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Kitabı oku: «Il Libro Nero», sayfa 3

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CAPITOLO III

Come il biondo Fiordaliso fu vinto in tenzone poetica, e del rammarico ch'ei n'ebbe

Allora, in mezzo alla aspettazione universale, lo strano ospite di Roccamàla pose le mani sullo stromento di Fiordaliso, che più non parve lo stesso. Le sue dita, adunche come gli artigli d'un falco, cavarono dalle corde una tempesta di suoni, striduli e sto per dire non umani; strano preludio che fece correre un brivido di terrore per l'ossa a quella nobile udienza.

– O come suonate voi, messer pellegrino? – chiese Enrico Corradengo.

– Come il Paganini.

– E chi è il Paganini? – dimandò un altro della brigata.

– Un gran trovatore, messeri, un gran trovatore.

– E… – si provò a dire Fiordaliso, che udiva toccato il liuto da mano maestra e già si sentiva una spina nel cuore, – e vi ha insegnato egli?..

– No, io a lui; – rispose asciuttamente il pellegrino.

– Ah! noi siamo dunque al cospetto di un maestro… – disse il conte Ugo.

– Oh, questo poi no, messer lo Conte! Pizzico un tratto, per mio logorare, ma non la pretendo a maestro nella gaia scienza, come fa qualcun altro. Ora, ecco, magnifici messeri, vi canterò la ballata dell'uom felice, la ballata di Giobbe.

– Vuol essere allegra! – disse mastro Benedicite fra i denti; e frattanto di sotto alla tavola fece il segno della croce, imperocchè, dopo quel preludio indiavolato, gli era tornata la paura in corpo.

Per tutta la comitiva si fece un gran silenzio, appena il pellegrino ebbe annunziato il titolo della sua ballata. E l'ospite di Roccamàla, con voce ingrata, ma che costringeva ad ascoltare, così diede principio al suo canto:

 
Era su in alto splendida festa,
Chè avea l'Eterno corte bandita.
Calici in mano; corone in testa;
Tocche le cetre da rosee dita.
Tutti raccolti nel ciel natio
Eran gli alati figli di Dio.
 

– Il cominciamento è bello! – gridò Ansaldo di Leuca. – Pare una copia della nostra brigata, salvo che noi non abbiamo corona in testa e non siamo figli di Dio, e voi non avete le dita rosee, messer pellegrino! —

Il cantore rispose alla celia di Ansaldo con un sorriso che mise in mostra trentadue denti nitidi ed acuti come quei d'una sega, e, ripigliato l'arpeggio, prosegui:

 
C'eran tutti, chè in lieto accordo
Venner da' chiari regni e da' bui;
E quell'astuto, cui non fu sordo
D'Eva l'orecchio, c'era pur lui,
Da Dio colpito già d'anatema,
D'alta scienza mastro Aporèma.
 

– Aporèma! È un nome saracino? – esclamò Ansaldo di Leuca.

– No, – soggiunse Corradengo – un nome greco.

– Greco, o saracino, – borbottò mastro Benedicite, – gli ha da essere sinonimo di Satanasso. —

Il pellegrino rispose con un altro dei suoi tetri sorrisi, e continuò cantando:

 
Spirto del dubbio, spirto che indaga,
Che viver sdegna contento al quia,
Nè di fallaci larve s'appaga,
E l'uom da' stolti sogni disvia.
Com'ei da sezzo giunto s'assise,
Lo vide il vecchio Sire e sorrise.
 
 
– Che vuoi Satanno? –  Buon sire Iddio,
Un posto al vostro gaio banchetto!
Vostra fattura, padre, son io,
Sebben m'abbiate poi maledetto,
E qual maestro lasciato all'uomo
Dopo la biblica scena del pomo.
 
 
– Sì veramente, spirto malnato,
E aver ciò fatto mi seppe reo!
Ma non hai tutti pure ingannato…
Ti sfugge il giusto prence Idumeo…
– Ve' gran fatica! Voi lo volete…
Ma lo lasciate solo, e vedrete! —
 
 
– Sì, tenta! io tolgo da lui la mano…
Ma inver sovr'esso fai mala prova,
– Perchè? fors'egli fuor dell'umano,
Oltre la terra sue gioie trova?
Hollo a far tristo, buon sire Iddio,
O ch'io, Satanno, non son più io! —
 

Qui il pellegrino fece una sosta, che nessuno degli astanti volle turbare co' suoi ragionari, tanto erano ansiosi di udire la continuazione. E questa non si fece attender molto, poichè, dopo un altro arpeggio più cupo del primo, e con voce più stridula, il cantore di Aporèma venne alla seconda parte della ballata.

 
Il vecchio di lassù tenne la fede,
Perchè sillaba sua non si cancella,
E l'uom felice in potestà gli diede.
 
 
Ratta sui vanni allor d'atra procella,
Scende sventura all'idumee pendici,
Strugge i campi, gli armenti e le castella.
 
 
Ve' subito oscurarsi i dì felici
Del prence, e ve' dalle dolenti case
Ad uno ad uno disparir gli amici!
 
 
Nè il vinse ciò, nè l'ira al cor süase.
Guardò la donna sua, baciolla, al core
Forte la strinse, e impavido rimase.
 
 
Ma passa ancora il nembo struggitore
E a lui, che nulla sembra aver sofferto,
Della salute inaridisce il fiore.
 
 
Già bellezza e vigor l'hanno deserto,
E tabe ria da cento piaghe stilla
Onde apparisce il corpo suo coverto.
 
 
Ve' donna innamorata! Amor vacilla.
Ve' cor cui l'uomo non mutevol creda!
Torse il piede ad un tempo e la pupilla.
 
 
Solo, ognor solo, parta il giorno o rieda,
Alla brina gelata, al sol cocente,
Solitario carcame a' vermi in preda!
 
 
Pur gli rimase il raggio della mente…
Ma udite qual ne fece uso sennato;
Maledisse all'Eterno, e irriverente
 
 
Gli domandò: «perchè m'hai tu creato?»
 

Giunto alla fine della seconda parte, la quale, anzi che un canto, fu una recitazione drammatica, accompagnata da rauchi suoni di corde, il pellegrino fece la seconda sosta.

La brigata non fiatava; ma il suo silenzio non era per fermo testimonianza di freddezza; chè ben dimostravano il contrario gli sguardi fisi e le labbra ansiosamente tese verso il cantore.

La imprecazione di Giobbe era stata resa con un accento da mettere i brividi, e più paurosa l'avea fatta il liuto, con un suo accompagnamento beffardo. Poco stante, il pellegrino, facendosi da capo alla cantilena delle prime strofe, ripigliò in questa guisa a cantare:

 
Era su in alto splendida festa
Ed Aporèma fu del cortèo.
– Orben, signore, dite, che resta
Del vostro lieto prence Idumèo?
Povero, infermo, solo, reietto,
Al suo fattore grida così:
«Perchè mi desti core e 'ntelletto?
«Perchè m'apristi le luci al dì?»
 
 
Affè, gran cosa l'esser felice
Se un sogno all'uomo la vita infiori,
E raggio d'iride l'ingannatrice
Zona vi stenda de' suoi colori!
Felice è l'uomo fin che la fede
Inviolata nel cor gli sta,
E il primo intonaco di ciò che vede
A brani a brani non se ne va. —
 
 
– E tu, Aporèma, forse più lieto
Sei tu che 'l negro dubbio diffondi,
Tu che turbandomi l'alto secreto
Ogni parvenza scuoti e disfrondi?
Dimmi, te stesso non hai dannato
A lutto eterno fin da quel dì
Che in questo sogno viver beato
Sdegnasti e l'ira mia ti colpì?
 
 
– Il ver parlate, buon sire Iddio;
In cor non sente gioie Aporèma.
Nel duol mi cruccio, ma il duolo mio
Non può speranza vincer, nè tema.
Quanto la vostra mano dispone
Per me segreti, sire, non ha:
So quanto valgono cose e persone,
E niun sul prezzo gabbo mi fa.
 

La ballata del pellegrino, e la sarcastica chiusa, fecero una grande impressione sulla nobile comitiva. Gli amici del conte Ugo e i suoi vassalli si guardarono in viso trasognati; indi tornarono a guardare il pellegrino, sulle cui labbra scorgevasi ancora il sogghigno di Aporèma. A mastro Benedicite, allora più che mai ricaduto in balìa delle sue superstiziose paure, venne in mente che fosse proprio lui quello spirito maligno del quale aveva cantate le imprese; epperò il degno strozziere se ne rimase mutolo, a capo chino, fantasticando sulle conseguenze di quella visita notturna, e non badando punto a citazioni latine; segno che il suo turbamento era grave.

Anche il conte Ugo era muto, sebbene non partecipasse alle ubbìe del suo fidato vassallo e non vedesse nell'ospite di Roccamàla che un uomo come tutti gli altri suoi commensali. La filosofia dello sconosciuto lo aveva profondamente commosso, ed egli era rimasto inerte sulla scranna, con lo sguardo fiso ma disattento, come di chi sembra aguzzar l'occhio verso un punto dello spazio, e non fa in quella vece che seguire il corso vagabondo d'immagini confuse, le quali non hanno per anche presa la forma di un pensiero.

Il primo a rompere quel silenzio, e direi quasi quell'incantesimo, fu il biondo Fiordaliso, pieno il cuore della sua giovanile baldanza.

– Leggiadra è la vostra ballata, messer pellegrino; ma egli mi sembra che la storia da voi narrata non sia molto d'accordo con la Bibbia, segnatamente nella chiusa. —

La nota del paggio era girata per la mente a tutti i commensali; epperò eglino, udendola espressa dalle parole dell'adolescente, gli tennero bordone con un cenno del capo.

Ma il pellegrino non era uomo da darsi vinto per simili frasche. Crollò le spalle, fece una smorfia e rispose con aria benigna e compassionevole:

– Ah! perchè voi non avete letto che la Volgata, messer Fiordaliso. La storia vera è quella che v'ho raccontata io, e si legge nel testo caldaico della Vaticana. Nella Volgata s'è tenuto altro metro, per tema che la lettura avesse a riuscire troppo sconsolante; della quale sollecitudine per le coscienze timorate vuolsi saper grado alla Chiesa.

– Per ventura le sono finzioni poetiche dei tempi andati! – disse Ottone di Cosseria.

– Sì, e non possono mutare il verace aspetto delle cose; – soggiunse Enrico Corradengo. – L'amicizia, a malgrado dei vostri biblici esempi, è un alto e durevole affetto.

– Giobbe lo sa, mio nobil sere! – esclamò il pellegrino.

– Ah, lasciamolo in pace! – rispose il Corradengo. – Io, per me, tengo che se egli avesse vissuto ai tempi nostri, tra cavalieri, nessuno degli amici suoi lo avrebbe abbandonato nella disgrazia, e ognuno si sarebbe recato a ventura di spartire con lui. —

Il sogghigno di Aporèma si dipinse anco una volta sulle labbra del pellegrino. Il Corradengo, turbato, non disse più altro.

– E non si dirà nulla della donna del principe d'Idumea? – entrò Ansaldo di Leuca. – Io mi penso che questa dama, se pure c'è stata, ed ha operato secondo il detto della vostra canzone, messer pellegrino, non era donna di gentil sangue. L'amore è fortissimo e nobilissimo affetto, che vince ogni ostacolo, che sopravvive ad ogni sciagura, come c'insegnano esempi molti e recenti. Io vi prego, messere, se avete caro il vostro buon nome di trovatore, a non farvi udire nè da Matilde, contessa di Sciampagna, nè dalla marchesina di Monferrato, nè da Giovanna di Torrespina, la più savia come la più leggiadra gentildonna di cui cavaliero portasse mai i colori. —

Al nome della castellana di Torrespina, l'ospite sconosciuto fece un volto più umano, come chi intenda ad entrare nelle grazie di qualcheduno, o non voglia, per cortesia, far contro a giudizii che risguardano le persone.

– Tolga il buon sire Iddio, – rispose quindi ad Ansaldo, – che io voglia farmi udire a cantar sul liuto fuori di questa nobil brigata. Vi ho poi detto, messeri, che io non sono trovatore. La canzone di quel biondo alunno delle Muse mi ha messo in vena, e mi sono provato anch'io a dirvi la mia, tanto per fargli intendere quello che una lunga esperienza ha insegnato ad un povero vecchio; che tale io mi sono da lunga pezza, e abbandonato da tutte quelle dolci fantasie che illeggiadriscono la vita ai giovani cavalieri. Ma io so bene che i miei canti non potrebbero andare a grado di tutti, come so che la verità non è mai bella, nè lieta ad udirsi. —

Il conte Ugo uscì finalmente allora dal suo silenzio.

– Messer pellegrino, – diss'egli con molta gravità, – la vostra ballata è triste assai, ma bella del pari, e vi pone così alto nella mia estimazione che io non saprei dirvi di più. Voi siete il mio ospite per tutto quel tempo che a voi piacerà, e quando la mia casa vi riesca troppo uggiosa dimora, della qual cosa io sarò dolentissimo, il miglior ronzino, o palafreno di Roccamàla rimarrà vostro, e vostro il migliore de' miei falconi, se il passatempo di sant'Uberto v'è grato.

– Voi siete, messer lo conte, – disse il pellegrino inchinandosi profondamente, – il più magnifico e liberal cavaliero che al mondo sia. —

A Fiordaliso si sbiancarono le guancie; delle labbra non saprei dirvi, perchè il biondo adolescente, vinto nella sua poetica tenzone al cospetto e per sentenza di conte Ugo, le aveva raccolte tra i denti, e premea forte, in atto dispettoso. Era quello il primo giorno di sua vita che cosa alcuna gli avesse a dolere; e il cominciamento fu amaro.

Tanto per fare alcun che, e per non addimostrare il suo broncio, il povero paggio andò a togliere il liuto dalle mani del pellegrino e lo recò fuor della sala.

– Va, stromento d'inferno! – gridò egli stizzito, buttandolo su d'una cassapanca che era nella sua camera. – E adesso aspetta che io ti ripigli!

Il povero liuto, che non ci avea colpa, risuonò alla percossa; le corde mandarono un gemito, quasi un accento di rimprovero. Ma il paggio non si pentì dell'opera sua, e chiusosi l'uscio dietro le spalle, se ne andò a parare il vento su d'un terrazzo, molto lunge dalla sala dov'erano i convitati del conte.

CAPITOLO IV

Che cosa fosse, e perchè temuta, la torre del Negromante

Levate le mense a notte alta, conte Ugo accomiatò gli amici, non già dal castello, perchè erano ospiti suoi, ma dalla sala del convito. Allora si fecero innanzi i famigli, che già stavano pronti con le torce di resina in mano, e scortarono ognuno dei nobili cavalieri nelle stanze a lui assegnate.

Per tal modo, non rimasero presso il conte Ugo che il pellegrino e mastro Benedicite, strozziere, maggiordomo, ser faccenda di Roccamàla.

Ugo era sopra pensieri, poichè la conversazione e il canto del suo nuovo ospite lo avevano fortemente turbato; ma siccome egli era gentil cavaliere, la mestizia non poteva fargli dimenticare il debito suo verso gli ospiti.

– Messer pellegrino – diss'egli – a me duole di non potere usarvi tutta quella cortesia che si vorrebbe per un uomo della vostra levatura. Roccamàla è un ampio maniero, ma pieno d'amici, ed io non posso offerirvi che un alloggiamento indegno di voi… salvo il caso che vi acconciate a riposare nella torre del Negromante.

– Che dite voi, messer lo conte? – gridò mastro Benedicite. – Farlo alloggiar nella torre…

– No, io non ho detto questo; sibbene ho voluto far intendere al nostro ospite come io non possa offerirgli una stanza degna di lui.

– Che cos'è questa torre del Negromante? – domandò il pellegrino.

– Ah, per darvene una giusta notizia, mi bisognerebbe raccontarvi una storia troppo lunga, e tale da farvi addormentare sulla scranna. Roccamàla, messer pellegrino, è un triste luogo, ed io mi penso che la tristezza sua entri in gran parte nell'umor nero che ha regnato su sette generazioni de' miei antenati. Si narrano di questo castello le più paurose leggende… Figuratevi! Il conte Ugo, primo dei Roccamàla, nella sua vecchiaia si era dato anima e corpo allo studio delle scienze naturali, e la buona gente dei dintorni fantasticò che egli avesse commercio con lo spirito maligno. Quando egli venne a morte, quella torre, dov'egli era uso dimorare, e che ha tolto da lui il nome di Negromante, fu argomento di terrore per tutti, e pochi ardirono d'allora in poi di passarvi la notte.

– Ah, ah! – disse, ridendo, il pellegrino. – Storielle da metter paura ai bambini!..

– Lo dico anch'io, – rispose il conte – ma tant'è; la cosa è passata in consuetudine, e non si può levar dal capo a nessuno de' miei vassalli che in quella torre ci sia un incantesimo, un diavoleto e che so io… Ma che cosa volete dir voi, mastro Benedicite, che mi fate quegli occhi da spiritato?

– Dico, messer lo conte, che voi mi sembrate pigliare a scherno la cosa più vera del mondo; dico che il diavoleto c'è, e che la storia non mente…

– Sì, la storia… tutto quello che vorrete, ma intanto il libro nero non s'è mai potuto trovare.

– Che prova ciò, messere?

– Prova che le sono ubbie da bambini, o da vecchi rimbambiti; e ciò sia detto senza far torto a voi, che siete un uomo a modo, quantunque troppo facile a credere certe stramberie della gente volgare.

– Ah! ci abbiamo dunque a Roccamàla una vecchia leggenda? – soggiunse il pellegrino. – Io son ghiotto di simili novità. Narratemi questa leggenda, Benedicite mi dilectissime! Se debbo andare a dormir nella torre, è pur ragionevole che io sappia…

– Ci andrete? – dimandò lo strozziere, guardando il pellegrino con atto di maraviglia.

– Se ci andrò? Lo chiedo per grazia profumata dal conte di Roccamàla. E chi sa che io, con le sante reliquie e le indulgenze che porto da Roma, non venga a capo di togliere dalla torre del Negromante…

– Ah! così voi diceste il vero! – interruppe mastro Benedicite. – Io, per me, con buona pace del magnifico conte Ugo, credo che ne sia grande il bisogno.

– Ma raccontatemi dunque, ve ne prego in nome dei vostri diletti falconi, o nobile accipitrario – disse il pellegrino, alludendo alla professione del falconiere – che cosa avviene egli in quella torre del Negromante?

– La è una storia lunga – rispose mastro Benedicite – siccome vi ha detto messer lo conte pur mo', ed ha cominciato da Ugo il Negromante, che dopo aver preso il convento ai monaci di San Bernardo, per farne una rocca, si trasse il diavolo in casa con le sue stregonerie.

– Cioè – soggiunse il conte – furono i monaci che inventarono questa storia del diavolo, per vendicarsi della perdita del convento. Ma basti, ve la dirò io, questa leggenda, poichè il mio falconiere ci menerebbe troppo per le lunghe. Si narra adunque che, dopo la morte di Ugo il Negromante, in certe notti dell'anno si vedessero apparir fiamme dalle finestre della torre che sta sul burrone; che poi queste fiamme si vedessero ogni notte; e v'ebbe chi giurò d'aver veduto nel bagliore il profilo del mio antenato. Altri disse del diavolo; altri di tutt'e due, che stessero amichevolmente a colloquio. Comunque sia, cose strane si vedevano; e frattanto, chi dormiva nelle stanze della torre non udiva mai nulla, non si addava di nulla; che anzi, appena postosi a letto, era côlto da sonno così profondo che fino a giorno inoltrato non c'era più verso di svegliarlo. Notate, messer pellegrino; non sono io che vi narro queste cose; è la cronaca di Roccamàla. Ed essa narra eziandio che, dopo molti anni di queste paurose apparizioni, uno dei miei maggiori, Aleramo il biancamano, mandò pei monaci, e con donativi alla loro comunità cercò di renderseli benevoli, affinchè cacciassero il demonio dalla torre del Negromante. Ma, o fosse che i loro scongiuri non approdassero, o che non bastassero i presenti del mio trisavolo, fatto sta che il demonio non volle uscir fuori, e bisognò chiamare quassù il santo vescovo Gualberto, uscito dall'ordine de' Cisterciensi medesimi, il quale una notte si chiuse nel luogo maledetto, dopo essersi fatto dare un foglio di pergamena, chiuso in una fascia di pelle nera, e non ricomparve che la mattina seguente. Ma egli pare che il santo vescovo avesse sfruttato per bene il suo tempo, imperocchè corse la voce che egli avesse parlato con lo spirito maligno, e trovatolo duro anzichè no, avesse pure ottenuto da lui la promessa di non rimetter più piede in Roccamàla, sotto certe condizioni, le quali furono scritte nella pergamena e sottoscritte dai due in formis ed modis. Dico bene, mastro Benedicite?

– Benissimo, messer lo conte, benissimo!

– E queste condizioni, – disse il pellegrino, che aveva mostrato di udire con molta attenzione la leggenda del suo ospite – quali erano esse?

– Affè, ch'io non saprei dirvele ora! – rispose il conte. – Ma egli mi par di aver udito che tra l'altre ci fosse questa di rinunziare a' suoi diritti di possesso su Roccamàla, fino a tanto non ci fosse tra i suoi signori un uomo contento. —

– Bizzarro, quel demonio! – esclamò il pellegrino.

– Ve l'ho detto, messere; questa favola deve essere stata messa fuori dai nostri ottimi frati, e resa poi più credibile dal fatto che tutti i signori di Roccamàla furono gente malinconica oltremodo. – Che ha il castellano che non lo si vede mai a sorridere? – Non sapete? i signori della rocca non possono essere lieti mai; il santo vescovo Gualberto sapeva pure il fatto suo, quando accettò il patto del diavolo. O come volete che faccia egli a tornare, se questi castellani, di padre in figlio, son sempre così rannuvolati? E così, una storia siffatta ha potuto essere creduta, e sopra tutto accresciuta dalle superstizioni del volgo.

– E il libro?..

– Ah, il libro nero? Benedicite vi potrà raccontare com'è scritto, come legato, e quante borchie, quanti fermagli ci avesse sulla negra coperta; ma ohimè, vedete leggenda sciagurata! nè egli l'ha visto, nè altri al mondo.

– Messere… – esclamò Benedicite, con accento di rispettoso rimprovero.

– Sì, sì, – ripigliò il conte sorridendo – la nota cronaca racconta che il libro nero fosse chiuso in un armadio di legno, rivestito di ferro, che sta ancor di presente nella torre. Ma si è rovistato ogni cassettone, ogni ripostiglio, e il libro non è comparso. S'è picchiato su per le pareti, cercando se si sentisse alcun vuoto, ma le furono novelle. Chi vi dirò io di vantaggio? Da Aleramo biancamano in poi, nessuno mai seppe di questo negozio, chè certo ha da essere stato inventato più tardi dal convento vicino. Infatti il mio trisavolo non ne tramandò memoria veruna, e non ne seppero nulla, almeno per diretta via, nè Corrado senza paura, nè Ingone il rosso, nè Roberto il taciturno, che fu mio padre. Ora, voi sapete tutto, cioè quanto rileva, della leggenda di mastro Benedicite, la quale vuol essere compiuta col dirvi che nella stanza della torre, e sempre a cagione di questa favola, non ci dorme più alcuno, sebbene ella sia una delle migliori di Roccamàla.

– Orbene, con vostra licenza, messer lo conte, andrò io a dormire colà; – disse il pellegrino; – per dove ci si va egli?

– Benedicite vi accompagnerà, che ben vi è debitore di tanto, dopo avervi fatto aspettare così lungamente alla entrata del castello.

– Oh, io non gli tengo il broncio per cotesto! – soggiunse l'ospite, mettendo con dimestichezza una mano sulla spalla del falconiere. – Ma che avete voi, mastro Benedicite? Si direbbe che un povero pellegrino vi fa paura! Non son bello, lo so, ma non avrei creduto mai che voi, vir sapiens, giudicaste gli uomini dalla loro apparenza.

– Diminguardi, messere! Quod Deus avertat… – rispose lo strozziere, provandosi a ridere.

E intanto tremava a verghe. La torcia di resina gli ballava la danza macabra nel pugno.

Qui, fatta riverenza al conte Ugo, il pellegrino si ritirò, accompagnato dal povero strozziere.

Rimasto solo, il conte si diede a passeggiare per la sala, senza ricordarsi dell'ora tarda e dei famigli che lo attendevano sul limitare, per rischiarargli la via fino alle sue stanze. Egli, già se n'è accorto il lettore, non era più di quel gaio umore, col quale si era seduto a mensa; molte cose erano avvenute nel picciol mondo della sua mente, molti e svariati pensieri vi turbinavano per entro.

Per la prima volta in sua vita, Ugo di Roccamàla incominciava a dubitare del lieto aspetto in cui solevano apparirgli le cose; il sottile veleno della filosofia d'Aporèma gli si era filtrato nel cuore, ed egli già sentiva quell'interno disagio, quel turbamento, quella inquietudine, che sono i segni precursori di tutte le infermità, siano esse del corpo o dell'anima.

Nel canto del pellegrino, a dir vero, non era nulla che egli già non avesse udito, o fatto argomento di controversia nella sua mente; chè anzi, discusse tra sè, o con altri, le ragioni del dubbio e quelle della fede, già da lunga pezza egli aveva data la palma a quest'ultima, e non era uomo da mutarsi così facilmente per ragionamento d'altrui. Ma egli bisogna pur dire che strane oltremodo erano le circostanze tra cui gli era apparso il pellegrino. Quello smilzo personaggio, che non si sapeva chi fosse, che parea contraddirsi ad ogni istante, che diceva le cose più gravi e malinconiche con bocca da ridere e che rideva con cera da funerale, gli aveva fortemente colpita la mente. Egli poi non se ne era anche fatto accorto, ma le paure del suo falconiere gli giravano confusamente per la fantasia: e tutte queste cose, mettendo l'animo suo in uno stato particolare, davano risalto ad una tesi che gli si offriva per la prima volta armata di beffardi sillogismi, di cupi dilemmi e di paurose interrogazioni.

Il suo raziocinio non s'era anche ficcato in quel ginepreto; sto per dire che gli occhi della sua mente non avevano ancora misurato il pericolo. Sentiva, non pensava per anco, o, per dire più veramente, i pensieri gli erravano ancora nel cervello, incerti, pallidi, senza contorni, sformandosi ad ogni tratto e in cento guise, a mo' di quelle fantastiche immagini che visitano i sogni dell'uomo, allorquando la febbre scorre nel sangue ed agita i polsi.

A toglierlo da quello stato, giunse in buon punto la voce di un famiglio. Veduto che il conte non pensava ad uscire, egli si era affacciato sul limitare, con la sua torcia in mano, per chiedergli se volesse ritirarsi nelle sue stanze.

– Ah! gli è vero! – disse Ugo, risovvenendosi dell'ora tarda e dell'esser solo oramai nella sala.

E portatasi una mano nei capegli, come per ravvivarli sulla fronte e cacciare nel tempo medesimo un importuno pensiero dal capo, conte Ugo s'innoltrò tra due file di servitori fino al suo appartamento.

– Era tardi davvero! – esclamò egli, vedendo nella camera innanzi alla sua il paggio Fiordaliso, che si era addormentato vestito daccanto al suo letticciuolo.

– Questo povero ragazzo non ha potuto aspettarmi più oltre. Svegliatelo, e ditegli che vada a letto e dorma a suo bell'agio, ch'io sono già nelle mie stanze e non ho bisogno di lui. —

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
25 haziran 2017
Hacim:
190 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain

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