Читайте только на Литрес

Kitap dosya olarak indirilemez ancak uygulamamız üzerinden veya online olarak web sitemizden okunabilir.

Kitabı oku: «I rossi e i neri, vol. 1», sayfa 28

Yazı tipi:

Come fu giunto sotto Soziglia, dove il canale si piega leggermente verso gli Orefici, si fermò, trasse fuori uno zufolo e mise un fischio sottile, ripetuto tre volte. Tre fischi gli risposero tosto; uditi i quali, il Guercio si rimise la via tra le gambe. Due minuti dopo, egli era dinanzi, alla luce d'un falò, la cui fiamma lambiva ed affumicava la volta umidiccia, e intorno a cui stavano accoccolati i suoi cinque compagni, veri ceffi da galera che non istaremo a descrivervi.

– Finalmente! – gridò uno di costoro. – Noi ti facevamo già in catorbia.

– E perchè mo'? – chiese il Guercio, in quella che spegneva la lanterna e se la riponeva in tasca. – In catorbia ci vanno i ladri, e non la brava gente come noi.

– Capisco; – soggiunse l'altro, – ma quei del pennacchio fanno errore così spesso!

– La prima causa dell'errore sono quei tali che hanno fatta la legge; – sentenziò il Guercio, sedendosi accanto ai compagni e levando la pipa di bocca al più vicino per mettersela tra i denti egli stesso. – Quando comanderò io, farò un codice nuovo che dica: sono ladri tutti quelli che hanno quattrini. Infatti, io ragiono così: se hanno denari, in qualche luogo li hanno presi: ora chi prende ruba; dunque…

– Benone! – interruppe un altro. – Tu parli come il mio avvocato, che, se gli davano retta i signori del berrettone, non andavo a passar tre anni nel collegio di Oneglia. Ma già, quei signori non badano mai a quello che dice un galantuomo, e legano sempre l'asino dove vuole il Fisco.

– O non lo sai, imbecille, che lupo non mangia lupo? Ma basta! tornando al discorso che non avevo ancora incominciato, domani a sera si fa il colpo.

– Impossibile! – gridò l'Architetto, o, per dir meglio, quel che i compagni chiamavano con quel nome. – In quella maledetta buca non ci si può lavorare più di due per volta, i vorranno almeno sei giorni…

– E chi ti parla della buca? – ripigliò il Guercio. – Parlo dell'altro colpo, di quello che v'ho detto una settimana fa, pel quale, da ladri che sembriamo, diventeremo carabinieri.

– Ah sì, ottimamente! – esclamò uno dei cinque. – E in cambio di lasciarci ammanettare, ammanetteremo.

– No, Bellavista, non ci saranno manette da mettere.

– E che diamine ci sarà dunque da fare? – dimandò il Bellavista. – Io non so che facciano altro, quei del pennacchio.

– Perchè tu li conosci soltanto da quello che hanno fatto a te; – rispose il Guercio tra le risa della brigata; – ma essi, te lo so dir io, fanno altro ed altro, che ti bisognerà imparare, prima di metterti all'opera.

– Sentiamo dunque! – disse il Bellavista.

– Incomincio. Domani a sera, verso le nove, si va (alla spicciolata, s'intende) in casa Ceretti, qui presso a via Luccoli. Il Ceretti tu devi conoscerlo, tu Architetto, che sei stato muratore.

– Se lo conosco! È mastro Nicola, di Molassana, quegli che ha trovato due pentole di genovine in un ripostiglio di muro che stava rompendo, e non ne ha detto nulla al principale…

– Sì, lui, per l'appunto.

– Ci ha da esser denari a palate, in casa sua! – proseguì il Bellavista.

– Certo; – disse il Guercio, – ma per questa volta bisognerà sputarne la voglia. In casa del Ceretti ci si va per la mascherata, e nient'altro.

– O come? – dimandò l'Architetto. – Mastro Nicola ci tiene il sacco!

– Non egli, che è in villa, ma il suo figliuolo. Io non so nulla e non ho cercato di saper nulla; ma mi sembra di avere indovinato che questo giovanotto l'abbia a morte con un suo pigionale, certo Salvini, Salvetti o che so io, e lo voglia colle nostre mani, __vestire da angelo__… mi capite? fargliene una da coltellate. Domani a sera scoppia la rivoluzione…

– Parli sul serio? – interruppe il Bellavista, mentre gli altri inarcavano le ciglia.

– Sicuro; ma questo non risguarda noi altri. In questi pasticci non c'è nulla da guadagnare. Ora questo Salvetti, Salvini, od altro che sia, è un uomo che pesca nel torbido, e domani a sera sta fuori di casa. Noi, col pennacchio in testa e la divisa a coda di rondine, andiamo in casa, dove c'è una ragazza sola con un servitore, ci spacciamo per carabinieri mandati a fare una perquisizione, rovistiamo nella camera del nostro uomo, e portiamo via certi documenti che devono trovarsi in una cassettina d'ebano; la qual cassettina è in un cassettone a destra entrando, nella seconda cassetta, in un angolo a sinistra. Vedete che conosco il fatto mio. La Giustizia è bene ragguagliata, non fo per dire. Ci becchiamo la cassettina: salutiamo la signora chiedendole scusa del disturbo, scendiamo al primo piano, ci vestiamo da capo dei nostri panni, e ce ne andiamo pe' fatti nostri. Il colpo non è male architettato. Che ne dici tu, Architetto?

– Io dico, – rispose l'Architetto, – che a questa fabbrica mancano le chiavi.

– O come?

– Mancano, ti dico, e te lo provo. Noi, stando a quel che ci hai posto in chiaro, lavoriamo per la gloria.

– Ah, capisco! – disse il Guercio ridendo. – Io avevo dimenticato l'essenziale. Accanto alla gloria c'è una lasagna bianca, di quelle che si fabbricano in via San Lorenzo.

– Mille lire?

– Sì, certo, mille lire; e notate, – soggiunse il Guercio, volgendosi alla brigata, – che le guadagniamo senza risico, a mo' di passatempo, in mezz'ora di mascherata.

– Sta bene, sta bene; – ripigliò l'Architetto. – Ma quando la si vede, questa lasagna bianca?

– Nell'atto di consegnare la cassettina; non sei contento?

– Ah, meno male, questo si chiama ragionare. E adesso facciamo un pochino di divisione. Tu, come capo…

– Mi contenterò di cinquecento lire; – disse il Guercio. L'esorbitanza delle sue pretensioni gli fece buon servizio, perchè gli altri diedero tutti nella pania.

– Ah, Guercio! – gridarono in coro. – Tu non sei ragionevole!

– Orbene, quattrocento, e crepi l'avarizia! Io sono un buon diavolo, e voglio farvi vedere che non tengo al danaro.

– No, no! – ripigliarono parecchi. – È troppo.

– Sta bene, – soggiunse il Bellavista, – che tu sia il manipolatore del negozio; ma quattrocento lire…

– No, no; – incalzarono gli altri, – tu vuoi troppo per la tua porzione.

Perchè non dire recisamente: voglio tenermi la somma intiera?

– Ma io… – si provò a dire candidamente il Guercio. Non sono il capo, io?

– Zitto, là! – gridò l'Architetto, dando sulla voce a lui e agli altri che volevano rimbeccarlo. – Lasciate che io pure metta fuori la mia. Se parlate tutti in una volta non riusciremo mai ad intenderci.

– Sì, parla tu! parli l'Architetto!

– Benone! – ripigliò questi, contento del trionfo ottenuto. Ditemi ora, non par giusto a voi che il Guercio, come capo e come manipolatore del negozio, abbia qualcosa di più?

– Certamente! – entrò a dire il Bellavista. – E mi pare che centocinquanta lire…

– No; facciamo la somma rotonda; mettiamo dugento.

– E vada anche per dugento! – disse il Guercio, coll'aria di un uomo che fa un grande sacrifizio. – Io non voglio romper l'amicizia per questa miseria. Dugento lire a me, e centocinquanta al maresciallo!

– Che maresciallo? chi è questo maresciallo? – chiesero i compagni stupefatti.

– Oh bella! non capite che un drappello di carabinieri ha da averci il suo comandante? O come andremmo noi a fare una perquisizione, senza maresciallo?

– Ha ragione, perdiana! – dissero gli altri, guardandosi in faccia.

– Ha ragione, sicuro! – aggiunse il Bellavista. – Ma chi sarà il maresciallo?

– Non io certamente, col mio occhio traditore; nè tu Bellavista, che sei mingherlino come una lucertola.

– Mettiamo dunque l'Architetto! – gridò uno della brigata. – Mettiamolo lui, che sembra il figliuolo della Madonna del Gazzo.

– Sì, sì, l'Architetto! – risposero tutti, ridendo a crepapelle.

– Sarò io, chetatevi, sarò io! – disse gravemente l'eletto.

– Ma badate! il maresciallo vuol doppia razione. Datemi dunque dugento lire; se no, cedo l'onore ad altri. Io sono stanco di gloria, e se non viene la paga doppia, mi contento del grado di semplice carabiniere.

– Il diavolo si porti l'Architetto! Vuol quello che vuole.

– Ma… io non vi cerco! Siete voi altri che volete innalzarmi, non io. Mi volete grande e grosso? Pagatemi. Non vi par che io ragioni a modo?

– Come un libro stracciato; – soggiunse il Bellavista.

– Abbiti dunque le dugento lire; seicento che rimangono salve dalle vostre unghie, le spartiremo tra noi quattro.

– E lagnati ancora, manigoldo! Vi buscate centocinquanta lire a testa, e non siete contenti? Che cosa vorreste ancora? Se io le avessi ogni giorno, e lavorando un'ora sola, mi parrebbe d'esser più ricco dei Parodi, e vorrei che passando da' Banchi tutti mi facessero largo e si cavassero il cappello, come quando passa qualche ladro dei grossi…

– Hai ragione! hai ragione! finiscila dunque! – interruppero i colleghi.

– E adesso che ci siamo intesi, – soggiunse il Bellavista, – beviamone un bicchiere alla salute del maresciallo. —

La proposta fu accolta all'unanimità. Uno della brigata diè di piglio alla damigiana che stava lì presso, e versò il vino nei bicchieri, che corsero in giro parecchie volte, tra gli evviva più sperticati e più strani al collega Architetto.

Il Guercio se la rideva sotto i baffi, perchè, non mettendo in conto l'orologio e la catenella del suo tenore col tremolo, quella sera guadagnava milleduecento lire senza molta fatica.

L'Architetto, dal canto suo, se si faceva pagare per due, sapeva bere all'occorrenza per quattro. E così fece quella sera; se pure non è più giusto il dire che bevve per sei. Tanto per quella sera il lavoro era interrotto, e non si doveva ripigliare se non la mattina, allorquando il frastuono della via soprastante avrebbe soffocato il rumore monotono e traditore dei loro picconi. E il nostro Architetto, reso eloquente dal vino, raccontò candidamente ai colleghi che il sogno della sua vita era stato mai sempre di essere carabiniere, anzi carabiniere a cavallo. E d'essere carabiniere e di trottare in __corrispondenza__ da una stazione all'altra, sognò veramente un'ora dopo, quando il vino, facendo il suo effetto, lo ebbe dato per morto in braccio a Morfeo.

Forse in quell'ora medesima, un vero carabiniere, disteso nel suo letticciuolo, sognava di aver vinto una quaderna al lotto, e di non portar più il pennacchio rosso e cilestro.

Ahimè! Nessuno è contento del suo stato, in questa valle di lagrime!

XXXV

Come un gladiatore moderno si disponesse all'ultima pugna.

Memori sempre di tutti i personaggi della nostra storia, non abbiamo dimenticato Lorenzo Salvani, il povero giovine che abbiamo lasciato in via Nuova, sotto le finestre dei Torre Vivaldi, a guardare un'ultima volta Matilde che saliva alla festa, leggiera e felice come persona che si sia liberata di un grave peso, ed abbia fatto un'opera buona. Fu l'ultimo sguardo che egli volse a costei, ma non ardiremmo dire che fosse l'ultimo pensiero.

Chi penetra negli ultimi recessi di un cuore trafitto? Chi sa dire quante volte, anche inconsciamente, un'anima aspreggiata dalle ineffabili angosce di un morto affetto, accolga nel suo segreto una perfida immagine, e la vagheggi e la maledica, e frema a quella vicinanza come la carne al contatto di un ferro rovente, innanzi di affogarla nel suo immenso disprezzo e di poterla contemplare impunemente e sorridere?

Il forte animo di Lorenzo s'era chiuso in quella medesima notte; ma la tempesta ruggiva dentro, nè potremmo dirvi quando e per che modo si chetasse. Forse le avvenne di consumarsi da sè; forse ardeva tuttavia, ma il cuore, divenuto insensibile per soverchio di pena, non tradiva il suo signore nei moti del volto o negli atti. Laonde, mutato apparve, non turbato, alla gente; e se lo spirito afflitto maturava un feroce proposito, niente lasciava trasparire agli occhi del volgo profano.

Ferito da una donna amata in ogni cosa più cara, nella sua adorazione per lei, nel suo divino inganno di poeta, nella sua dignità d'uomo, egli, dopo quel giorno, non la cercò, nè la fuggì; non la vide. Gli era ella passata daccanto per via? Non lo sapeva neppure. Ella era e non era per lui. Questo non significava ancora il disprezzo, ma più non significava l'amore; sibbene, e assiduamente, l'angoscia, il disdegno, lo scontento di sè.

Aveva la morte nel cuore, e lo stato suo era tanto più grave in quanto che egli non aveva potuto ottener sollievo da un'ora di vendetta. Quel conte palatino, ma così poco paladino, dell'Alerami, egli non aveva potuto trovarselo a faccia a faccia sul terreno. Ciò ch'egli aveva detto nel suo ultimo colloquio con Matilde, intorno a quel vile spavaldo, era pure avvenuto.

I lettori rammentano che innanzi di uscire dalla casa della Cisneri, Lorenzo aveva detto all'avventuriero, conchiudendo il suo sarcastico discorso sul giuoco: «Ella è dunque avvertita; io soglio giuocar grosse poste, e quando le piaccia, sarò sempre a' suoi riveriti comandi». Alle quali parole avea risposto l'Alerami, facendosi bianco in viso come un cencio lavato: «Eh! chi sa che non me ne venga la voglia?» E Lorenzo aveva soggiunto: «S'accomodi!».

Ora questa voglia non era venuta al conte palatino, che s'era accomodato assai meglio non rispondendo all'invito. Non già che ne' suoi colloqui colla contessa egli non avesse simulato di voler tenere la giostra; che anzi aveva strepitato, e di molto. Ma egli aveva fatto come que' tali rodomonti da quadrivio, i quali sogliono finire i loro alterchi colla frase proverbiale, «tenetemi, se no l'ammazzo!». E la contessa, sgomentita, lo aveva tenuto; ed egli s'era chetato, per non mettere (diceva lui) a repentaglio l'onore di una dama, in una contesa con tal uomo (soggiungeva lei) che non ne francava la spesa, che non era della civil compagnia e che non c'era nè gusto ne gloria a sforacchiargli la pelle.

Così erano sbollite le ire d'Achille; così l'Alerami ebbe al cospetto della bionda contessa un pregio di più. Ma così va il mondo; si passa a buon mercato per valorosi e per gentiluomini. E il vero gentiluomo, il valoroso, passava, agli occhi di certo volgo eccellentissimo, per un dappoco, per uno screanzato, che non francava la spesa d'un colpo di pistola, o di spada.

Ma così non la pensavano tutti; chè per buona sorte il volgo eccellentissimo, se spesso promulga, non sempre fa accettar le sue leggi. Ventiquattr'ore dopo quel suo battibecco in casa Cisneri, il nostro Lorenzo, maravigliato di non avere anche veduto i padrini dell'Alerami, era andato su tutte le furie, e s'era aperto coll'Assereto e col Montalto, perchè volessero andargli a chiedere se egli, conte palatino, avesse gl'insulti per celie. Ma Giorgio Assereto avea crollato le spalle, chiedendogli se egli, Lorenzo Salvani, avesse dato il cervello a pigione; e Aloise di Montalto, fior di gentiluomo se altri fu mai, gli aveva soggiunto:

– Se quel conte apocrifo mandasse una disfida a voi, ed io avessi la fortuna di essere vostro padrino, comincerei da non averlo per degno avversario, e sfiderei per conto mio quei due gentiluomini che avessero ardito presentarsi come suoi mandatarii. —

E un'altra volta, a giugno inoltrato, nella affettuosa dimestichezza d'un fraterno colloquio, gli aveva parlato in tal guisa:

– Lorenzo, voi sapete come io vi apprezzi e vi ami. Non so d'uomini i quali possano starvi a paragone, e certo non ce ne sono, ai quali volessi chiedere consiglio od aiuto, siccome a voi. Questa confessione mi darà, spero, il diritto di dirvi una schietta parola, come la direi ad un fratello, come saprei dirla a me stesso.

– Oh parlate, Aloise! – aveva risposto Lorenzo. – Vi ascolto come si ascolta un fratello, come si ascolterebbe la voce della propria coscienza.

– Orbene, Lorenzo, io avevo saputo del vostro amore fin da' primi giorni ch'esso era nato, e fin da que' giorni mi dolse che foste caduto ne' lacci di una donna guasta dalle consuetudini d'una vita frivola e vana. Amavate, credevate, ed io tacqui. Che cosa avrebbe potuto allora la voce di un amico, e, quel che è peggio, di un amico recente? Ora voi stesso vi siete ricreduto; quella donna non amava voi, in quella medesima guisa che non ha amato e non amerà mai nessuno, salvo il piacere. Se costei non fosse ricca e gentildonna, qual nome e quale stato le si converrebbe? Ditelo voi. Or dunque, perchè vi accorate? Rimpiangete forse ch'ella medesima, generosa senza saperlo, vi abbia aperto gli occhi alla luce del vero?

– No, Aloise, v'ingannate; io non rimpiango l'amore di quella donna. Soffro… ecco tutto! Soffro di esser caduto così stoltamente in errore, di aver commesso altrui così ciecamente il mio cuore. Torno ora in balìa di me stesso; ma basta egli forse? Voi non sapete quanti bei sogni si proseguono, amando; che castelli in aria si edificano; che dolci consuetudini si vagheggiano, e come l'animo confidente, quasi ringiovanito, si schiude agli aliti della nuova vita, e come paion nulla le molestie, le difficoltà d'ogni maniera, e come nasce, come si rinvigorisce il desiderio di adoperarsi in questa battaglia dell'esistenza. L'amore è un liquor generoso che ridesta e centuplica tutte le virtù dormenti o prostrate dell'uomo. E un bel dì, tutto crolla, tutto svanisce! Ma voi, rimanete, pur troppo, voi rimanete, logoro, impossente, disperato, in presenza del nulla. Credetemi, Aloise; da gran tempo infelice, ho imparato a leggere nel mio cuore. Non è l'amore di quella donna che io rimpiango ora; è il mio povero edifizio crollato, la mia speranza morta, la mia vita disutile. —

A render più doloroso lo stato di Lorenzo si aggiungeva che tutto era buio d'intorno a lui, che ogni via era chiusa alla sua operosità, che il turpe bisogno batteva alla porta. I lettori rammentano com'egli ponesse la sua ultima speranza nel dramma «__Una corona di spine__» scritto, stiamo per dire, col suo sangue, e come il Bonaldi gli avesse promesso, se gli andava a' versi, di pagarlo. Ecco ora la lettera che il Bonaldi gli scriveva da Brescia, venti giorni dopo l'invio del manoscritto:

«Egregio signore,

«Il dramma di V. S. m'è piaciuto assaissimo, laonde non ho a dirle se mi paia meritevole d'un pubblico sperimento. Soltanto mi duole di dover soggiungere che non potrei rimeritarla della sua letteraria fatica in contanti. La condizione del capocomico è dura oltremodo in Italia. Ogni cosa m'è andata a rifascio nei teatri di Roma e di Trieste; causa la malattia della prima donna, che come non sarà ignoto a V. S. ha dovuto smettere per qualche tempo, ed io sono stato costretto a presentare in sua vece una prima amorosa, buonina sì, ma al suo posto, non già nelle parti di forza.

«Ma lasciando da banda tutti questi particolari, che io le ho accennati soltanto per chiarirle lo stato delle cose mie. Ella è, mio egregio signore, tuttavia sconosciuto nell'arringo drammatico, non appartenente ad alcuna consorteria letteraria. Questo è suo merito, lo so; ma l'universale non ragiona sempre colla testa, e quantunque a volte si ribelli contro certe chiesuole (vera dannazione di noi poveri artisti!), non si affolla, poi, in teatro, se non ci ha l'esca dei nomi conosciuti. Oltre che, sebbene il dramma di V. S. ci abbia di molti pregi, e quello anzitutto dello stile che io non mi periterò di chiamare classico addirittura, Ella converrà meco che possa piacere e dispiacere. L'argomento è delicatissimo e del novero di quelli che vanno trattati, come suol dirsi, coi guanti.

«Comunque sia, se Ella si sente di affrontare il giudizio del pubblico, ai magri patti che io posso per ora proporle, tenteremo la prova, e mi è grato sperare che riesca favorevole al suo stupendo lavoro, e mi dia agio ad offrirle, per un nuovo dramma, qualcosa di meglio del decimo dell'entrata, detratte le spese serali. Aspetto dunque una sua riverita lettera, la quale mi dica si o no, e dolentissimo di non potere più efficacemente dimostrarle quanto apprezzo il suo nobile ingegno, me le profferisco devotissimo

«RAFFAELLO BONALDI»

Questa lettera era caduta come un fulmine in casa Salvani, a turbare l'ultimo sogno di Lorenzo, a distruggere l'ultima speranza che egli vagheggiasse in cuor suo, di tornare in qualche modo di sollievo alla sua povera sorella adottiva. – «Piove sul bagnato!» – aveva sentenziato con spartana breviloquenza Michele, allorquando il suo padrone, sorridendo amaramente, gli aveva annunziato il colpo di misericordia vibratogli dall'avversa fortuna.

Un ultimo lampo d'orgoglio guizzò nell'animo di Lorenzo Salvani. Scrisse al capo comico ringraziandolo di aver letto il suo dramma, che non era poca cortesia; distribuisse pure le parti e lo facesse recitare; non si desse pensiero di pagamento, nè di decimo netto, o lordo, nè d'altro, perchè a lui queste inezie non importavano punto. E scritta quella lettera, volle mandarla affrancata. «È l'ultima spina della mia __Corona__; – disse a Maria, – non ci pensiamo più!»

E non ci pensò più, davvero. __La Corona di spine__, entrando nel repertorio del Bonaldi, usciva per sempre dall'animo dell'autore. L'ultima tavola di salvezza… diciamo male, il suo gorgo vorace, __l'onorevole uscita__ (come egli stesso usava chiamarla) gli si apriva tuttavia dinanzi allo sguardo. Nemico del suicidio immediato, violento, che un uomo si procaccia colle sue mani in un momento di delirio, egli ne vedeva, ne vagheggiava un altro, che gli appariva certo del pari, ma che non avrebbe offerto ad alcuno argomento di biasimo e di scherno. Era questo il tentativo di rivoluzione che si maturava in Genova; tentativo che egli non aveva caldeggiato mai, ma al quale aveva promesso l'opera sua, in rispondenza alla sua fede politica, e che ora egli affrettava coi voti, come quello che gli avrebbe dato il modo di farla finita, presto e bene, col tedio dell'esistenza. Egli insomma s'industriava a disfarsi, a buttarsi via, come tanti altri a campare, a procacciarsi uno stato.

Così pensava Lorenzo, e sotto questo aspetto considerava i prossimi eventi. Egli non s'era mai pasciuta la mente di vane speranze, e reputava certissima la sconfitta. Era stato soldato, e ben sapeva quante cose ci vogliono a fare un soldato; era italiano, e non ignorava come difetti nelle moltitudini italiane la tenace concordia dei propositi, l'obbedienza al comando di un solo; era avvezzo alla vita pubblica, e gli erano note le difficoltà d'ogni maniera che avrebbero, anco nel caso più felice d'una vittoria parziale, mandato a male un rivolgimento, il cui trionfo dipendeva dalla simultaneità dello scoppio in parecchie regioni della penisola. Questo ed altro sapeva; nè, sulle prime, lo aveva taciuto. Ma altri consigli avevano vinto; il concetto era generoso, e Lorenzo Salvani, pronto alle opere com'era dubitoso ai consigli, aveva chiesto per sè una delle parti più rilevanti. Morremo, pensava egli, morremo; che importa? __Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor__…

E la mattina del 29 giugno era giunta. L'ora del gran tentativo, che già doveva essere per una parte iniziato in alto mare a bordo del __Cagliari__, sarebbe suonata in quella sera per Genova. Saldo nel suo proposito, Lorenzo Salvani guardava con occhio sereno l'imminente pericolo. Sotto le spoglie del suicida si era ridestato il veterano di Roma.

Che facesse egli quella mattina, può argomentarlo chiunque è stato al punto di doversi appigliare ad un grave partito che egli facesse sentire la necessità di non lasciare dietro di sè, morto, o lontano, nessuno di quei nonnulla, i quali dessero appiglio alla indiscreta curiosità o allo scherno della gente, non tanto a suo danno, quanto d'altrui. Chiuso nella sua camera, il giovine Lorenzo metteva sesto nelle sue carte, quali ordinatamente riponendo, quali stracciando, quali altre bruciando a dirittura.

Ce n'erano d'ogni forma e ragione; lettere di minor conto che bastava fare in quattro pezzi e buttar nel cestino; scritture fuggevoli, noterelle, capricci letterarii, abbozzi, versi non finiti, pensieri scombiccherati sulla carta, in attesa di tempo migliore; cose tutte dalle quali un uomo, che abbia avuto addosso la febbre dello scrivere, mal volentieri si separa, perchè ognuno di quei fogli rammenta un bel giorno, un pensiero felice, una speranza, una illusione, e la mente, guidata dal tenue filo nel laberinto degli anni trascorsi, corre tra desiosa e malinconica indietro, ripensando mille casi abbelliti dalla lontananza, per fermarsi poscia in questa considerazione tristissima: ohimè, tutto passa, tutto muore, in questo povero mondo!

E chi non ricorda poi quell'altra ricchezza del cassetto più geloso della scrivania, fatto custode delle lettere e dei piccoli doni d'amore? Perchè ognuno di noi ci ha pure avuto i suoi romanzetti giovanili; tal volta non finiti per difetto di occasioni, di audacia nostra o di buona volontà della gentil collaboratrice; tal altra male conchiusi dalla ferrea rigidezza degli eventi, o interrotti o guastati dai capricciosi trapassi della volubile giovinezza; tutti vani, transitorii come i nembi di maggio, e per dirla umoristicamente, falsi allarmi di un cuore che non ha sostenuto ancora la vera sconfitta che lo riduca in servitù duratura.

Di simili romanzetti facevano fede quelle lettere, così gelosamente custodite, legate in principio da un nastro verde, azzurro o rosato, il cui nodo era soventi volte disfatto per leggere e rileggere que' dolci messaggi e veder di cogliere nuovi punti e nuove virgole che dicessero: t'amo! E la preziosa mèsse era riposta in un elegante scatolino, nel quale andavano a riposarle in compagnia i fiorellini furtivamente dati da lei in un giro di mazurca, i guanti felicissimi che l'avevano toccata, le foglie secche della robinia sotto la quale essa era stata un giorno seduta; un tesoro, a farvela breve, un tesoro che non avreste barattato con tutte le ricchezze dei Rotschild. Questo va inteso per que' tempi; che, veramente, più tardi la divozione andava scemando per gradi; più raramente il nodo era disfatto; più raramente aperto lo scatolino elegante; poi dimenticato del tutto in un angolo del conscio cassetto, dove talvolta rovistando per altre ragioni, appariva improvviso ai vostri occhi; e allora vi facesse sospirare, o sorridere, vi tornava giovani un tratto, e… e… che serve tacerlo? non ardivate darlo alle fiamme.

Il caso di Lorenzo era diverso, come abbiam detto più sopra. Egli aveva a distruggere inesorabilmente ogni ricordo del passato, che potesse lasciare i superstiti, e quel ch'era peggio, i messeri del Fisco, in balìa di segreti, non tutti, nè interamente suoi. Forse egli aveva già di soverchio aspettato, e se ci era biasimo a dargli, risguardava appunto l'indugio ch'egli aveva posto alla esecuzione del suo __auto da fè__.

Già, le carte più rilevanti erano state arse nella notte alla fiammella del candeliere. Altre andavano a mano a mano seguendo la sorte delle prime. Ma la più parte erano fatte a minuzzoli, per tema che l'odore di bruciaticcio, invadendo la camera, non avesse a dar sospetto in casa.

Ed ormai non restava più altro d'intatto fuorchè la cassettina d'ebano, già più volte accennata nel corso del nostro racconto. Lorenzo Salvani, dando sesto a tutte le cose sue, ben sapeva di doverci giungere, a quella __incognita__ del suo cassettone; epperò quasi senza formarne il disegno in mente, aveva lasciato ultimo tra le sue cure il pauroso problema.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
25 haziran 2017
Hacim:
520 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 5, 2 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 5, 2 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 3, 3 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre