriaci sforzarono la porta, ed, entrati, uccisero il cuoco ed altre tre persone dopo averle martirizzate in ogni modo; poi, arrostiti vivi due bambini e cacciata nel ventre ad una donna incinta a varie riprese la bajonetta, diedero fuoco alla casa, ritirandosi quindi nel palazzo del Generale Comando18. Non facciamo commenti: riproduciamo la notizia e basta!
A S. Bernardino alle Monache (ora via Lanzone) la caserma omonima che acquartierava le guardie di polizia cedette al valor degli insorgenti, i quali, esposti ad un grandinar continuo delle palle nemiche, riuscirono a dar fuoco alla porta del quartiere. Le guardie però che ritrovavansi al Circondario di polizia di S. Simone, vedendosi a mal partito, spiegarono bandiera bianca e, simulando di fraternizzar col popolo, scaricaron poscia i loro fucili verso il popolo ingannato.
Il cannone non cessava mai di tuonare dal dazio di porta Ticinese tanto verso il ponte, come dal bastione verso Viarenna. Però le palle non arrivavano sino all'ortaglia delle monache; fu per ciò che il lattivendolo G. Meschia con pochi suoi compagni potettero appostarsi nella contrada delle Vetere; dalla quale con carabine di precisione fulminarono i cannonieri che stavano al dazio; e furon sì aggiustati i colpi, che non uno andò fallito, in modo che mano mano che gli artiglieri avvicinavansi al cannone per darvi fuoco, essi cadevano colpiti dai tiri di quegli animosi.
Altri soldati penetrarono nel borgo di Viarenna (oggidì Via Arena) e di là nella stretta Calusca, ove abbandonarono al saccheggio quelle case e vi commisero ogni sorta di orrori. Là vi trucidarono pure tre cittadini che furono: Giuseppe Gambaroni, d'anni 58 circa, venditor di rotelle di corteccia, (in milanese robiœul); Antonio Piotti, d'anni 28, fabbro ferrajo; e Giuseppe Belloni, cuojajo; i quali, tratti in una vicina ortaglia, dopo averli straziati in ogni modo, moribondi li copersero di paglia a cui appiccaron fuoco; semivivi abbruciandoli, e respingendo nelle fiamme chi tentava sottrarvisi.
Nella caserma di S. Eustorgio si trovò una panca su cui eravi sangue raggrumato, e sotto la panca vi si osservò un paja di scarpe civili. Ciò tutto induceva a ritenere l'esistenza di un assassinio.
Nel vicolo del Sambuco vi si rappresentarono nuove scene di orrore. I soldati che passavano sul vicino bastione si vedevano ridotti a bersaglio di un fuciliere nascosto in una casa esistente nel vicolo del Sambuco; e i colpi non erravano in quell'umano bersaglio, ma tutti miravano giusto! I soldati allora precipitaron dal bastione nella casa ove ritenevano partire i colpi, e, penetrati nell'osteria della Palazzetta, vi pretesero da mangiare e da bere, vi ferirono l'oste e sua moglie; quindi gli abbruciarono.
In tutta la giornata però non vacillò il coraggio de' cittadini, ma nelle prove s'assodò, si rinforzò, dilatossi. Siccome però il popolo doveva invadere pubblici edificii per scacciarne il nemico; e doveva poi anche custodire le proprietà devolute alla patria, così venne pubblicato il seguente proclama
Cittadini
Si pregano istantemente tutte le Guardie Civiche di prendere sotto la loro immediata protezione tutti i pubblici stabilimenti e tutti gli oggetti che vi si tengono, e sopratutto le carte che possono essere preziose per le famiglie.
D'ora in poi tutte le cose che erano del Governo son nostre. Dunque conserviamole.
Ordine e Concordia
Nel chiudere la storia di questo giorno non possiamo sottacere che durante la giornata la Congregazione aveva cominciato a presentarsi sotto forma di Governo Provvisorio, Uno de' suoi proclami fu il seguente:
Cittadini
Uomini coraggiosi hanno superate le mura della città e ci hanno recate notizie delle campagne, e lettere scritte alle porte. Pavia è insorta e chiuse il nemico nel castello. Anche a Bergamo il presidio si è arreso col generale, figlio dell'ex-Vicerè. Evviva ai nostri fratelli di Pavia e di Bergamo! Tutte le popolazioni sulle vie di Gallarate e Busto Arsizio a Milano si sono levate in armi e hanno disarmate le truppe, presi sei pezzi di cannone, impedito che il ponte di Boffalora fosse tagliato. Evviva ai nostri fratelli di contado! Abbracciamoci tutti in un amplesso! Ringraziamo Dio. Gridiamo:
Viva l'Italia—Viva Pio IX
Il Governo Provvisorio
Casati—Giulini—Greppi—Beretta
In quel giorno si pensò poi anche ad organizzare i varii Comitati che dovessero coadjuvare l'opera del Governo provvisorio; essi furono i seguenti.
1. Comitato di difesa e di guerra;
2. Comitato di pubblica sicurezza;
3. Comitato di finanza;
4. Comitato di sanità;
5. Comitato di sussistenza
Nella casa del conte Carlo Taverna in contrada de' Bigli stabilirono loro sede il Governo Provvisorio e il Comitato della Pubblica sicurezza, e vi si custodirono alcuni personaggi ed ufficiali prigionieri. Nella casa di Carlo Vidiserti fu collocato il Comitato di pubblico armamento e di guerra.
IL 21 MARZO
Alle 5 ore del mattino Radetzky fece suonare a raccolta. Sembrava che le cose dovessero avere un prospero fine nella giornata.
Alla mattina le truppe cominciarono le fucilate e le cannonate dai bastioni della città: le barricate erano state da parte del popolo spinte molto avanti nella precedente notte.
L'alba era nuvolosa, e piovigginava: le campane della città continuavano a suonare a stormo:—i gridi di rabbia da parte dei Tedeschi e quelli di gioja da parte degli insorgenti echeggiavano dovunque:—a porta Tosa si lavorò indefessamente dalle 7 alle 10 a rinforzare le barricate e vi si collocarono i più audaci combattenti, mentre i più esperti fucilieri vennero disposti sulle diverse case dei dintorni e pegli orti onde potessero meglio molestare il nemico su tutti i punti, uccidere gli artiglieri allorchè s'avvicinavano al cannone per apprendervi fuoco, dando campo in tal modo agli altri popolani d'avvicinarsi per di dentro e per di fuori alla porta Tosa.
Nella città frattanto provvedevasi dal popolo ingegnoso ed entusiasta a far fronte in mille modi alle grandi forze del nemico. Si costrussero cannoni di legno cerchiati di ferro, tanto che reggessero a un certo numero di colpi; s'aumentò la fabbricazione della polvere e del cotone fulminante e la fusione delle palle; si pose in ogni opera un'attività immensa, un entusiamo indicibile.
I consoli residenti in Milano, che si erano interposti sin dal principio del combattimento per comporre le quistioni fra le due parti ed evitare un bombardamento, eransi rivolti alla Municipalità onde communicarle la lettera di Radetzky, chiedendo da essa una risposta in proposito.
Ora, lasciò scritto Cattaneo, mentre dopo il mezzodì del quarto giorno stavamo concertando con Borgazzi per l'assalto al bastione, la Municipalità ci invitò a convenir seco lei intorno alla risposta da darsi ai Consoli che sarebbero venuti a riceverla verso le ore tre.
Proponevasi, diversamente dal giorno innanzi, non armistizio di quindici giorni ma di tre; libera una porta, sì all'entrata delle vettovaglie, che all'uscita degli stranieri, ed anco dei cittadini; ma non estesa la tregua alla campagna.
Casati, assentendovi per sè, pregò il collaboratore Giuseppe Durini a ripeterci un sottile ragionamento che aveva già fatto ai municipali, provando che l'armistizio avrebbe giovato più a noi che al nemico che lo dimandava! I collaboratori e i lori seguaci se ne mostravano già tutti persuasi; tranne Achille Mauri, che pure faceva già loro da secretario.
Invitato da' miei colleghi ad esprimere il loro voto, osservai che, dopo un nuovo giorno di vittoria, il richiamare dal combattimento i cittadini era divenuto ancora più difficile; e che non conveniva dar tempo al nemico di ritorcere tutte le forze sulla campagna.—E infatti lettere intercette si scopersero poi, che, s'ei si avviliva a dimandare quella tregua, era solo perchè i tre giorni gli abbisognavano per avere in Milano mille e duecento grosse bombe, sbarcate allora in Piacenza.
Feci poi considerare che quell'intervallo, oltre al dar agio al nemico di far macello dei nostri soccorritori, avrebbe rallentato il vittorioso impeto dei cittadini, i quali sarebbero atterriti poscia dallo spettacolo forse dei trucidati amici. Feci considerare che l'esempio apportava contagio; che il primo giorno, la città sarebbe abbandonata dai forestieri, dalle donne e dai timidi; il secondo, lo sarebbe dai prudenti; e il terzo, anche dagli animosi. Conveniva ritenere i forastieri fra noi; erano sempre un ostacolo all'incendio e al saccheggio; non si poteva immaginare che il vessillo francese, sventolante a lato al nostro, non dovesse imporre qualche freno agli eccessi.—
Allora il conte Borromeo raccomandò di non dimenticare che si difettava di munizioni, e si avevano viveri solo per ventiquattr'ore.—Dopo le cose più sopra narrate, non fu millanterìa in me il rispondergli che il nemico, avendoci fornito fin allora le munizioni, ce le avrebbe fornite ancora. Quanto ai viveri, che dovevano durare solo per ore ventiquattro, gli risposi, aver io sciupato in cose statistiche quanto tempo bastava per potergli far sicurtà che computi così precisi non si potevano fare:—«Del resto, gli dissi, ventiquattr'ore di viveri e ventiquattro di digiuno saranno molto più ore che non ci sia mestieri. Il nemico sui bastioni non può reggere; è una linea troppo prolungata (erano dodici chilometri); gli deve già riescire assai malagevole la distribuzione dei viveri; e difatti in giro alla città Croati e Tedeschi sono già ridotti a vivere di ruba. Questa sera, se riescono i concerti fatti or ora, sarà spezzata la sua linea lungo i bastioni; e per poco che tardi a mettersi in ritirata, non troverà più strade.—Infine, quando pur ci dovesse mancare il pane, meglio morir di fame che di forca».—
I conti Casati, Durini e Borromeo, propugnando fra quella tanta effervescenza d'animi l'armistizio, si erano messi affatto a nostra discrezione; poichè si udivano affollati all'uscio i giovani vociferare sdegnosamente contro qualsiasi aggiustamento. Dopo essere uscito a tranquillarli, io pregai Casati a por fine a un diverbio oramai ozioso; poichè troppo era manifesta l'impossibilità di far deporre alla gioventù le armi, che aveva sì felicemente impugnate.
Dopo pochi momenti, giunsero vestiti dei loro uniformi i consoli; e udirono il rifiuto dell'armistizio dalla bocca dell'eroico podestà. Ancora quella volta noi concedemmo ai nostri avversarii un immeritato vantaggio; tanto è vero che non operavamo per ambizione di parte, ma per sentimento di cittadini. Strinsi la mano a quei rappresentanti dell'Inghilterra e della Francia, senza frammettere allusione veruna ai nostri dissidii. È verissimo però che nella lettera indirizzata dal Casati ai consoli, e da questi publicata, il rifiuto dell'armistizio venne attribuito al volere del popolo.
Appena partiti quei signori, apparve in città il conte Enrico Martini, inviato dal re Carlo Alberto onde parlare della dedizione del paese al re sardo, il quale prometteva soccorsi d'uomini e d'armi in tale caso. Osteggiava la proposta il Cattaneo che sosteneva dover il popolo, non le autorità civili disporre dello Stato; non essere d'altronde quella l'occasione propizia di convocare il popolo a votazioni, correndogli dovere e necessità in quei supremi momenti di provvedere alla difesa dall'inimico, all'offesa onde scacciarlo e procurarsi libertà. Opponevano gli altri a Cattaneo che il popolo difettava d'armi e munizioni, alle quali avrebbe potuto provvedere colla dedizione al re sardo; che del resto con quel sovrano si avrebbero ottenute adesioni e soccorsi anche da tutti gli altri governi italiani. Accalorata fu la discussione, e vi si cominciò a germogliare quella discordia di principii repubblicani e costituzionali sempre cattiva, esiziale in allora, e che perdurò per tutto il tempo successivo della guerra sino alla rotta di Carlo Alberto.
Prevalse in quella discussione l'opinion della Municipalità di accogliere le proposte di re Carlo Alberto ed usufruttare dei mezzi ch'egli offriva.
Il Consiglio di guerra allora credette utile di raccomandare ancora una volta ai cittadini la federazione militare di tutti i popoli d'Italia volgendo il seguente appello a tutte le città della penisola:
ITALIA LIBERA
Ormai la lotta nell'interno della città è compiuta. È tempo che le città vicine si scuotino e imitino l'esempio di questa. Noi invitiamo tutte e ciascuna a costituire un Consiglio di Guerra, che lasci le cose di consueta amministrazione ai Municipii costituiti in Governi Provvisorii. Per noi vi è un solo ed unico affare, quello della guerra, per espellere il nemico straniero e le reliquie della schiavitù da tutta l'Italia.—Invitiamo tutti i Consigli di Guerra a limitarsi a questo.—Ci sarà grato il ricever loro immediate novelle ed intelligenze per mezzo di Commissarii che abbiano animo degno dell'impresa.—Noi domandiamo ad ogni città e ad ogni terra d'Italia una piccola deputazione di baionette, che, guidata da qualche buon capitano, venga a fare una giornata d'assemblea generale ai piedi delle Alpi, per far l'ultimo e definitivo nostro commento coi barbari.—Si tratta di ridurli coi debiti modi a portarsi immantinente d'altra parte delle Alpi, ove Dio li renda pure liberi e felici come noi.
Viva Pio IX
Dal Consiglio di Guerra in casa Taverna,
21 marzo 1848.
Cattaneo—Terzaghi—Clerici—Cernuschi
Quindi il Consiglio di Guerra rivolgevasi a tutti i militari che si trovavano alle lor case onde accorressero ai soccorsi della patria, pubblicando il seguente invito:
Italia libera
I Milanesi domandano il concorso degli ufficiali e soldati in pensione ed in permesso. Non è mai un delitto difendere la patria.—Viva Pio IX.
I Membri del Comitato di Guerra
Cattaneo, Cernuschi, Terzaghi, Clerici
Onde ottenere poi l'effetto della dedizione che il Municipio voleva fare del paese a re Carlo Alberto, il Consiglio di Guerra cercò dimostrare che esso si rivolgeva a tutti i popoli anzichè ad un principe solo, onde rimuovere ogni suscettibilità politica e dinastica in Italia. Col mezzo aereostatico diffondeva quindi il seguente proclama:
ITALIA LIBERA
Viva Pio IX
La città di Milano per compiere la sua vittoria e cacciare per sempre al di là delle Alpi il comune nemico d'Italia, domanda il soccorso di tutti i popoli e principi italiani, e specialmente del vicino e bellicoso Piemonte.
21 marzo
Milano entro la cerchia del naviglio era quasi tutta liberata; pochi luoghi rimanevano a guadagnarsi.
Il Tribunale criminale era stato con grave pericolo dell'ordine pubblico abbandonato dalla truppa sin dal giorno precedente: avean potuto le guardie carcerarie contenere i detenuti all'obbedienza nascondendo loro la partenza della truppa; ma, occupato il Tribunale dal popolo, nel suo entusiasmo ritenne dover essere suo primo atto quello di aprir le prigioni dei detenuti politici e di rimetterli in libertà; come ne li pose bentosto. Essi erano: Filippo Villani, Luigi Ancona, Gallardi, Enrico Rivolta, Zanelli Francesco, Acerbi Giovanni, Filippo Fornara, Manfredo Camperio, Andrea Ponzio, Giovanni Grassi, Alessandro Borgazzi, Ercole Salvioni, Sac. Giuseppe Brambilla, Carlo Scanziani, Achille Volpi, Carlo Seldati, Pietro Cova, Giovanni Barbieri e Angelo Maroni.
Occorreva però di provvedere acciò nel parapiglia non fuggissero gli altri detenuti per delitti, poichè essi eransi già accinti a procurarsi la libertà. Accorsovi però l'avv. Pier Ambrogio Curti, membro del Comitato di Pubblica Sicurezza, impugnando una sciabola nella destra e una pistola nella manca, come ebbimo in eguale atteggiamento già a vederlo nella contrada di S. Damiano, si affacciò arditamente alla porta d'uscita, minacciò d'esploder l'arme da fuoco sul primo che s'avanzasse, cercando con altre parole poi di persuadere i detenuti che si avrebbe tenuto grande calcolo della loro sottomissione; che egli impegnava la sua parola d'onore che l'instruttoria sarebbe stata accelerata, rimessi in libertà gli assoluti, ritenuta pei condannata una circostanza molto attenuante quella di aver ottemperato in quel momento all'ingiunzione di rientrare in carcere. E tanto disse e tanto fece, che quegli uomini, che pur sentivano amor di patria, deposero le armi che già stringevano e rientrarono nella prigione. A questo fatto vi concorse poi anche la presenza di coraggiosi cittadini che accorsero ad assecondare l'opera e gli sforzi del Curti.
Il Genio militare era uno dei pochi luoghi ancora occupati dalla truppa, ove vi si distinsero fra i molti il Sottocorno, l'ingegnere Suzzara ed Augusto Anfossi, di cui abbiam già parlato a pagina 76. Francesco Pagnoni, che erasi adoperato fino del primo giorno (18) come lettore di tutti i proclami che circolavano per la città e nel persuadere le mogli e le madri a lasciare che i loro mariti e figli prendessero parte all'insurrezione, con coraggio e con gravi sacrifizii prestossi nei combattimenti di contrada di Brera e del Monte di Pietà a tenere indietro i soldati austriaci che tentavano di oltrepassare le barricate per portarsi al Genio onde salvare il presidio che in quel palazzo stava rinchiuso. Ma per quanto impetuosi fossero gli assalti dei soldati pure ogni lor tentativo veniva paralizzato e reso frustaneo da una pioggia di tegole e di sassi che cadevano da ogni punto del tetto della casa Passalacqua. I Tedeschi vedendo tornar vani i loro sforzi, ripiegarono al Comando Generale e saliti sul tetto di quel palazzo diressero quantità di colpi di spingarda sugl'insorti, senza che alcun di loro però ne rimanesse ferito. Mezz'ora dopo ritornarono all'assalto delle barricate: ma i difensori di esse, riparati sui fienili, con una ben nudrita pioggia di tegole, e di ogni sorta di macerie di cui erano ben provvisti, di nuovo li fecero retrocedere. Il combattimento durò dalle 11 ant. alle 4 pom., dopo di che si recarono al Genio.
Alla presa del Genio, il Pagnoni fu tra quelli che vi penetrarono, e vi ebbe campo di salvare una cameriera addetta alla famiglia del conte Neuperg e la condusse salva a' di lei parenti.
La presa del Genio venne ben tosto notificata al popolo col seguente avviso:
Cittadini
Nuove vittorie!
Il nemico che occupava il palazzo del Genio, dopo replicati assalti ha ceduto al valore dei prodi nostri cittadini. Oltre a 160 soldati e tre officiali sono i nemici che si costituirono prigionieri, cedendo armi e munizioni.
Dio è con noi!
Viva l'Italia
Dal Comitato di pubblica difesa.Ore 3 pom. del 21 marzo 1848.
L'ufficio di Polizia in S. Simone fu pure preso con perdita di cittadini. La caserma di S. Francesco cadde anch'essa in potere degli insorti. Queste furono le conquiste dell'insurrezione: altri combattimenti però avvennero senza decisivo risultato, dei quali ne parleremo qui appresso. Riteniamo però di dover prima riportare un editto del Comitato della guardia civica, col quale eccitavansi tutti i cittadini a concentrare le loro forze sui punti più minacciati dal nemico: tale editto era così concepito:
Cittadini
È inutile durante il giorno, mentre il nemico è lontano, si fermino alle barricate interne quelli che sono muniti di fucile e di carabine. È alle barricate esterne, investite direttamente, che è d'uopo portare tutte le forze disponibili in soccorso dei valorosi che tengono fronte al nemico. Quelli pertanto che trovassero aver compiuta l'opera loro in un dato luogo, anzichè fermarsi alle barricate lontane dal nemico e d'altronde munite a sufficienza da' vigili abitanti delle contigue case, si rechino alla direzione generale della guardia civica, contrada del Monte N. 1263 c, casa Vidiserti, la quale ricevendo ad ogni istante domande di soccorsi dai difensori delle nostre più esposte posizioni, assegnerà condegno campo al loro valore. La vittoria è certa: colla più rigorosa disciplina la compiremo, vieppiù facilmente.
Viva l'indipendenza
Dal Comitato direttore della guardia civica
Ore 2 pom. del 21 marzo 1848»
A porta Ticinese verso sera avvennero gravi fatti: crediamo di riportarli colle parole del Tettoni nella sua Cronaca della rivoluzione di Milano.
«Verso le ore cinque di sera, egli dice, una mano di soldati irruppe dal dominante bastione di questa Porta, e per la via di un muro di cinta dell'ostiere Fossati, che primo colla moglie fu trucidato, invase la casa posta nel vicolo del Sambuco, num.º 3707, nella quale, trovata la porta aperta, ebbe facile ingresso. Cominciarono a devastare e derubare i pochi arredi del portinajo: indi saliti al primo e secondo piano atterrarono le porte, e trucidate quattro persone le gettarono in corte, gridando: fatevi guarire da Pio IX, e depredate anche qui in quasi tutte le stanze le misere suppellettili, e derubati i pochi danari e le lingerie, unica sostanza degli artigiani che colà abitavano, discesero le scale fino alle cantine dove la maggior parte delle donne s'erano rifuggite; e quivi senz'altro scaricata una fucilata, colpirono un bambino d'anni tre nelle braccia di suo fratello, egli pure mortalmente ferito; il morente bambino venne poscia barbaramente strappato dalle braccia non più valide del fratello, e gettato sulla siepe della strada confinante.—Pure nella stessa casa vi abitava certo Migliavacca d'anni 43 circa, ammogliato, con due figlie, uomo di specchiata probità, vero e caro padre di famiglia, il quale appena accortosi dei gridi che di subito si sparsero nel vicinato al furioso entrare delle soldatesche, procurò possibilmente di assicurare la propria famiglia chiudendosi in casa, ed opponendo tutta quella resistenza che chiunque avrebbe procurato di tentare nel vedere la propria vita congiunta alle parti più care di sè stesso minacciate da sicura morte. Sua disgrazia volle che vani fossero i suoi sforzi, giacchè, riunitisi que' mostri in numero sovrabbondante, gli sfondarono la porta; ed appunto per aver loro usato resistenza, appena entrati prima cosa fu di percuoterlo spietatamente ed obbligarlo a chiedere ginocchioni la vita, indi saccheggiarlo di tutto quel poco di meglio che aveva per l'importo di lir. 653. Poi risovvenendosi uno di essi che avevano dovuto impiegare qualche fatica per rendersene padroni, senza più riguardo niuno, subito come furia d'averno gli si avventa addosso, e duro e freddo qual marmo alle strazianti lagrime della moglie e delle figlie, che quasi fuor di sè stesse dallo spavento chiedevano grazia per l'infelice, gli scaglia un colpo sulla testa e gli altri lo imitano; indi così lo abbandonano estinto al suolo; lasciando gli sventurati suoi cari in uno stato di dolore che ci fa pena il descrivere, bastando il fatto da sè stesso a darne tutto il campo alla considerazione.—
«A Giovanni Battista Beltrami si deve la salvezza del borgo di Viarenna. Dopo di aver recato soccorsi di vitto e di denari agli abitanti di questa parte della città confinante coi bastioni della Porta, alla testa di pochi uomini eseguì una barricata mobile con fasci di legna, e la spinse avanti l'inimico, il quale vi scaricava contro una grandine di palle ed alcuni colpi di cannone a mitraglia. Infiammati i nostri di furor patrio non temono la morte, e si spingono tanto sotto che costringono l'inimico alla fuga, lasciando tre de' suoi morti sul campo.—Il Beltrami contribuì ancora alla liberazione di Cittadella.»
A porta Tosa alcuni cittadini potettero uscir di città guadando un'acqua che scorre sotto il bastione tra porta Romana e porta Tosa: portatisi poscia insieme ad altri del contado in una casa suburbana che dominava il bastione, apersero un vivo fuoco di fucileria dalle finestre.
Il locale del Conservatorio venne destinato a servir di appostamento ai bersaglieri cittadini, onde distrarre le forze militari della porta Tosa, e facilitare da altro punto l'assalto e la presa della porta. I fatti avvenuti in quel luogo vennero con speciale precisione descritti nell'opera Racconti di 200 e più testimoni oculari dei fatti delle gloriose cinque giornate: li riportiamo colle parole stesse di quell'opera:
«A undici ore di notte si radunarono molti patriotti in questo locale per l'esecuzione del suesposto progetto.
«Io con un lumicino accompagnai l'ingegnere Cardani e diversi altri armati di fucili e carabine nel quartiere delle alunne destinate all'uopo; le gelosie delle finestre erano state chiuse tutto il giorno, e nelle diverse scuole e nei dormitorii si appostarono i valorosi.
«Intanto alcuni zappatori, diretti dal signor Borgocarati, entrarono per la parte della cucina nel giardinetto sottoposto. Io procurai loro una leva di ferro ed altri attrezzi necessarii per aprire una breccia nel muro di cinta; come fecesi colla massima precauzione per non essere scorti dal nemico. L'ingegnere Cardani, fattosi loro guida, li condusse colle scale della Chiesa della Passione per le ortaglie sui bastioni, ivi furono da noi calate le scale di fuori lungo le mura, onde avessero ad ascendere quelli che si trovassero esternamente, e che si dicevano accorsi in aiuto. Sfortunatamente non si vide nessuno; sia però lode egualmente a quelli che progettarono ed eseguirono tale operazione tanto arrischiata ed ingegnosa!»
«Ad un'ora di notte si cominciò dai nostri a tirare contro i militari posti di guardia dietro le piante del bastione; questi risposero colle loro solite fucilate; poi si videro dei picchetti partire da porta Tosa e dal borgo di Monforte e venire a schierarsi di dietro le piante su quel punto del bastione, e così a colpi replicati e frequenti d'archibugi si continuò per più di un'ora, quando a un tratto cominciarono le cannonate.»
«Un cannone di porta Tosa, appostato dagli Austriaci in capo alla stradella sul bastione, e un altro al borgo di Monforte nel punto opposto, cominciarono a tirar contro le finestre del Conservatorio, e ne menarono fiera rovina.»
«Ma Dio vegliava su noi, poichè de' tanti nostri, che per ben cinque ore di seguito continuarono a combattere in questa località, due soli rimasero feriti in detto quartiere delle alunne: uno fu certo Poletti Carlo, che, colpito da una palla di fucile, fu trasportato da prima nella cucina inferiore del Conservatorio, dove gli prestarono soccorsi d'ogni sorta, nel che il signor Preposto Radaelli si distinse per carità, coraggio e zelo; quindi fu trasportato al deposito ove morì il 25:—un altro, Antonio Donzelli, addetto allo studio del signor avvocato Lissoni, restò ferito egualmente, mentre l'ingegnere Cardani gli caricava il proprio fucile. Il Donzelli però vive tuttora, essendogli stata dal chirurgo Valerio levata la palla, e si spera che guarirà. Alcuni de' nostri più ardimentosi, dalla breccia del muretto del giardino del Conservatorio si spinsero nella prossima ortaglia, e di là sino sul bastione con una scala della Chiesa, ma dovettero poi ritrarsi, restandone alcuni morti sotto le palle nemiche.»