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Kitabı oku: «Pietro Mascagni», sayfa 5

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Ma, ahimè!, il dramma umano si disfà nell'onda torpida ed ambigua del simbolismo. Il 3º atto non è più poesia; è giuoco, giuoco vuoto dell'immaginazione sopra lo sterile sfoggio dei simboli vacui. Certo, se togliamo il preludio, spenta melodia inutilmente sorretta dalle risorse d'una strumentazione suggestiva nella sua acida stranezza, la scena dei cenciaioli e dell'a solo di Iris ha leggiadrie di forma e delicatezze di malinconie. Specialmente mi pare notevole per il suo schietto umorismo, contrastante, a dire il vero, con il solito carattere di fradicia poesia che hanno i simboli dell'Illica, la scena dei cenciaioli intercalata da quella deliziosa canzone alla luna, ove il Mascagni fa suoi e purifica certi raffinati procedimenti tonali dell'armonia dei decadenti moderni. E l'opera si chiude, mefistofelianamente, con la ripetizione dell'Inno al sole.

Non dunque la compiutezza della Cavalleria, sebbene, rispetto alle altre opere del Mascagni, l'Iris, anche nelle parti errate, sia da porsi accanto alla Cavalleria più del Ratcliff e dell'Amico Fritz; nè uno di quei raggiungimenti e possessi coscienti del proprio contenuto che facciano creare a un artista il capolavoro. Dalla Cavalleria all'Iris non è processo di crisi. La leggerezza degli intendimenti artistici ha semplicemente portato il Mascagni a ridarci con l'Iris un'opera più ispirata delle altre, ma non il capolavoro. Se non che mi si permetta che, giunto qui, io dica qual sia il valore che può avere per un ingegno della forza di quello mascagnano, il così detto capolavoro, l'espressione piena di se stesso. In realtà, relativamente alla potenzialità dell'arte del Mascagni, il capolavoro da lui non può nascere. Il musicista, nel senso che il Mascagni attua l'opera, come del resto l'attuarono i suoi fratelli maggiori e minori della tradizione italiana, non è da più, in fondo, di un affreschista-operaio. Ch'egli abbia una personalità, nessuno anche all'affreschista vorrebbe negarlo, chè se mancasse di ciò come potrebbe avvenire che gli uomini lo chiamassero a preferenza di altri a istoriare vagamente i templi del loro gaudio e della loro obliosa gioia? La questione è che quella personalità non è autonoma, libera, piena di un mondo austero e necessario, che il compositore debba dire ai suoi simili; sibbene, ciò che distingue quella personalità da un'altra qualsiasi, non è poi molto diverso da ciò che distingue un paesaggio da un altro; un paesaggio bello e brutalmente incosciente, cui alcuni uomini per ragioni di esperienze particolari amano e altri per altre esperienze dispregiano. Ond'è che il capolavoro di Mascagni se potrà superare in piacevolezza e freschezza la Cavalleria e l'Iris, non ne potrà mai superare il carattere di casualità e quindi d'inutilità che ho già dimostrato in esse. «Siamo nel paese dove si canta senza sapere il perchè». E dove, aggiungerei io, ogni compositore colora tale tradizionalità di melodia, di colori personali diversi sì, ma dove nessuno dei compositori supera la tradizionalità cieca creando una forma nuova e piena di significati veramente storici. In fondo in fondo, sotto la profluvie delle melodie troviamo il vecchio motivo di tanta arte: divertire o adornare, non esprimere una conoscenza conquistata col sangue. O se mai questa conoscenza vi sia, e di necessità vi dev'essere, sia pure con un valore trascurabile, giacchè personalità in arte è autoconoscenza; tale conoscenza personale non è rivolta ad altro – che a divertire la gente.

VI.
Le Maschere e l'Amica

Le Maschere dovevano essere nell'intenzione del librettista e del musicista una esumazione dei personaggi dell'antica commedia d'arte. Esumazione piena di significati poetici e musicali. Da parte del librettista era come una proposta di abbandonare «i nuovi e strani eroi» per tornare alla semplice e buona ingenuità della maschera settecentesca. Da parte del musicista era, oltre al far suo il proposito del librettista, abbandonarsi a tutta la sua spontanea italianità tornando alle forme classiche dell'opera buffa.

Il proponimento poteva anche esser bello; sebbene sia saggio notare che tutti questi ritorni all'antico sono pericolosissimi: giacchè, pur tralasciando il fatto che è molto dubbio un accordo intero tra il desiderio d'un artista (che, al modo che l'intende il Mascagni, è, in fondo in fondo, un servo del pubblico) di tornare al passato e l'anima del pubblico estranea ormai a questo passato; occorre per infondere una vita novella nei cadaveri che l'arte nel suo cammino infrenabile lascia dietro di sè, una ragione profonda nell'artista stesso che si accinge a tale resurrezione. Occorre che l'artista si trovi in un'opposizione violenta con i sentimenti e le convinzioni dell'ambiente che lo circonda; occorre che l'artista si senta più contemporaneo dei morti che dei vivi; occorre insomma che egli sia dotato di un senso storico squisito. Con questo non voglio dire che da fraintendimenti storici non sien nate opere insigni, ma bisogna vedere di quanto le condizioni dell'ambiente favorivano l'errore di ricostruzione.

Ora, oggi non siam più nel 400 in cui si potessero vestire nei quadri personaggi orientali con abiti occidentali. Oggi che un musicista come Wagner ci ha mostrato quanto bene anche con la musica potesse esser rievocato, con squisita precisione di senso storico, un tempo estraneo e lontano al Wagner e ai suoi contemporanei – in realtà, s'incolpa i musicisti moderni di wagnerismo; ma quanti hanno osato seguire le orme wagneriane nella sua mirabile coscienziosità di erudito! In altre parole: in un tempo, qual'è il nostro, in cui ogni uomo veramente colto è cittadino non solo di tutto il mondo, ma di tutta la storia a memoria d'uomo conosciuta; per una rievocazione settecentesca, quali dovrebbero esser le Maschere si esige ben altra preparazione lenta e paziente che quella che ha servito alla composizione delle Maschere8. Infatti, possiamo affermare che tanto il librettista quanto il compositore hanno avuto un'idea che, come tutte le idee di questo mondo, potrebbe essere stata buona; ma l'hanno attuata servendosi di reminiscenze raffazzonate alla meglio qua e là, così come venivano alla memoria. Si tratta insomma d'una resurrezione delle gaie e graziose maschere italiane fatta a orecchio, dilettantescamente: anzi in alcuni punti suggerisce l'immagine che i dilettanti, i quali composero quest'opera buffa voluminosissima, non fossero altri che degli studenti o dei collegiali che, rubacchiando qua e là versi e motivi, avessero formato un buffonesco pasticcio per qualche rappresentazione di beneficenza nel teatrino del collegio o in qualche teatro ceduto gentilmente per l'occasione.

La questione è che Pietro Mascagni ha, come ormai deve apparir chiaro da quanto è scritto fin qui, un'italianità affatto spontanea. Egli non ci può dare un'opera di reazione ai nuovi e strani eroi immigrati dall'estero nell'arte italiana, in quanto che anche di fronte a questi nuovi e strani eroi – Iris, Amica, Ratcliff etc. – egli è rimasto indifferente, anzi assolutamente italiano; sicchè essi, i nuovi e strani eroi, metamorfosati dalla sua musica, acquistarono in grazia del Mascagni stesso pieno, sebben discutibile, diritto di cittadinanza italiana. Per correggere un difetto bisogna, anzitutto, averne intera e lucida coscienza. E il Mascagni ha tanta poca coscienza della initalianità di certi suoi personaggi, che, ripeto, aveva fatto come Verdi, aveva chiamato quasi tutti i suoi eroi dall'estero, se non addirittura dall'Estremo Oriente.

A Giosuè Carducci, per ridestare la morta poesia italiana non malata a dir vero di troppo amore per la grande poesia d'oltr'alpe, ma se mai distrutta da una specie di vizio solitario per furor di se stessa, era bisognata un'intera vita di dignitoso dolore, onde finalmente riacquistar piena coscienza e dell'errore dell'ambiente letterario in cui egli viveva, e dei mezzi necessari alla sua nuova grand'arte italica. Dai Juvenilia alle ultime odi è tutta una serie ascensionale di tentativi più o meno felici che l'Omero dell'Italia risorta dovette fare per svincolarsi dalla retorica e salire alla gran luce paterna di Virgilio e di Dante. Finchè nelle Odi barbare, nel cui titolo appare il solito dignitoso dubbio di non esser riuscito a riconquistare la pura italianità per tanti anni cercata, ecco che Giosuè Carducci, trasfigurato come un profeta, può intonare sicuro il nuovo Carme secolare, l'ode Nell'annuale della fondazione di Roma.

Ora qual'ansia di ritornare alle più schiette sorgive italiane, all'italianità non melodrammatica, vana e retorica, come la letteratura da cui il Carducci seppe liberarsi integrandola nel suo immenso mondo poetico-storico, ma sacra come la pace bronzea dei grandi miti romani, nobilita l'opera del Mascagni? Egli nè ebbe fin dall'inizio del suo cammino, nè ritrovò cammin facendo, l'ideale d'un arte austeramente italiana, per cui dovesse combattere le forme ibride, ed aspirasse al ritorno d'una grandezza italica nella musica forse mai come nella poesia e nelle arti plastiche esistita, ma soltanto per un momento desiderata e cercata. Eppure la italianità del Mascagni io stesso mi sono adoprato a dimostrare, nonchè a cercare di rendere più tersa e più ammirevole. Ma nel risolvimento di questa apparente contradizione io trovo una conferma della natura popolaresca del Mascagni. Italiano è egli, anzi italiano più d'ogni altro compositore nostrano in questo momento. Ma la sua è italianità irriflessa, incosciente, e quindi incapace per la sua incoscienza stessa di trarre dall'ambiente l'urto necessario onde trovare sicuramente le grandi vie che riconducono alle culle della nostra razza e al genio che ad esse presiede.

Così al Mascagni era impossibile ridestare quella coscienza profonda dell'italianità che intraluce nelle formidabili creazioni di Dante, di Virgilio, di Carducci. Così le Maschere, opera inutilissima, sarebbe indegna ancora d'un'analisi, non potendo la critica abbassarsi alla considerazione d'un'opera in cui si sfiorano irriverentemente i problemi più sacri dell'arte italiana, e quindi della vita della nostra nazione, se quest'irriverenza stessa in fondo in fondo non fosse affatto irritante, ma ingenua e adorabile come certe inconsideratezze degli animi molto giovani, e se in quest'operetta da collegiale non ci fossero alcuni gioielli d'una purezza assolutamente italiana. Ho già detto, e non è male ripetere, che è pur troppo caratteristico del melodramma italiano ottocentesco il non curare affatto l'insieme dell'opera, ma le singole parti, anzi soltanto alcune delle singole parti, e ho già detto come nelle opere più sbagliate e incoerenti del Verdi del Bellini del Donizzetti del Rossini del Mercadante la critica deve fare una scelta rigorosa ma non implacabile dei pezzi che, estranei all'insieme, continuano, quasi con un egoismo indifferente, la tradizione del linguaggio musicale italiano. Questa scelta va pur fatta nelle Maschere, e noi siamo qui per salvare onestamente dalla condanna dello spartito la sinfonia il duetto d'amore e le due danze del 2º atto, ben esigua quantità date le proporzioni gigantesche della partitura, ma di tal qualità, che sarebbe ingiustizia estetica trascurare.

Chè, a dir vero, se il Mascagni avesse continuata l'opera con lo stesso tono con cui l'aveva incominciata nella sinfonia, le Maschere sarebbero riuscite una cosa assai bella. Questa sinfonia infatti vuol riprendere e riprende lo stile delle sinfonie rossiniane o mozartiane, o come più piaccia denominarle. Cosa in fondo non difficile a un musicista che molto ami la nostra musica antica. Però quello che dà una grazia simpatica a questa leggiadra sinfonia, è che i temi i contrappunti che servono a colmare il vecchio schema della sinfonia da opera buffa, son tutti profondamente mascagnani.

Così è delizioso il modo con cui alla pomposità del cominciamento rossiniano succedono gli episodi melodici e contrappuntistici di contenuto affatto moderno. Bella particolarmente riesce nell'episodio a ottavi ribattuti – more rossiniano – l'armonia acidulamente moderna con cui il disegno s'inalza e s'abbassa. E dolcissimo è il cantabile che intercala per tre volte, una delle quali melanconicamente in minore, gli scherzosi movimenti a crome. Che però questa sinfonia fosse purtroppo più fatta per un gioco piacevole e ben riuscito, che per una profonda intenzione di ripristinare le forme classiche secondo un raffinato metodo il quale avrebbe dovuto del pari essere applicato a tutta l'opera, lo dimostra il fatto che il maestro non ha saputo andar più oltre della sinfonia, il resto dell'opera non essendo moderato dalla grazia dei modelli che hanno ispirato la sinfonia.

Sono pure intonatissime le due danze: la pavana e la furlana. La prima è un lento movimento di gavotta a cui a suo tempo si sposano settecentescamente due sentimentali strofe del tenore. La grazia del ritmo, la delicatezza della melodia, la semplicità dei mezzi, fanno di questa danza un altro gioiello che il Mascagni ha donato alla nostra musica. Quest'arte della danza non barocca, non pervertita da intenzioni letterario-decadenti, ma schietta e fresca, è un segreto della musica italiana e francese e andrebbe conservato con gelosia. Il Mascagni ha per la danza semplice, amabile, senza sottintesi sadici o artifizi volgari, una vera disposizione. Si ricordi il leggiadrissimo preludio del 4º atto del Ratcliff descrivente la danza nuziale: si ricordi la danza delle guechas sebbene infinitamente inferiori alla danza nuziale del Ratcliff; e si ricordi più di tutto la meravigliosa monferrina dell'Amica, in cui sembra aleggiare lo spirito ingenuo ed elegante di Mozart.

La furlana è un gaio movimento di tarantella più comune e meno eletta nel suo svolgimento, ma pur sempre preziosa per l'italianissimo brio che la ritma.

Mi resta a parlare del duetto, sebbene di questa opera interamente fallita bisognerebbe notare ancora il dolcissimo cantabile di Rosaura e Florindo nel pezzo concertato che chiude il 1º atto.

Ma questo cantabile è una vera gemma sciupata dal contorno volgare e insipiente che la avviluppa quasi indistricabilmente.

Nè la prima parte del duetto in questione è molto al disopra di questo pezzo concertato, e non ne avrei certo parlato se la melodia che ne forma la 2ª parte: – Colma di fiori incanti – è il mondo, eterna patria – e il prato ancora talamo – è di liberi amanti – non fosse un brano di musica dove il Mascagni raggiunge forse la più pura espressione del suo sentimento predominante se non addirittura l'unico: l'amore. Ho già detto che in Mascagni c'è quasi una estrema fioritura dell'erotismo sensuale e melanconico del 700. Questo rifiorimento, che per essere spontaneo, non ha a che vedere con la resurrezione riflessa della maschera italiana – resurrezione, come già osservammo, negata alla troppa ingenuità mascagnana – trova in questa melodia una espressione insuperabile. Una certa dignità di linea di ritmo di armonizzazione, una specie di puerilità leziosa che ci rende adorabili Florindo e Rosaura, i canori amanti rosei e paffuti che si sbaciucchiano come due colombi, avvicinano questa del Mascagni alle più dolci arie del 600 e dell'800. Forse al Mascagni non sarà concesso più di cantare con tanta voluttuosa castigatezza di modulazioni di melismi e di ritmo.

Con la castigatezza di questo duetto e con la semplicità scherzevole delle danze e della sinfonia contrastano violentemente le pesanti polifonie orchestrali e gli esagerati strillanti recitativi dell'Amica. Quest'opera era stata attesa rispetto all'Iris, come il Ratcliff rispetto alla Cavalleria e, cioè, come qualcosa di definitivo, di affermativo, nell'opera del Mascagni, che tutti, anche i critici più facili e proclivi alle lodi senza senso comune, sentivano mancare, quasi direi, d'equilibrio estetico. Ma infinitamente inferiore al Ratcliff, l'Amica non aggiunge nulla alle cose già dette dal Mascagni, se non se ne eccettui lo sforzo di dirle più forte e più pomposamente. Giacchè l'autoretorica dell'Amica differisce dall'autoretorica del Silvano, per esser questa quasi direi un'autoretorica accettata ingenuamente, quella una autoretorica, mi si perdoni il bisticcio, doppia e cioè voluta nascondere con lo sfoggio della bravura tecnica. Gli spunti melodici dell'Amica sono infatti, come quelli del Silvano, tutto quel che di trito di vecchio di stanco poteva produrre la fantasia del Mascagni in un momento di aridità. Ma a questa specie di retorica iniziale s'aggiunge una seconda retorica nello svolgimento di essi spunti.

Si prenda, ad esempio, nel 2º atto tutto lo squarcio finale dell'opera – l'a solo d'Amica e la sua morte. L'orchestra rugge una frase di nessun valore. Onde di suoni si modellano su linee d'architettura sonora di nessuna novità. Ma quale sfoggio di colori pesanti, wagneriani! Un cromatismo insopportabile, un'esasperazione continua dei sentimenti, in fondo anch'essi di nessun valore drammatico, dei personaggi, rendono il continuo ammassarsi delle parti strumentali ridicolo più che brutto. E il ridicolo raggiunge il colmo, quando Amica, che come tutte le ragazze, sian pure alpigiane, non peserà più, se ben portante, di 90 chili, precipita giù dalla roccia nel torrente con tal fragore di schlaginstrumente, da far credere che ruzzoli giù per la montagna non una giovinetta ma un battaglione intero d'artiglieria e, se più sembri opportuno essendo la scena sulle Alpi, l'armata ricca di cariaggi e d'elefanti, d'Annibal dirò.

Nell'Amica noi non riconosciamo più Mascagni. La sua cara e fresca sentimentalità s'è convertita in quella forma di teatral volgarità di sentimento che, come osservai nella prima parte di questo lavoro, forma la delizia della vita intellettuale della plebe e dei piccoli borghesi. Diciamo francamente che nessuna cosa al mondo, sotto questo aspetto, meritava l'onore di essere spedita all'esposizione del cattivo gusto come l'aria: più presso al ciel – più lontan dalla terra, aria che fa fremere di ribellione alle mamme e ai babbi i buoni fidanzati al cui sospirato matrimonio l'accorgimento pratico dei parenti oppone la magrezza dello stipendio guadagnato alle vie ferrate.

RIPROVE E CONCLUSIONI

L'ORCHESTRATORE

Non è ancor stata fatta, se non parzialmente e con intenti per lo più erronei, una storia dell'orchestrazione dalle origini alla presente fortuna, che, nel concepimento della musica europea, ha l'uso dei multipli colori strumentali. Ed essa potrebbe farsi, e sarebbe utile, ad un sol patto: di non fare un'astratta storia naturalistica delle varie tecniche orchestrali quali sembrano essersi svolte nel tempo; sibbene tenendo dinanzi alla coscienza, che svellere l'atto dell'orchestrare dall'interezza dell'atto creativo torna a mutilare intellettualisticamente l'unità totale dell'atto creativo; onde unica storia dell'orchestrazione potrebbe esser quella, in cui proiettassimo continuamente sulla serie degli elementi astratti da noi ammassati in ordine cronologico le luci delle individualità or massime or grandi or mediocri. Per spiegarmi meglio citerò la possibile storia della versificazione italiana, storia nella quale andrebbe dimostrato – come nel 200-300 il verso italiano ebbe agilità acerba e spontanea perfezione non più di poi raggiunte, essendo allora immediata e primitiva davanti alla natura l'anima dei poeti grandi e dei popolari – come col Petrarca e col Boccaccio incominciano i preludi dell'umanismo e i sintomi dello sfiorire del giovanissimo verso italiano mancando nei poeti al Petrarca posteriori «l'insuperabile pregio dei poeti primitivi che deriva dall'aver essi fortemente sentito e trasmesso ne' versi l'effetto prodotto nella lor fantasia dallo spettacolo della natura», ed accadendo, al contrario, che quei poeti postpetrarcheschi (eccettuato, a suo modo, l'Ariosto), «pigliarono per modello non la natura, sibbene i primitivi esemplari, sui quali le osservazioni dei filosofi stabilirono certe regole, e gli artefici si obbligarono di seguirle. Così la Poesia, che non è se non una facoltà naturale, si ridusse ad un'arte». E in tale storia della versificazione avremmo le riprove – che l'Ariosto fu l'unico che avesse avuto una musicalità di verso originale, sebbene ormai ben lontana dalla freschezza del verso trecentesco, predominando anche in lui «l'imitazione dell'imitazione» – e che la retorica trionfò nella massima parte dei nostri poeti «che fiorivano senza frutto; si confondevano coi mediocri; scrivevano gli uni per gli altri e non per l'Italia». Finchè preceduta dai solitari (Leopardi) e dei profeti (Foscolo) non nacque l'arte del Carducci e l'arte in gran parte nuova e schietta dei presenti poeti: nei quali a riprova della rinascita della poesia italiana sta l'originalità assoluta del verso non barocco, non stantio, ma vibrante di nuova spontanea armonia.

La stessa storia andrebbe fatta per l'orchestrazione in termini infinitamente più vasti; chè se la musica ha consuetudini e tradizionalità d'espressione in ogni paese, come la poesia, onde si formano singolarità di linguaggio etnico, riconoscibili dagli esperti a colpo sicuro; essa è però, a differenza della poesia, di sua natura più universale, per lo che non potrebbesi fare una storia dell'orchestrazione italiana al modo stesso che la si può fare della versificazione italiana. Senza far qui una traccia storica dell'orchestrazione (nella quale dovrebbe rientrare di necessità la quasi incalcolabile produzione dell'arte corale, nonchè la strumentale dei singoli strumenti che precedette separò accompagnò lo sviluppo della moderna sinfonistica), osserverò come, al punto cui oggi siamo giunti, l'orchestrazione derivi in ogni paese dalle massime correnti orchestrali tedesche del 700-800. Una lunga epoca di preparazione punteggiata per così dire dalle magnifiche conclusioni di Haydn e di Mozart, mette foce nella perfetta arte sinfonica beethoveniana. Beethoven, come psicologicamente rappresenta uno dei momenti massimi dell'umanità, il grande ricorso storico del romanticismo, considerato dal punto di vista dell'orchestrazione, quivi pur rappresenta uno dei culmini della musica. È opinione, più risibile che volgare, oggi, in cui tanto si fraintende il valore estetico dell'immenso spirito beethoveniano, di tanto l'umanità presente è lontana da quell'austera forza di sentimento e di pensiero; è opinione, dico, che Wagner superasse tutto il passato nell'arte dell'istrumentare e che oggi anzi accenni a superar Wagner istesso il decadente Riccardo II. E non si comprende come, rispetto alla perfezione di Beethoven, si commetta lo stesso errore grossolano che se si affermasse il Petrarca il Tasso l'Ariosto superar nell'arte del verso la perfezione naturale di Dante.

Poichè, in realtà, a chi conscio dei valori morali d'un'epoca non si lasci abbagliare dalle funambolesche bravure tecniche degli artisti, che in tale valutazione critica riescono minori o addirittura distrutti, la sinfonistica dei postbeethoveniani non può non apparire quale una continua decadenza formale, per essere appunto generata da una sempre crescente degenerazione e corruzione del perfetto contenuto romantico che, a parer mio, raggiunse nell'opera beethoveniana la sua plenitudine espressiva. Or questa degenerazione di contenuto, è anche, sotto un certo aspetto, discendenza formale e in questa discendenza e derivazione noi possiamo cogliere diverse correnti, le quali più o meno si ricollegano all'orchestrica beethoveniana. Sembra quasi l'arte strumentale di Beethoven come un frutto che giunto a maturità s'apra lasciando irraggiare intorno a sè la fecondità innumerevole del seme. La principale corrente che nacque dalla nona sinfonia dalla Missa solemnis dalla 5ª dalla 3ª dalle ultime sonate dagli ultimi quartetti e dal resto delle composizioni beethoveniane, è la corrente wagneriana. Potente e violento artista, Wagner trasformò più di tutti i componenti la famiglia dei postbeethoveniani, il patrimonio lasciato dal padre. Ma come non era nel contenuto di Wagner la perfetta ragion storica d'essere e di incarnarsi nella forma più sana, che era invece in Beethoven, Wagner invece superò tutti nell'opera di corruzione9. Al modo stesso che egli non seppe dire agli uomini la serena parola d'un dolore moralmente sublime, ma meglio non seppe fare che spingere gli agitati romantici fratelli che lo circondavano all'apostolico rifugio d'un misticismo in piena contradizione con le aspirazioni più pure dello spirito che anima la pienezza della storia moderna; egli neppur potè trattenersi dal cadere nell'errore in cui precipitano tutti coloro, che lavorano su di un contenuto contradittorio: l'esagerazione, la tronfiezza, la «furibonda enfase sonora». Onde oggi la molta anzi ormai incalcolabile oziosità e falsità dei ripieghi e dei farmachi con cui tenta medicarsi l'anima moderna dalla «corrottissima decrepitezza della civiltà», trova nel wagnerismo il sistema migliore d'orchestrazione che ci sia10. E Riccardo Strauss non prova fatica a immergere nelle forme mistiche del politemismo wagneriano il sadico contenuto d'una Salomè e d'una Elettra; nè Claudio Debussy a immergere in quelle forme, modificate da uno spasmodico e impotente bisogno d'originalità, la «fatuità» del misticismo maeterlinckiano.

Ma la frantumazione della tecnica beethoveniana, accanto alla corrente wagneriana, produsse, minore e men facile ad essere seguita, anche perchè più sincera e meno consona al gusto di frenetica violenza che impera nell'arte moderna, un'altra corrente: la corrente schumanniana. Non meno ricca di elementi di degenerazione e di decadenza, l'arte dello Schumann dalla severa virilità beethoveniana si allontana non allo stesso modo con cui vi si allontana l'arte wagneriana. Se questa trova lo specifico per la guarigione a un'ansia da nevrastenici nel misticismo, quella trova non uno specifico, sibbene, e più naturalmente, un'accettazione ironica sentimentale di tale ansia nell'umorismo. Il movente è lo stesso: l'insofferenza d'una vita resa insopportabile da una mancanza di vera moralità che ne razionalizzi eroicamente le feroci contorsioni contradittorie. Ma Wagner ci insegna misticamente che bisogna dissolversi nella contemplazione del mistero, lo Schumann, in fondo in fondo, si comporta dinanzi alla «corrottissima decrepitezza» della sua povera vita come, certo con maggiore ingegno, Heine.

In che si distinguono queste due correnti tecniche dell'orchestrica e moderna? Non mi è in animo sprecare spazio e tempo per un'analisi che riuscirebbe poi incompleta, occorrendo a tale genere di ricerche e di confronti volumi interi e preparazioni laboriose. Mi limiterò a suggerire a chi non abbia mai pensato un simile confronto, come la tecnica wagneriana differisca dalla tecnica schumanniana nell'essere – la prima frutto d'un rigido complicato sistema e quindi nel resultato poco elastica e monotona; – la seconda molto più libera snella e leggiera. Nella prima agiscono come personaggi, o meglio come simboli gli strumenti; nella seconda gli strumenti non hanno valore solitario nè tanto meno simbolico, ma sono, per dir così, senza individualità contribuendo quasi con ufficio di coro a sottolineare a colorire a registrare come i timbri d'un organo lo svolgimento delle idee. Quella di Schumann sembra apparentemente un'orchestrazione più astratta e quella di Wagner più concreta, ma in realtà le parti vanno invertite. Wagner, laddove l'ispirazione non lo trascini e non gli gonfi – non so dir meglio – le forme che come vuoti canali egli scava fabbricandole sempre sullo stesso schema, è un raziocinatore, un critico filologo che ha imposte alla musica drammatica le regole scoperte da' glottologi nell'organismo delle lingue. Lo Schumann è invece più immediato più intimo più casto. Wagner, ripeto, ha violentata, innestandovi anche la tradizione bachiana, la nitida orchestrazione beethoveniana. Lo Schumann è rimasto più vicino e più fedele al tipo puro di quell'orchestrazione. Si confrontino infatti le partiture d'una sinfonia di Beethoven e di Schumann con quelle degli atti d'uno spartito wagneriano dal Rheingold in giù: si vedrà chiaramente che ciò che differenzia Beethoven da Wagner differenzia quasi allo stesso modo11 Schumann da Wagner. Una conferma storica della maggior purezza di tradizioni orchestrali nello Schumann piuttosto che in Wagner la troviamo nel beethovenismo per lo più retorico, ma significantissimo al caso nostro, dell'epigono di Beethoven e anche di Schumann, il Brahms.

Come molti compositori moderni, eccettuato lo Strauss despoticamente dominato da Wagner – Claude Debussy, natura più latinamente armoniosa, risente l'influenza e wagneriana e schumanniana, questa quasi come reattivo a quella – Pietro Mascagni porta nella sua tecnica sinfonica le traccie della nova rivoluzionaria tradizione wagneriana e della più classica tradizione schumanniana-beethoveniana.12 Nonostante che pur su di lui Wagner estenda la sua «cappa di piombo», come è stato giustamente detto, del Wagner egli poteva assimilare timbri, impasti, e ricette d'effetti, ma non poteva per sua natura italianissima, prender ciò che forma l'essenza del wagnerismo, il sistema glottologico dei leitmotive. Onde, come già dicemmo per il simbolismo, per il romanticismo, per il verismo del Mascagni, anche il suo stilistico wagnerismo è «a orecchio» e spesso si riduce una verniciatura che potrebbe esser scrostata senza danno di sulla musica, laddove certo non ne abbia intaccata la vita stessa, riducendola a mero sforzo retorico, come accade per l'Amica. Al contrario era facilissimo al Mascagni rivivere la tradizione classica – d'una orchestrazione cioè di chiara e semplice struttura – tramandata attraverso Haydn Mozart Beethoven Schumann Berlioz Brahms fino al recente Giuseppe Verdi. E infatti non è il Mascagni un figlio somigliantissimo del nostro buon Verdi che nell'Otello e nel Falstaff raggiunge la stessa squisita parsimonia e modernità di mezzi estranei al sistema wagneriano, che si ammira nell'istrumentazione delicatissima dello Schumann? E non è alla fin delle fini, questo tipo classico d'orchestrazione estraneo al tipo wagneriano, di origine, se non di perfezionamento, latina? La perspicua chiarezza dell'orchestrica beethoveniana non si avvicina più alla limpidità mediterranea13, che al goticismo misterioso dell'arte nordica?

8.Per preparazione lenta e paziente non intendo soltanto la fredda ricerca di biblioteca; intendo, e più, quella larghezza di conoscenze, quella disposizione psicologica a comprendere il passato che ha fatto creare a Ettore Berlioz quel suo meraviglioso Benvenuto Cellini, la cui bellezza, sono convinto, sarebbe rapidamente gustata in Italia, di cui sì giusto riflesso si espande in quella bellissima opera obliata, o meglio, mai conosciuta.
9.Questo mio giudizio storico-morale su Wagner non va assolutamente confuso col giudizio che Francesco de Sanctis pronunciò su Wagner come «corruttore della musica». Il de Sanctis (e con lui, per altre vie, lo Hanslick) intendeva la musica in astratto, io intendo invece la musica postbeethoveniana. I due critici succitati non seppero porre sulle sue vere basi il problema estetico dell'opera, con rigidità troppo intellettualistica scavando un solco incolmabile tra la musica e la poesia. In realtà, per ora, quella forma espressiva che è l'opera non è stata attuata così pienamente come da Riccardo Wagner, che non ha unito, come troppo comunemente si crede e si dice, due arti viventi a sè, sibbene ha espresso la sua intuizione centrale in un linguaggio che per riprodurla non frammentariamente ed ambiguamente, ha bisogno di suoni articolati, di suoni armonizzati e di gesti. Dire che Wagner ha riuniti (e non potrebbe trattarsi che di una sovrapposizione e quindi spesso di un duplicato) e il linguaggio poetico e il linguaggio musicale, è fare lo stesso errore che dire Eschilo aver riunito la poesia e la mimica (la danza).
10.E non solo d'orchestrazione. Il wagnerismo ha invaso la pittura, la poesia, la scultura, nonchè l'architettura.
11.Dicendo così potrebbe saltare in mente a qualche fanatico quanto cieco wagneriano che sta appunto in questo allo stesso modo l'inferiorità di Schumann a Wagner rispetto a Beethoven. Ma ciò vorrebbe dire che il fanatico wagneriano non avrebbe mai compresa l'originalità indiscutibile di Schumann per nulla inferiore a quella di Wagner. Onde l'obbiezione non meriterebbe d'esser discussa.
12.L'influenza dello Schumann nell'orchestrazione moderna non va tanto derivata dalle vere e proprie opere sinfoniche, sibbene, e moltissimo, anche nella sinfonicissima musica per pianoforte.
13.È bene, ad evitar malintesi, osservare come il Mascagni per la sua inferiore italianità, anzi bassa meridionalità, di quanto è lontano dal pensiero wagneriano, di tanto, e forse più, è lontano dall'altezza solitaria del pensoso dolore beethoveniano. Il Mascagni si trova sulla direzione orchestrale classica, che mette capo a Beethoven, senza aver coscienza di questa sublime vicinanza. Così la perfetta armonia della concezione beethoveniana sta all'equilibrio mascagnano, sebbene questo inquinato da elementi rovinosi, come la perfetta latina simmetria della Commedia dantesca, sta alla classica stabilità dell'Orlando Furioso. Con la differenza – che il Mascagni non è davvero l'Ariosto.
Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 haziran 2017
Hacim:
120 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
Metin
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