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Kitabı oku: «Raggio di Dio: Romanzo», sayfa 15

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Capitolo XV.
Il ragno e la sua tela

La mattina del 7 maggio, dell’anno 1506, gli abitanti di Laredo, gran pescatori e salatori di pesce nel cospetto di Dio, ebbero il magno spettacolo d’una armatetta navale che s’accostava con buon vento al loro porto, forse il più vasto, ma per allora il più sabbioso di tutta la costa di Biscaglia. Essi non avevano da temere uno sbarco di nemici, poichè le navi battevano bandiera castigliana; e del resto, fin dalla sera innanzi, troppa gente li aveva avvertiti, accorrendo a Laredo; troppa più gente che non potesse albergare la piccola città marinara; tanto che, rimpinzate le case, si era dato, od era stato preso alloggio nei magazzini, nelle scale, nei portoni, sotto gli archivolti, dovunque fosse un po’ di riparo; e molti poi s’erano adattati all’albergo della bella Luna, battendo i denti dal freddo. Ma per amore non si sente dolore: ed era amore quello che aveva tirate tante migliaia di grandi e piccoli gentiluomini a Laredo, per assistere all’arrivo di Giovanna di Castiglia, l’aspettata, l’invocata, l’adorata regina.

Le navi avevano ammainate le vele e gittata l’áncora fuori del porto; segno che non si fidavan troppo del suo fondo, o che abbastanza lo conoscevano. Subito dopo si spiccò dalla capitana un palischermo, a cui altri due se n’aggiunsero, fiancheggiandolo, ma rimanendo rispettosamente indietro due o tre palate di remi. E via via dalle altre navi si spiccarono altre imbarcazioni, venendo a formare sull’acqua una specie di falange macedone, la cui punta era il palischermo anzidetto, che portava a poppa lo stendardo regale, di rosso al castello d’oro, che era di Castiglia, ma partito di Leone, cioè d’argento al leone di rosso. Come il palischermo fu presso alla calata del porto, in mezzo alle grida e agli evviva della moltitudine affollata, si levò dal sedile di poppa una donna vestita di bianco, che portava sul capo, trattenuta fra le ciocche dei capelli nerissimi, una piccola corona d’oro. A lei volevano dare il passo i gentiluomini che le erano venuti compagni; ma ella, mentre un alfiere spiccava il vessillo dalla poppa, si trasse indietro verso un giovane cavaliere, a cui disse con accento di tenerezza:

– Filippo, siate voi il primo a toccare il suolo di Castiglia, che vi appartiene, come io vi appartengo. —

Pareva una bella cortesia di regina al suo compagno di reame; ma era un grido dell’anima, e Giovanna di Castiglia amava pazzamente quell’uomo.

Filippo d’Austria meritava egli un amor così forte? Per la bellezza, sì, certo. Giovane, che ancora non aveva toccati i ventotto; biondo dorato i capegli; bianco rosato la carnagione, e così fine la pelle, che contro la luce del sole pareva di vederci correre il sangue di sotto; d’una maravigliosa delicatezza i lineamenti del viso; snello di membra, elegantissimo in ogni movenza, dava l’immagine di tutte le perfezioni raccolte in un tipo esemplare di umana bellezza; con molta propensione, s’intende, alla grazia femminile, anzi che alla energia mascolina. Ma queste, che sarebbero inezie in ogni caso, non potevano neanche venire alla mente, guardando quel miracolo di principe. Tutti, in Europa, lo chiamavano Filippo il Bello, e con assai più di ragione che non si decorasse d’ugual soprannome un altro Filippo, di due secoli innanzi, e di Francia. Le donne, poi, specie se avevano la fortuna di vederlo da vicino, lo chiamavano l’arcangelo Gabriele; non sappiamo con quanta verità, ma certo con gran dispetto della regina Giovanna. E questo non forse per la irriverenza usata all’arcangelo, di compararlo ad un personaggio mortale, ma certamente perchè quell’ardito paragone le pareva ispirato da sentimenti troppo più arditi. Ammirassero da lontano, e tacessero; questo avrebbe voluto Giovanna. Erano già tante le sue paure! Così bello, da passare in proverbio, e sapendo che il sorridere gli stava bene a viso, mettendo in mostra un vero scrigno di perle, Filippo sorrideva spesso alla gente; e quando si trovava alla presenza di belle donne, fossero dame od ancelle, gli sfolgoravano gli occhi, e le dolci paroline gli fiorivano sul corallo tenero delle labbra stupende. E Giovanna ne soffriva, quantunque non avesse vere ragioni, o non gliene fossero venute sott’occhio, di lagnarsi del suo maritino. Sposata a lui nel 1490, ne aveva già avuti cinque figliuoli, Carlo, Ferdinando, Eleonora, Elisabetta, Maria: un sesto rampollo, Caterina, era ancora di là da venire; in viaggio, come si dice ai bambini curiosi.

Giovanna di Castiglia non si poteva dir brutta, perchè non era deforme; ma non si poteva dir bella, perchè non era piacente. Nata in un grado sociale più umile, non sarebbe stata osservata, nè per un verso, nè per l’altro, restando in quella mediocrità che solo può tornar gradita ai filosofi. Avrebbero potuto nondimeno piacere in lei due grandi occhi neri pensosi, ma troppo spesso velati, Dio buono, come smarriti in estatiche contemplazioni; le quali non erano infrequenti, ed occorrevano lì per lì, dovunque ella fosse, e in qual si fosse più numerosa brigata, solo che fosse lasciata un istante a sè stessa. S’incantava, allora; e quei grandi occhi, fissi in un punto dello spazio, perdevano la lucentezza insieme con la mobilità; onde appariva ch’ella non guardasse fuori e lontano, ma dentro di sè. Vedeva allora Filippo, il suo bel Filippo; e a volte gli sorrideva, a volte torceva la bocca, si sbigottiva, e usciva allora in rotte parole. Oh Filippo, no, no! Che ti ha mai fatto, questa povera Giovanna? Chiamata di schianto, ritornava in sè stessa, sorrideva malinconicamente, e si scusava del suo vaneggiare, dicendo:

– O sire Iddio, che sogno spaventoso ho mai fatto! —

Nè mai, per pregarla che si facesse, voleva dire che sogno fosse. Onde già intorno a lei si sussurrava che fosse un po’ matta; mentre al padre di lei sarebbe stato caro (e ne sappiamo oramai la cagione) che fosse matta del tutto.

Il voto di quel padre amoroso doveva essere esaudito, pur troppo; ma non per allora. Per allora, la nuova regina di Castiglia, senza darne avviso a nessuno, senza riconoscer reggenti volontarii, nè amministratori del regno, approdava a Laredo, per venire ad occupare il suo trono. E mentre l’accolgono a festa i cavalieri di tutta Castiglia, scodelliamo qui alcune notizie genealogiche di lei e dei suoi. Non saranno molte; appena quel tanto che basti a far intender le cose che dobbiamo descrivere.

Giovanna era nata la seconda di quattro figliuole della grande Isabella. La prima, pur essa di nome Isabella, e la terza chiamata Maria, erano state successivamente maritate ad Emanuele il Fortunato, re di Portogallo; il quale, per verità, non si chiamò Fortunato perchè la prima moglie spagnuola gli fosse morta (che anzi n’avrebbe avuto, se viva, il diritto alla corona di Castiglia; onde Dio sa quante cose mutate nel mondo!), nè perchè la seconda fosse più bella e più cara, ma perchè in un regno di ventisei anni come fu il suo, la potenza portoghese era giunta al suo colmo, colla voltata del capo di Buona Speranza, colla fortuita scoperta del Brasile, con una serie di guerre felici e di utili conquiste nell’Asia, nell’Africa, nelle Indie occidentali. La quarta figliuola, Caterina, era andata sposa in Inghilterra, da prima al principe Arturo, erede del trono, e poscia, lui morto, al principe Arrigo, che fu Arrigo VIII, l’uomo delle sei mogli: due ripudiate, due decapitate, una morta per miracolo nel suo letto, un’altra per miracolo anche maggiore riuscita a sopravvivergli. Non dimentichiamo di dire che la prima delle sei, Caterina, fu tra le ripudiate: strana sorte, dopo che a forza l’avevano voluta tenere. Il suocero suo, Enrico VII, era chiamato il Salomone dell’Inghilterra; per la sua molta saviezza, certamente, non già per la sua magnificenza. Aveva ricevuto dalla Spagna dugento mila scudi d’oro per la dote, che per quei tempi era un gran fatto. Morto il principe Arturo, quel savio babbo avrebbe dovuto rimandar la sposa e la dote. Per la prima, niente di male; ma restituir la dote pesava al Salomone d’Inghilterra: ond’egli aveva fatto il savio proposito di dar la vedova del primo figliuolo in isposa al secondo. Ferdinando e Isabella se n’erano contentati; papa Giulio II aveva mandate le necessarie dispense.

Innanzi alle quattro principesse d’Aragona, com’erano chiamate dal titolo regio del padre, era nato un principe, don Giovanni; ma da alcuni anni era morto per una caduta da cavallo. Delle tre principesse superstiti, adunque, una era regina del Portogallo; l’altra principessa di Galles in Inghilterra; la terza, e prima per ragione di età, erede del trono di Castiglia, poichè fu morta la madre. Questa la regina che approdava la mattina del 7 maggio a Laredo. Moglie ad un arciduca d’Austria, portava in casa d’Austria la corona di Spagna; e le era già nato da sei anni quel Carlo, che, primo del nome in Ispagna, doveva poi essere Carlo V nell’Impero di Germania, così potente, anzi prepotente nella storia d’Europa.

Col suo bel Filippo era partita Giovanna da Brusselles; si era con lui imbarcata il giorno 8 di novembre dell’anno 1505, avviata alle coste di Biscaglia. Ma il vento e il mare cospiravano quella volta con Ferdinando d’Aragona, e il naviglio combattuto dagli elementi ebbe per gran sorte di poter appoggiare alle coste d’Inghilterra. Arrigo VII ebbe ospiti i giovani sovrani, e si può credere che con tutta la sua avarizia rallentasse un pochino i cordoni della sua borsa per trattarli a dovere. Ferdinando, che stava alle vedette, a mala pena ebbe fumo dell’appoggiata, mandò messaggi ad Arrigo, ed esortazioni e preghiere, perchè volesse trattenere quei due ragazzi, per suo avviso incapaci di regnare. Arrigo VII, il Salomone d’Inghilterra, non fu mai tanto Salomone come in quella circostanza difficile. Tenne a bada i suoi giovani ospiti più che potè, con le feste e le cacce, così mostrando di esaudire l’Aragonese; ma come gli parve che il giuoco durasse troppo, nè si potessero trovare altre scuse agli indugi, pensò che i due ospiti, se volevano andarsene, gli dovessero pagare lo scotto. Il suo regno era stato lungamente turbato da pretendenti di varia derivazione: li aveva sbaragliati tutti, presi tutti, salvo uno, Edmondo Pole, conte di Suffolk, riparato nelle Fiandre. Glielo poteva consegnare il suo ospite Filippo? Non gli avrebbe torto un capello: ma gli sarebbe stato caro di averlo sotto la sua vigilanza. Filippo glielo consegnò, e non fu bella cosa: nè certamente se ne vantò, sebbene il Tudor gli mantenesse la parola di non levar la vita all’ultimo dei suoi disgraziati rivali; grata cura che si prese parecchi anni dopo l’ottavo Arrigo, il Roboamo di quel Salomone. Così pagato lo scotto, uscivano dal Tamigi i sovrani di Castiglia, dopo tre mesi e più di quell’ozio forzato, a cui era stata buona scusa la stagione, cattiva oltre ogni termine, ed oltre ogni pronostico. E il Salomone dell’Inghilterra usava ai giovani ospiti la cortesia prelibata di non avvisare il re d’Aragona del non averli potuti trattenere di più. Di che si poteva lagnare il re Ferdinando? Per i fini di lui, per il tempo che gli occorreva a suscitar loro qualche ostacolo in casa, non erano stati trattenuti abbastanza? Il fare di più sarebbe stato come un venir meno agli obblighi sacri della cortesia, un tener prigionieri i suoi ospiti, un trattarli da nemici; cose tutte che le potevano fare un Procuste, un Licaone, un Litiersa, ed altri re birboni dell’antichità leggendaria; ed egli era il Salomone dell’Inghilterra, per bacco!

Non si lagnò Ferdinando. Oltre che sarebbe stato tardi, per potersi lagnare utilmente, egli era un esemplare di pazienza. Avvezzo ad ingannare, non si doleva troppo di essere ingannato, mettendo il guaio sul conto della sua poca prudenza, e promettendo a sè stesso di far meglio un’altra volta. Colla filosofica costanza del ragno a cui sia stata distrutta la sua tela, che si rimpiatta nel buco finchè non veda passato il pericolo di peggio, e poi riprende animoso a distendere le sue fila maestre, il re Ferdinando chinava il capo a quella buriana improvvisa, che dalla nuova Castiglia si rovesciava sulla vecchia. Come avessero quelle migliaia di signori avuto notizia della partenza di Giovanna e di Filippo dalla foce del Tamigi, mentre egli non n’era stato avvertito, non occorreva per allora indagare. Volevano la convocazione delle Cortes; era quello il grido, con cui si animavano a vicenda. Ebbene, facessero a lor posta. Egli, poveraccio, aveva lavorato fino allora per l’onore e per la grandezza della Spagna; vedessero loro di fare altrettanto, o almeno almeno di non guastare il già fatto. Se ne volevano andare i gentiluomini castigliani della sua Corte, per accorrere da Giovanna? Andassero pure; facevano bene, come sudditi di Castiglia; si ricordassero poi d’essere Spagnuoli.

In questa forma, con questi sentimenti, parlava per lui il Ximenes; con sincerità d’animo, questi, che in ogni evento restava il primate di Spagna, e da cose mutate, o rimaste com’erano, non aveva da guadagnare nè da perdere. E il re, per non parere stizzito della burla patita, il ministro per parer largo con tutti, prudentemente deliberarono di muovere a Burgos, ove del resto un giorno o l’altro sarebbero trasportate le tende.

Burgos, vasta città irregolare, piantata a semicerchio sul pendio d’un’alta collina, non aveva ancora perduto del tutto lo splendore di quei tempi che vi risiedevano i conti, poi re di Castiglia. Come quasi tutte le città medievali, era corsa da vie strette, tortuose e malinconiche: ma le sue piazze ornate di severi edifizi e di fontane, le davano una bell’aria di capitale antica. E si gloriava anch’essa d’una cattedrale gotica, del secolo XIII; ma più assai era orgogliosa della sua Calle Alta, dove ancora sorgevano le case di Rodrigo di Bivar, detto il Cid Campeador, e di Fernando Gonzales, primo conte di Castiglia. Salamanca, Valladolid, Medina del Campo, Segovia, tutte a vicenda residenze reali dei re di Castiglia, avevan fatto un po’ di torto a Burgos, il cui clima si riteneva troppo umido e freddo. Ma a Burgos, capitale antica, si erano tenute in momenti solenni le Cortes, segnatamente nel 1188, le prime in cui alla nobiltà ed al clero si aggiungessero i procuratori, o deputati delle città e dei borghi, che furono appunto in numero di cinquanta; bel principio e pronta fioritura di libertà comunali, che l’autorità regia aveva dovuto riconoscere, o forse trovato utile di mettere a fronte dei due corpi privilegiati, per tenerli in rispetto con quel nuovo elemento.

La Corte di Castiglia, recandosi a Burgos, non aveva da scegliere la sua residenza, essendo ancora in piedi l’antico palazzo di Fernando Gonzales nella Calle Alta. Non era vasto, il palazzo; non potevano trovarci alloggio due corti, se non a patto di starci pigiate. Le persone che si amano scambievolmente stanno di buon grado a disagio, pur d’essere insieme; non così quelle che stanno un po’ grosse, vedendosi volentieri come cani mastini.

Con quest’animo era corso a Burgos il re Ferdinando, e si piantava nel palazzo di Fernando Gonzales, destinato ad accoglier sovrani: per allora il solo sovrano era ancor lui, e gli altri erano di là da venire. “Li aspetterò alla Calle Alta, diceva; li riceverò io, e vedremo che cosa ne nascerà„.

Perchè non andar loro incontro fino al porto di Laredo? Ah, no, fin laggiù: non lo avevano avvisato dell’arrivo, e l’andarli a cercare, ad aspettare all’approdo, sarebbe stato ufficio di vassallo che volesse farsi ricevere in grazia. A Burgos era in luogo decente, in condizione regale. Sarebbero venuti a lui; li avrebbe accolti con ogni dimostrazione di affetto paterno; e magari, prendendo norma dalle circostanze, avrebbe rimessa loro ogni autorità sulla Castiglia, o l’avrebbe ritenuta in nome loro, per utilità del regno, per quell’onore e per quella grandezza di Spagna, che il re Ferdinando aveva spesso sulla bocca, come il suo ministro Ximenes l’aveva sempre nel cuore.

Ma coloro che avevano guidata così vittoriosamente la congiura di Castiglia non erano meno accorti del re d’Aragona. Burgos accolse la comitiva trionfale, che da Laredo era venuta alle sue nobili mura; ammirò il bellissimo re, che magnifico in sella cavalcava al fianco di Giovanna, seduta con molta eleganza su d’una bianca chinéa; applaudì, gridò l’amor suo con tutte le frasi più calde; gittò alla coppia gentile dei suoi sovrani le prime rose della stagione; ma non vide salire fino alla Calle Alta il regale cortéo. Parve cortesia profumata il volersi fermare al palazzo di città, quasi come ospiti dei sudditi loro. E i buoni sudditi di Burgos, con nuovi applausi, con grida insistenti, chiamarono tante volte al balcone del palazzo i sovrani, quante furono necessarie a contentare della loro vista i quarantamila abitanti della nobil città. E parve finalmente ricambio di cortesia lasciarli riposare un tratto, e prender ristoro, essendosi sparsa la voce che accettavano la refezione di rito presso il preposto del comune. La refezione, con tutte le cerimonie concomitanti, voleva andar per le lunghe; si sarebbero mossi verso sera, i sovrani, per salire alla Calle Alta; c’era tempo per tutti di andare al pasto quotidiano, di farci la siesta consueta, e poi ritornare in tempo a tutte le novità di quella bella giornata.

La prima novità fu questa, che l’araldo regale andò attorno per tutte le piazze di Burgos, con le trombe, e con un drappello d’arcieri. Su tutte le piazze, dopo una suonata di trombe, il nobile personaggio, ben ritto sulla sella del suo cavallo bianco, e con una voce squillante quasi come le sue trombe, lèsse al popolo la parola sovrana:

“Don Filippo e donna Giovanna, per la grazia di Dio re e regina di Castiglia, di Leon, di Granata, di Toledo, di Valenza, di Gallizia, di Maiorca, di Siviglia, ecc. ecc., ai reggenti, assistenti, alcaldi, alguazili ed altri giustizieri quali si vogliano di tutte le città, ville e luoghi dei nostri regni e dominii, salute e grazia!

“Sappiate che essendo noi deliberati di visitare tutte le terre del nostro regno, e perciò sul punto di partire da questa amata città, per rispetto alle antiche consuetudini ond’essa è privilegiata, come per dimostrazione del nostro vivissimo affetto, abbiamo ordinato che in Burgos siano convocate le Cortes di Castiglia e Leon, dove noi saremo ritornati, a Dio piacendo, prima del 20 giugno. Siano dunque avvertiti di ritrovarsi per quel giorno in Burgos i tre estamentos di Castiglia, del clero, dei nobili, dei procuratori delle città e borghi regali, a cui è concesso il diritto di partecipazione, per far le leggi nuove e riformare le antiche, per istabilire con equità i pubblici carichi, reprimere gli abusi, far ragione a tutti coloro che a noi si richiameranno di violata giustizia. Tale essendo il nostro piacere, conforme agli obblighi verso Dio e verso il buon popolo di Castiglia.

“Dato nella nostra antica città di Burgos, il giorno 8 di maggio, l’anno della natività del nostro Salvatore Gesù Cristo 1506.

“Io il Re. Io la Regina.„

Era quello un colpo maestro del buon Tellez Giron de Sandoval, duca di Ossuna, che primeggiava nei consigli dei nuovi sovrani. Ma la prima spinta era data da Beatrice di Bovadilla, che aveva preso assai facilmente presso la regina Giovanna il posto tenuto presso la grande Isabella. Ricordate che a Valladolid era venuto a cercare donna Beatrice il giovane marchese di Lucena, per riferirle in nome dell’Ossuna i desiderii del popolo; e come donna Beatrice consigliasse di rispondere in modo da contentare Valladolid senza offesa ai diritti di Burgos. L’occasione di appagare i voti dell’una e dell’altra città si era offerta più presto che Bovadilla non si potesse immaginare: fin da quando era giunto don Diego Colon a prender commiato dal padre, l’accorta signora aveva meditato quel colpo che doveva sgominare tutti i disegni faticosi del re d’Aragona. Così, fatta a Burgos una sosta di tre ore, con una certa promessa di ritorno, Giovanna e Filippo si rimettevano in via, pellegrini d’amore e banditori della propria sovranità per le terre di Castiglia. Quanto a visitarle tutte, non c’era impegno che potesse durare contro la stanchezza di un lungo viaggio. Ma si andava, come se il pellegrinaggio dovesse giungere fino alle rive del Mediterraneo e a quelle dell’Atlantico. L’essenziale era di lasciare il re Ferdinando colle mani in mano, nella Calle Alta di Burgos, dandosi pensiero di lui, che aspettava, come se fosse stato cento miglia lontano.

Nella Calle Alta l’editto regale fu letto quando Giovanna e Filippo erano già usciti dal palazzo di città, e le grida di saluto ai sovrani salivano al cielo. Il re Ferdinando sentì quelle grida nello stesso tempo che giungeva a lui qualche frase dell’editto, recitata a voce più alta dall’araldo, o non coperta dai rumori della moltitudine ascoltante. Partivano, dunque? partivano da Burgos, dov’egli si era venuto a piantare, per metterli nell’impaccio; e ce lo lasciavano lui, ignorandolo, non mostrando di sapere che fosse ancora tra i vivi.

Per una volta tanto, il pazientissimo re si morse le labbra dal dispetto. Questa poi non se l’aspettava. E voleva sfogarsene col fido Ximenes; ma il Ximenes non c’era. Non già perchè lo avesse abbandonato anche lui, come tutti i suoi gentiluomini di Castiglia; ma perchè era andato a parlamentare con gli avversarii. Come nato in Castiglia e arcivescovo d’una città di Castiglia, il Ximenes aveva fatto ossequio ai nuovi sovrani. Ed essi avevano mostrato di gradir molto la visita; e Giovanna in particolar modo si era mostrata affabilissima al confessore di sua madre. Ma a lei non aveva osato dir nulla, nè far preghiere, nè dar consigli non chiesti, specie vedendola così ben circondata, custodita e difesa.

Al duca d’Ossuna, piuttosto, e agli altri cortigiani maggiori, si aperse liberamente il virtuoso Ximenes. Perchè quella partenza improvvisa? senza dare un po’ di riposo alla regina? senza permetterle di vedere il re d’Aragona, che stava lassù ad aspettarla? Infine, quello era suo padre; ed era d’un padre aspettare i suoi figli.

– Vostra Eccellenza non dimentica che donna Giovanna è la regina di Castiglia, e che qui siamo, se Dio vuole, in Castiglia; – rispondeva con molta calma il duca d’Ossuna. – Vostra Eccellenza non ignora che non ci son più padri nè figli, dov’è in giuoco la dignità della Corona. Tutto ciò che Vostra Eccellenza ci fa notare col suo gran senno, con la sua grande pietà, con la sua grande prudenza, è stato attentamente considerato da noi. Non abbiamo obbedito a rancori, a puntigli, a dispetti; solo ci siamo studiati di non consigliar debolezze. Giovanna e Filippo son venuti qua in casa loro; ricevono visite, non vanno a farne. —

L’argomento era senza replica. Ma l’arcivescovo di Toledo, non potendo attaccarlo di fronte, si provò a scalzarlo di fianco.

– Intendo, intendo; – diss’egli. – E le ragioni son buone, come le intenzioni son pure. Ma non si potrà forse impedire che il popolo di Burgos faccia i suoi giudizi su questo caso spiacevole.

– Saranno giudizi temerarii; – rispose più placido che mai il duca di Ossuna; – saranno giudizi temerarii, se vorranno trovare un cattivo sentimento dove non era altro che l’obbligo sacro di mantenere nella sua integrità il buon diritto della Corona. Un altro giudizio, e più savio, vorrà fare il popolo di Burgos, pensando che il re d’Aragona, trovatosi qui mentre i reali di Castiglia giungevano in casa loro, non si è neanche degnato di andarli a ricevere alle porte, per offrir loro la casa, che teneva preparata per essi.

– Ah signori! signori! – esclamò il buon Ximenes. – E non son puntigli, questi?

– Ragioni di dignità, ragioni imprescindibili: e Vostra Eccellenza si dorrebbe a buon dritto, non per sè, ma per l’alto suo ministero, se Palencia o Siviglia mancassero di rispetto a Toledo.

– Ma pensate, signori, – insisteva il Ximenes, senza ribattere quell’argomento ad hominem, – pensate che molte cose con un po’ di buon volere dall’una parte e dall’altra s’aggiustano. Castiglia ed Aragona, finalmente, che sono? Non forse la Spagna? la Spagna antica, che le discordie avevano disfatta, aprendone la via al Moro infedele? la Spagna nuova, che dobbiamo saldar meglio nelle leggi e nei cuori? Chi, più del re Ferdinando, s’è adoperato per questa nobile Spagna? Non ha egli condotta a termine la cacciata del Moro? Non ha egli ceduto alla Spagna i particolari diritti d’Aragona sul reame di Napoli? e ancora non combatte per assicurarne il dominio alla Spagna? —

Il duca d’Ossuna aveva chinato più volte il capo alla progressione oratoria dell’arcivescovo di Toledo. E pareva che approvasse: ma non faceva altro che accompagnare col gesto quella enumerazione di meriti. Infatti, come quell’altro ebbe finito, così egli parlò, ribattendo:

– Molte cose si potrebbero rispondere alla Eccellenza Vostra. Poche ne diremo, stretti come siamo dal tempo. Si ricordi quanta parte abbia avuta nella gloria del regno la grande Isabella; e solo può dimenticar la regina, chi ha mostrato di dimenticare la donna. Aragona ha ceduto Napoli alla Spagna, non potendo tenerlo per sè, con dinastia separata e con forze troppo inferiori al bisogno. Che io dica il vero, lo dimostra il fatto che il re d’Aragona, dovunque non vide la pronta utilità dell’impresa, lasciò avaramente in ballo Castiglia.

– E dove?

– In una certa spedizione da Palos, donde venne alla Spagna l’acquisto di tante terre nel nuovo Mondo, e tanta gloria nel vecchio.

– Bravo, Ossuna! – gridò una voce femminile.

– Aggiungo, – riprese l’Ossuna, dopo aver risposto con un cavalleresco inchino a quel grido, – aggiungo poi, per quanto risguarda il combattere, che la grande Isabella ci ha guadagnata l’infermità donde fu tratta alla tomba, povera e santa guerriera! Aggiungo ancora che non Ferdinando ha preso Granata, ma Consalvo di Cordova; nè Ferdinando, ma Consalvo di Cordova combatte ancora in Italia; e Ferdinando non l’ama, Ferdinando l’ha in ira, forse più che in sospetto. Pure, è gloria di Spagna, Consalvo. E la gloria di Spagna, dopo tutto, noi la vogliamo sulla punta della nostra spada, non nel consigliar debolezze verso l’uomo che fino a ieri ha impedito (e ne abbiamo le prove) che la Castiglia ricevesse i suoi re. —

Neanche qui c’era da replicare; e il virtuoso Ximenes si contentò di mandar fuori un sospiro. Sentiva anch’egli che il suo re Ferdinando, con una buona causa alle mani, si era adoperato fin allora con indegni artifizi, come se l’avesse cattiva?

Pochi momenti dopo, la coppia regale era in moto, per uscire da Burgos, non dimenticando di lasciarci ufficiali suoi ed un nerbo di gente per custodirvi il buon dritto di Castiglia. Non ce ne sarebbe stato bisogno, tanto era l’ardore di quel popolo. Giovanna era adorata da ogni ordine di cittadini; Filippo, dal canto suo, aveva conquistate le padrone di tutti quei cittadini. Ah perchè i doveri del trono allontanavano da Burgos quel fior di bellezza? “Appena vidi il sol che ne fui privo„ avrebbe potuto gridare il gentil sesso di Burgos.

Non dubitate, o belle; ritornerà presto, il giovine Apollo di casa d’Austria. E qui, il 25 settembre, come a dire prima che passino i cinque mesi, egli morrà di morte improvvisa. E Giovanna ne perderà la ragione del tutto, e non concederà il cadavere alla vostra certosa di Miraflores, se non dopo averlo portato più settimane attorno, per città e campagne, aprendo ad ogni tratto la bara, per contemplarlo ancora, e nutrirsi del suo pazzo dolore, e farne spettacolo lagrimoso alle genti. Soltanto allora il re Ferdinando avrà conseguito il suo fine. Ragno paziente, rifatta la sua tela, e la pace coi nobili di Castiglia, otterrà una reggenza, che gli permetta di adoperarsi liberamente alla grandezza del regno. Causa buona, certamente; ma lasciata in cattive mani. Perchè?

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
25 haziran 2017
Hacim:
350 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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