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Kitabı oku: «Pietro Mascagni», sayfa 6

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Ed ecco che anche sotto il punto di vista della orchestrazione, veniamo ad avere una conferma di quanto dicemmo sulla italianità incosciente di Pietro Mascagni. Italianamente egli orchestra le sue fresche danze e i preludi e gli intermezzi (perfetta è la strumentazione della Monferrina nell'Amica, della Sinfonia delle Maschere etc.); italianamente egli colora la base su cui si svolge il fregio nitidissimo della sua bella melodia italiana; ma la sua coscienza critica – e meglio sarebbe dire estetica, che gli artisti non hanno coscienza critica che a un grado quasi direi pragmatistico – non è mai giunta a rappresentarsi con chiarezza i cammini che si dovevano seguire per creare, se non di più, almeno un'opera come l'Otello del Verdi. Il Mascagni così non ha saputo espungere dalla sua orchestrica la retorica wagneriana, inconciliabile nemica alla semplicità virgiliana della nostra più grande arte. Non ha saputo riattaccarsi con vigore all'unica tradizione a cui spetti il diritto di generare la tecnica strumentale della nostra musica – la tradizione beethoveniana-schumanniana. C'è in lui spontaneo questo bisogno14, ma è un bisogno spesso non compreso, quindi mal soddisfatto, anzi addirittura calpestato per gettarsi in una polifonia tronfia e vana, mancando in essa la sua ragion prima, un pensiero o se non altro una pensosità, un pensiero latente. Le ramificazioni aggrovigliate dello sviluppo tematico nel Tristano e Isotta sono, per dir così, tutte intrecciate alla trama complessissima d'un pensiero che ne vivifica l'astruso labirinto. Ma se i temi del sole e dell'aurora si ripercuotono com'echi sordi per la partitura dell'Iris, nessuno dubiterà che quelle ripetizioni wagneriane non sieno un artificio esteriore, tutt'al più pittorico-descrittivo. Mentre quando il Mascagni svolge una fresca melodia, quasi con le semplici arti innocenti di un Mozart – non c'inganni l'accresciuta tavolozza orchestrale, che il Mascagni ha riempito di colori fisicamente più abbaglianti di quelli mozartiani – allora solo noi sentiamo che la sua tecnica orchestrale raggiunge la sua giusta misura.15

L'ARMONIZZATORE

Se nel disegno del precedente capitolo sostituissimo al vocabolo orchestrazione il vocabolo armonizzazione, fatte le debite modificazioni noi verremmo ad avere il capitolo che ora debbo scrivere. Infatti, dato che nella considerazione astratta degli elementi tecnici d'un'arte, in fondo in fondo, ciò che noi contempliamo, è il valore estetico, la personalità, il contenuto lirico, etc – di un autore o della serie degli autori; studiando l'armonizzazione p. es. di Mozart, anche il più arido didatta d'armonia non saprebbe scinderla dal valore espressivo che essa ha nella sua concreta coesistenza estetica con il contenuto. Onde ciò che dissi intorno ad una possibile e per ora mancante storia della orchestrazione, potrebbe ripetersi per una altrettanto possibile che mancante storia dell'armonia. Non che storie di tale mezzo tecnico dell'espressione musicale – chiamato, assai ingiustamente scienza, e confusa così con l'acustica colla quale non ha pur minimamente a che fare – non manchino. Anche la musica ha i suoi glottologi. Ma essi – gli armonisti – sono più vicini ai catalogatori di voci per vocabolari, che a veri e propri glottologi consci che la trasformazione del segno non va staccata dalla trasformazione del contenuto.

Come la tecnica strumentale, la tecnica armonica ha dunque una storia, che a rigore dovrebbe prendere i suoi inizi… dal canto del celeberrimo primo abitatore del paradiso terrestre, ammesso ch'egli cantasse. Ma noi ci rifaremo dai tempi molto più vicini e osserveremo come, facendo per comodo nostro incominciare il cromatismo, e cioè quell'astratta direzione armonica che oggi sembra predominare – predominio che potrebbesi distruggere, distruggendo la convenzionalità dell'astrazione – dal Monteverdi e dal Frescobaldi; questo cromatismo è oggi giunto al suo massimo sviluppo, anzi alla sua corruzione. Infatti il cromatismo passato attraverso quei punti d'arrivo che sono le opere di un Bach di un Haydn e di un Mozart giunse al suo più perfetto equilibrio col suo presunto nemico il diatonismo16 in Beethoven. Al solito dopo Beethoven noi troviamo il consueto fenomeno di frantumazione in generale e di biforcazione in particolare: e Riccardo Wagner crea una scuola armonica a sè della quale oggi sono seguaci volente lo Strauss, nolente, ma impotente a una ribellione non ispirata agli stessi principi che reggono l'odiato dispotismo, il Debussy; e lo Schumann crea un'altra scuola armonica infinitamente più prossima all'armonia beethoveniana. A questa scuola si avvicinano, incoscienti e per la forza stessa delle cose, gli italiani, nonchè molti francesi.

Tra i contemporanei Pietro Mascagni come armonizzatore appare quasi un diatonico. Infatti a differenza di Strauss e di Debussy – io cito sempre questi due compositori quali i più significativi della presente epoca di decadenza musicale – i quali hanno spinto il cromatismo, l'uno fino all'assurdo, l'altro alla perdita quasi completa (completa non è possibile umanamente) del senso tonale; unica grande radice dell'armonia come intuizione estetica contrapposta all'anarchico trastullarsi infecondo con i mezzi tecnici d'un'arte, divertimento prediletto degli alessandrini e di tutti i decadenti in generale; il Mascagni è ancora a quello stato di equilibrio quasi perfetto del cromatismo e del diatonismo, il quale equilibrio in fondo non significa altro che una nitidezza, dirò così, omerica dell'intuizione musicale. Occorre però, come già abbiam fatto per la orchestrazione, distinguere nell'armonizzazione mascagnana una traccia d'elementi spuri derivati in essa dall'eterna dominazione wagneriana; traccia che la sua già largamente dimostrata incoscienza estetica o critica, come la si voglia dire, ha impedito di eliminare dal suo bel limpido linguaggio italiano che sarebbe da tale purificazione risultato più terso e consono al contenuto.

Infatti, per prendere un esempio, chiunque paragoni l'armonia della Monferrina dell'Amica; armonia nella sua chiarezza adamantina non inferiore al nitidissimo confluire di attrazioni tonali attraverso spontanee rettilinee divergenze di accordi diatonici e di non meno spontanee leggiadrissime curve di cromatismi sottili e squisitamente condotti – proprietà eccellente dello stile armonico mozartiano; all'armonia tronfia pesante e confusa dell'intermezzo sinfonico che divide il primo atto dal secondo nella stessa opera, vedrà a sufficienza quanto sia aliena la vera natura musicale del Mascagni dall'obliquo cromatismo moderno. A parte l'esagerazione wagneriana del commento sproporzionato all'azione; armonicamente tale intermezzo, con le sue goffe e banali successioni di terze maggiori e quinte aumentate, e l'ansante incalzare di faticose polifonie, che invano tentano placarsi in qualche episodio di enfatico misticismo armonico, non sembra neppur scritto dall'autore dell'intermezzo della Cavalleria del Fritz del Ratcliff e delle danze nelle Maschere e della massima parte dell'Iris, l'opera che anche sotto questo aspetto resta al disopra di tutto ciò che finora ha scritto Mascagni. Infatti ciò che armonicamente era in germe nella Cavalleria e nell'Amico Fritz17 di originalmente continuante alcune delle più schiette tradizioni della semplicità e chiarezza armonica italiana, nell'Iris prende una forma definitiva e, a suo modo, possente. Certo l'armonizzazione totale dell'Iris è inquinata dal wagnerismo degli episodi dei fiori, dell'aurora, del sole nell'inno al sole e quindi di gran parte dell'ultim'atto, sebbene il wagnerismo dell'Iris sia infinitamente più simpatico di quello dell'Amica, penetrando in esso quasi il calore della fantasia alacre che riscalda giocondamente tutto lo spartito. Ma l'armonia dell'episodio delle lavandare, del teatrino, di quasi tutto il second'atto in cui rifulge la squisitezza armonica dell'aria della piovra e, nell'ultim'atto, del brano dei cenciaioli, è preziosa quanto la italianamente elegante armonia dell'Otello verdiano, alla quale si ricollegano le correnti non wagneriane derivate da Beethoven, che anche armonicamente è, come dissi già, più mediterraneo che nordico e in particolare, la corrente schumanniana, lo Schumann essendo certo uno degli armonizzatori più sapienti e eleganti che abbia mai avuto la musica.

Ma per un altro aspetto l'armonia dell'Iris è importante. Ho già detto che nel Mascagni – e dovrei dire: nella parte vitale dell'opera mascagnana – trionfa un latino equilibrio tra il diatonismo e il cromatismo. Se non che se il cromatismo per sua natura è, per così dire, immutabile, non potendo mai modificarsi la scala cromatica, essendo ormai quasi direi impietrita nella tastiera degli strumenti, il diatonismo può continuamente cangiare, potendosi a piacere – certo non ad arbitrio – mutare nella serie cromatica dei semitoni la posizione dei toni formanti una scala diatonica. Così se le vecchie scale diatoniche erano: do, re, mi, fa, sol, la, si, e do, re, mi b, fa, sol, la b, si, è naturale che, le scale diatoniche oggi in cui l'orecchio è stato reso più sottile ed acuto dal cromatismo, si moltiplichino in un modo prima insospettato. In altre parole dal caotico oceano del cromatismo frenetico della musica modernissima, sta per emergere un nuovo diatonismo, non limitato a due scale solamente, come avvenne da Bach a Wagner, ma aperto a innumerevoli novissime combinazioni. Il senso tonale trasformato se non perfezionato dovrà condurre di nuovo la musica a un ordine, complesso sì, ma limpido e ben equilibrato, contro al quale sembrano adoprarsi pazzescamente le oziose ricerche armoniche di tanta musica modernissima. Se la vecchia determinazione «melodia» può ancora avere un significato, non contrapposto insulsamente ad armonia, ma da questa rampollante, è precisamente in relazione col nuovo diatonismo, come del resto anche prima era in relazione con l'antico diatonismo; e cioè melodia vorrà dire linea sonora passante per i toni (meglio i gradi) dei nuovi modi diatonici emergenti dal disfacimento del cromatismo post-wagneriano.

Ora nel Mascagni il diatonismo della Cavalleria, del Fritz e del Ratcliff appartiene al vecchio tipo bachiano-wagneriano, mentre il diatonismo dell'Iris, nella massima parte almeno, appartiene al novissimo o se non altro lo presente, lo preannunzia (3º atto dell'Iris; canzone del cenciaiuolo e qua e là per tutta l'opera). Certo in Mascagni neppur di questo bisogno è coscienza esplicita, ma, al solito, quasi direi un sospetto, un desiderio confuso. Ma questo fatto è veramente – a chi lo sappia scoprire e interpretare – una delle maggiori riprove dell'italianità sebbene bastarda, del Mascagni. Che sempre è stato questo vecchio nostro genio latino che ha precorso tutti, se non nella risoluzione piena, almeno nell'ingenua impostatura dei più difficili problemi estetici (e non estetici!). Non ostante la mancanza perpetua di libertà, che come una triste ombra ancora del passato si proietta sul popolo italiano, è sempre questo da cui partono i baleni delle nuove aurore nell'ansietà delle tenebre invadenti. Il nuovo diatonismo,18 l'ordine nel caos cromatico, la salda base dell'intuizione musicale, il rinnovamento del senso tonale, è forse uno dei problemi dalla cui risoluzione maggiormente dipendono le sorti della musica europea. Chè, in verità, troppo sterili ed oziosi sono i tentativi degli impressionisti musicali francesi, i quali oltre al partirsi da un errore estetico; oltre al non superare affatto il wagnerismo delle cui formule descrittive l'impressionismo è l'estrema emanazione; oltre al trasformare in musica il contenuto morale della poesia e della pittura dei così detti decadenti, e quindi al non rinnovare affatto il contenuto storico della loro arte, secondo quella perpetua legge per cui i musicisti si contentano sempre dei resti del banchetto già consumato dai despoti della cultura europea – qui in Italia abbiamo il d'Annunzio, che comincia tardivamente a riempire di sè anche la musica – ; non raggiungono miglior risultato e più concreto del dare per intuizione artistica ciò che non è che inconcludente trastullo di combinazioni armoniche, a cui venga imposto arbitrariamente un significato descrittivo. Onde non è senza un certo orgoglio sereno che io proclamo apparire in Mascagni i segni d'una rinascita, il presentimento d'una nuova melodicità latina e, cioè, di un nuovo diatonismo. Se non che questo pregio, che una volta di più si può e si deve concedere agli Italiani, e cioè quello di precorrere per certa nazionale spontaneità del nostro genio, deve appunto procurarci un orgoglio sereno, non fanatico e cieco: infatti io ripeterò le parole del Foscolo: «o Italiani! qual popolo più di noi può lodarsi dei benefizi della natura? ma chi più di noi (nè dissimulerò ciò che sembrami vero, quando l'occasione mi comanda di palesarlo) chi più di noi trascura e profonde quei benefizi? A che vi querelate se i germi dell'italiano sapere sono coltivati dagli stranieri che ve li usurpano?». E, a terminare, citerò le parole d'un altro grande italiano, Bertrando Spaventa, le quali, per essere scritte sulle condizioni d'un'attività che gl'italiani ebbero in comune con i tedeschi – la filosofia – ; le sorti della filosofia italiana e della tedesca essendo intrecciate in modo analogo alle sorti della musica italiana e della tedesca; possono esser citate tanto per la filosofia che per la musica. «Che se noi, egli scrive, vogliamo ancora e possiamo avere un privilegio, questo è quello di precorrere ed effettuare un più largo indirizzo… Ma ciò a un patto; e questo è di non rigettare tutto quel che si è fatto da un gran pezzo fuori d'Italia o meglio che in Italia, ma studiarlo, comprenderlo, appropriarcelo; e solo così, entrati in più largo orizzonte, conosciuto meglio noi medesimi e ritemprata la nostra vita nella perpetua corrente della vita universale, fare un gran passo innanzi non nel vuoto, ma con la piena coscienza delle nostre forze, del nostro compito, del compito comune». Parole che fanno fremere come una sinfonia di Beethoven.

CONCLUSIONE

Chi m'ha potuto seguire fin qui – e dico così, giacchè spiriti altissimi a comprendere il valore della mia discussione dal punto di vista teorico si trovano per certo ora tra i così detti critici letterari, ma, almeno qui in Italia detti spiriti sono, ohimè, quasi sempre sprovvisti di sia pur rudimentale educazione del gusto musicale; e, per converso, gli spiriti educati alla musica non sono, ohimè, capaci di comprendere una seria argomentazione critica; chi, dunque, ha potuto seguirmi fin qui, avrà notato come la mia affermazione dell'arte mascagnana è per così dire tutta intessuta di negazioni. E realmente, ripeto per riepilogare i punti principali del mio studio, il Mascagni rispetto ai grandi musicisti del passato appare un ben piccolo compositore d'opere popolaresche. Ma sta appunto in questa sua ingenuità di popolo la ragione estetica per cui io lo difendo e lo oso contrapporre a musicisti di contenuto più dignitoso – in apparenza – del suo. Io so già lo scandalo che sto per suscitare con l'audacia della mia tesi a doppio taglio; all'estero essa parrà un sacrilegio; in Italia una bestemmia, se non addirittura un'offesa al popolo italiano, dimostrando piccolo non solo il contenuto dell'opera mascagnana, ma ancora il contenuto dell'opera tutta ottocentesca italiana. Insomma il mio povero libro non piacerà nè a Dio, nè al diavolo. E s'aggiunga, ribatto ancora, l'impossibilità che la maggior parte dei miei lettori ha di comprendermi interamente, i colti non essendo severamente musicisti, i musicisti non essendo severamente colti.

Che devo farci? Scrivere un altro libro sopra Debussy e Strauss, con il qual libro certo completerei ed esaurirei la mia critica sopra la musica contemporanea? Ciò potrò anche farlo. Per ora basti a quei pochissimi che m'abbiano letto con «eros», il vedere in iscorcio quello che potrebbe essere l'ossatura del libro futuro, di cui, in fondo, questo sul Mascagni non sarebbe che un libro complementare.

L'arte modernissima a cominciare dal Wagner per finire al d'Annunzio ha in sè un elemento estra estetico, che io chiamerei una specie di stimolo alla vita, o una specie di nepente per dimenticarla. Tale arte è generalmente fatta da e per uomini deboli, stanchi, irrimediabilmente sciupati. I loro spiriti invece di volere dall'artista una visione e una contemplazione, esigono quasi un'eccitazione, un'ubbriacatura, sia pure d'indole assolutamente cerebrale.

Gli artisti che soddisfano questa innumerevole famiglia di debilitati – si pensi ai pubblici decadenti dei massimi teatri europei – si possono così dividere in due grandi categorie: spiriti idillici – un pò nel senso desanctissiano19 – che vanno cercando una gocciolina di freschezza e d'ingenuità analoga alla pastoralità del secento, e colorando tale nostalgica freschezza della loro melanconia spesso ironica, ad es: tra gli italiani, Guido Gozzano, tra gli stranieri, Claude Debussy. Oppure, spiriti dionisiaci – un pò nel senso nietzschiano – che cercano nascondere la rovina su cui danzano al ritmo della loro povera follia con un rabbioso furore di baccanale. Esemplare di questa seconda categoria può prendersi la parte falsa dell'opera d'annunziana e tutta l'opera dello Strauss. Ecco perchè al sereno spettatore moderno dei fenomeni estetici europei balenano spesso i più meravigliosi errori contradittori di giudizio che si possano sognare. C'è chi vede in Debussy un prodigioso rifiorimento d'ingenuità e di semplicità intima, e non s'accorge, malato del male comune, quanto suoni falsa e spasmodica tale presunta freschezza e semplicità. Altri invece scorgerà in Debussy un sorriso ambiguo di femmina logorata dal vizio, e pronuncia a suo modo un giudizio giustissimo. Di Riccardo Strauss c'è chi giura trattarsi di una vitalità superba, multiforme, superiore anche alla irruente vitalità wagneriana – anche questo giudizio è parzialmente vero. Ma ci sarà altri che invece troverà nello Strauss un ammasso vuoto e frigido sebbene assordante di polifonie e confuse di armonie pazzesche.

La ragione di questa parallela duplicità di giudizii sta nel fatto che ho sopradetto. L'arte di costoro è più un eccitante o un calmante che una vera contemplazione o sintesi estetica delle proprie emozioni, anzi, come tutti gli stimolanti è composta per lo più ad artificio, è l'innaturalezza di ciò che serve a continuare e a intensificare uno stato patologico.

Non rechi quindi troppo stupore a quei pochi che saranno in grado di capirmi senza bigottismi e senza dispregi fuor di luogo, se io oso parlare di un Pietro Mascagni e più, di studiarlo con amore, rilevandone in mezzo alle difettosità, alle sciatterie e alle contaminazioni estranee, i brani di buona e bella naturalezza e vera ingenuità. Se nelle opere dei reputati maggiori c'è oggi meno che la vita, nel nostro buon Mascagni, c'è veramente della vita quell'inimitabile baleno, quel divino risopianto che ci trasporta nelle opere di un Mozart e di un Beethoven. È una vita rudimentale, popolaresca come dirsi, una vita che ci auguriamo sia presto superata ed obliata per ben altri canti altrettanto schietti e sinceri ma profondi e pesanti di vera altissima conoscenza umana. Ma mi sia permesso affermare, ad onta dell'apparenza paradossale di ciò che affermo, che, presentemente, chi sia davvero puro, e non per moda nauseato dalle malaticcie raffinatezze di Debussy e dagli spasimi sadistici di Riccardo Strauss; se non si rassegni tristemente a chiudersi nel passato, ma voglia godere d'un poco di vita sempre viva, sia pure inferiormente italiana; non abbia altro scampo che dissetarsi alla vena zampillante d'una bella melodia di Pietro Mascagni.

OPERE DI P. MASCAGNI

Nota biografica. – Pietro Mascagni, n. a Livorno il 7 Dicembre 1863.

Cavalleria rusticana melodramma in un atto di G. Targioni-Tozzetti e G. Menasci (ediz. Sonzogno).

Roma. Teatro Costanzi. 17 Maggio 1890.

L'Amico Fritz commedia lirica in tre atti di P. Suardon (ediz. Sonzogno).

Roma. Teatro Costanzi. 31 ottobre 1891.

I Rantzau opera in quattro atti di G. Targioni-Tozzetti e G. Menasci (ediz. Sonzogno).

Firenze. Teatro della Pergola. 11 novembre 1892.

Guglielmo Ratcliff tragedia in quattro atti di Enrico Heine, traduzione di A. Maffei (ediz. Sonzogno).

Milano. Teatro alla Scala. 16 febbraio 1895.

Silvano dramma marinaresco in un atto di G. Targioni-Tozzetti. (ediz. Sonzogno).

Milano. Teatro alla Scala. 25 Marzo 1895.

Zanetto (Le Passant di F. Coppée) riduzione di G. Targioni-Tozzetti e G. Menasci (1 atto) (ediz. Sonzogno).

Pesaro. Liceo Rossini. 2 Marzo 1896.

A Giacomo Leopardi poema musicale per orchestra e voce di soprano, composto in occasione delle feste per il primo centenario dalla nascita del Poeta. Eseguito la prima volta in Recanati il 29 Giugno 1908 nel teatro Persiani dall'Orchestra del Liceo Musicale Rossini di Pesaro (ediz. Ricordi).

Iris libretto di Luigi Illica (3 atti) (ediz. Ricordi).

Roma. Teatro Costanzi. 7 Ottobre 1898.

Le Maschere commedia lirica e giocosa in un prologo e tre atti, soggetto di Luigi Illica (ediz. Sonzogno).

Roma. Teatro Costanzi – Milano. Teatro alla Scala – Torino. Teatro Regio – Genova. Teatro Carlo Felice – Venezia. Teatro la Fenice – Verona. Teatro Comunale. 17 Gennaio 1901.

Amica dramma lirico in due atti di Paolo Bérel (versione ritmica di Giovanni Targioni-Tozzetti) (ediz. Chaudens).

Montecarlo. 17 Marzo 1905.

Roma. Teatro Costanzi. 13 Maggio 1905.

Dello stesso autore:

POEMI E MUSICHE

I. libro: Poemi.

II. libro: 1.ª parte – Due sonate per Pianoforte. (Firenze, presso G. Venturini).

II. libro: 2.ª parte – Due sonate per pianoforte (in preparazione).

Qual è il significato vero dell'opera di questo o quel poeta e artista italiano, nostro contemporaneo? Qual è il pensiero originale di questo o quel filosofo? E l'idea dominante di questo o quello storico? E l'indirizzo politico, in cui ha lavorato questo o quell'uomo di governo, agitatore, pubblicista? Che cosa sono stati tutti codesti uomini nella nostra anima e vita nazionale, quali voci hanno portato, quali trasformazioni di attività hanno prodotto?

A tali domande, e ad altre più modeste: – Quando e dove precisamente sono nati? Tra quali circostanze si sono formati? Quale è la serie cronologica dei loro scritti e del loro atti? – risponderà la nostra collezione dei Contemporanei d'Italia; a somiglianza delle altre straniere, francesi e tedesche, ma, a differenza di quelle, con intenti più severi di scelta e di metodo. Essa escluderà personaggi, che hanno notorietà ma valgono poco; e includerà, invece, anche uomini dimenticati o trascurati, che hanno avuto un proprio pensiero e spiegato un'effettiva azione: lascerà da parte gli aneddoti, e mirerà all'essenziale.

Gli studi, che pubblicheremo, non saranno apologie, ma neppure libelli: saranno storia. Non nasconderanno i difetti e gli errori degli uomini, presi a studiare; ma intendono guardare, sopratutto, all'opera positiva, da ciascuno di essi compiuta.

Ogni volumetto sarà preceduto da un ritratto, talvolta anche da un autografo, e sempre seguito da una bibliografia (completa degli scritti, e sommaria della letteratura critica intorno a essi), quando si tratti di scrittori; da un catalogo di opere o da una cronologia, se si tratti di artisti o di uomini d'azione.

I. Giuseppe Prezzolini. BENEDETTO CROCE

Svolgimento spirituale. Il sistema. Il critico. L'uomo e l'educatore. Il poeta della filosofia. Bibliografia.

Un volume in 16. di pp. VIII-120 con ritratto e autografo. L. 1,50

II. G. A. Borgese. GABRIELE D'ANNUNZIO

Che cosa è il dannunzianesimo? Lo spirito e l'arte dannunziana nel loro svolgimento. Bello e brutto nell'arte del D'Annunzio. Che cosa è il dannunzianesimo. Nota. Bibliografia.

Un volume in 16. di pp. VIII-204 con ritratto e autografo. L. 2,50

14.Esempî lampanti di derivazione schumanniana troviamo in molte parti dell'opera mascagnana, e non solo nel tecnicismo, ma pur nel contenuto. Si ricordi il movimento della descrizione di vita londinese nel 1º atto del Ratcliff, così somigliante al n. 13 delle Davidbündlerlänze.
15.Nascerebbe in me, discorrendo questi argomenti, di specificare come la pura tradizione, sulla cui via si trovano Haydn Mozart Beethoven Berlioz Schumann, debba da noi altri italiani esser ripresa e non come servile infeconda imitazione. Ma questo libro è uno studio critico, non una raccolta di programmi. Certo che servirà a illuminare anche lo svolgimento delle mie tesi critiche sul Mascagni il dire che, allontanandoci da Wagner, il nostro ravvicinamento a Beethoven dovrebb'essere, per dir così, bene auspicato da una riverente preghiera al genio tutelare di Monteverdi. Ma tutto sta che – per uscire d'immagini – il preteso ritorno a Monteverdi e ai fraterni musicisti del 500-600-700 non sia… wagnerizzamento delle loro forme e contenuti – come, a un dipresso, per Rameau e Monteverdi, accade nel movimento francese moderno, col quale noi coincidiamo per quel che riguarda il desiderio di reazione al wagnerismo, non per quel che riguarda l'attuazione di tale bisogno rivoluzionario.
16.Cromatismo e diatonismo sono, a chi non sappia di musica, qualcosa come una rete a maglie più larghe – il diatonismo – e una rete a maglie più strette – il cromatismo, delle quali reti non solo la larghezza totale è la stessa – scala da do a do – ma anche la larghezza delle maglie maggiori è equivalente a un certo numero delle minori – do-re = do, re bemolle, re naturale. Per uscir di metafora chi potrebbe distinguere rigidamente ciò che differenzia l'uso della scala cromatica in Beethoven e in Wagner, se non un più o un meno che si rivela a un'indagine più accurata, assolutamente scolastico? E in fondo in fondo il famoso diatonismo per esser tutto imbastito di necessità sulla scala cromatica, non finisce per esser assorbito nel cromatismo? E ciò che sembra rimanerne del tutto fuori, non finisce per rivelarsi come o differenza di gusto di tutta un'epoca – e quindi diversità di contenuto storico-sentimentale – o, addirittura, come retorica?
17.L'Amico Fritz si collega anche – ed è ciò altra conferma alla sua essenza armonica – alla musica popolare slava.
18.In questo modo, e cioè col vecchio diatonismo, il ritorno al quale è il più antipatico anacronismo linguistico di cui si sia servita la retorica umana per rattristare i veri artisti, si spiega la ribellione alla melodia da parte delle scuole musicali più avanzate d'oggidì. In un certo senso, sotto il punto di vista armonico, ogni melodia dev'essere la scoperta d'una nuova combinazione tonale, al modo stesso che ogni nuova intuizione poetica sarà di necessità la creazione d'una formula grammaticale nuova e impreveduta. Niente è più inutile d'un motivo di Meyerbeer, niente più inutile del sonetto d'un prete di provincia imitatore dei classici; sebbene in Meyerbeer ci sia una scaltrezza d'arrivista che nel prete provinciale difetta, il paragone è calzantissimo. Certo la nausea della melodia che concede comoda al vulgo i flosci fianchi può degenerare in libidine impotente di novità; ma se i limiti della melodicità ondeggiano tra le melodie d'un Petrella e La Mer di Claudio Debussy, ossia tra l'affermazione vuota e la negazione vuota, non ha da inferirne che non sia possibile anche criticamente dire quali dovranno essere le forme concrete e sincere della melodia.
19.V. lo studio sul Leopardi e sul Petrarca.
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Litres'teki yayın tarihi:
30 haziran 2017
Hacim:
120 s. 1 illüstrasyon
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