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Kitabı oku: «Pietro Mascagni», sayfa 4

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E ancor più bello e pieno di questo sensual mistero erotico è l'intermezzo orchestrale, che ci dà, abbattuta la selva vana di retorici monologhi che lo circonda fragorosamente, il terzo atto. Nel testo dovrebbe significare una visione che Guglielmo ha al Negro Sasso nel vasto orrore della selva sconvolta dalla tempesta, ferito per la prima volta dal terzo fidanzato di Maria. In realtà è un grande sogno d'amore: un sogno stanco e doloroso come la contemplazione d'un destino che, immutabile, contrasti un amore profondo. Dei tre intermezzi mascagnani, in Italia giustamente amatissimi, questo intermezzo è il più profondo. Qualunque sia il suo significato preciso nel dramma, esso è un altro di quei rari momenti di melodia assoluta in cui sembra concretarsi l'essenza stessa dell'anima d'un compositore. Non siamo qui dinanzi al canto d'amore aspro e selvaggio della zingaresca che forma l'intermezzo del Fritz, nè dinanzi alla preghiera amorosamente singhiozzante dell'intermezzo della Cavalleria. Questo pezzo più lirico di tutti perchè più libero degli altri da qualunque contingenzialità del dramma, sembra metterci in comunicazione immediata con la personalità mascagnana. Ed è da questo intermezzo specialmente che io ho tratto le linee principali di codesta personalità, ed è in esso precipuamente che io ho notato il ritorno dell'anima italiana popolare alla malinconia erotica settecentesca. Infatti se il titolo (il sogno di Ratcliff) ci avverte dell'ufficio starei per dire simbolico, che nella mente del compositore ha preso questo divin sogno d'amore, nulla ci vieta di oltrepassare il simbolo e di cogliere in questo canto tutto crepuscolare, soffuso di voluttà armoniosa, la più intima essenza della personalità del compositore. Onde questa melodia semplicissima, sebbene saviamente orchestrata, si ricollega con le più schiette manifestazioni della nostra pittura e della nostra poesia.

Il preludietto del 4º atto è un pezzetto di musica di squisita leggiadria. Continua il poema descrivendo la festa nuziale. C'è in esso quello strano senso che infonde la musica d'una festa lontana. L'a solo del flauto è tutto quel che di più elegante possa produrre la fantasia del Mascagni. Nell'esecuzione dei pezzi staccati che io consiglio, questo pezzo interromperebbe graziosamente il tono grave dell'intermezzo e del racconto. Nè stonerebbe, giacchè il carattere fresco, ma pur sempre misterioso di questa musica di danza, si ricollegherebbe bene con il carattere misterioso della leggenda ratcliffiana.

Però, a dire che dopo questo preludietto, la suite di cui è dimostrata l'esistenza, sia proseguita nel quart'atto, sarebbe farsi troppo schiavi d'una teoria a danno della realtà. La suite si rompe, per verità, e il cattivo melodramma spegne nel compositore qualunque spunto di sincerità. Il quart'atto del Ratcliff, se se n'eccettua la ripetizione del primo preludio a cui è adattata l'esplicazione verbale dell'antefatto a tutto il dramma, è ammorbato dalla solita autoretorica così comune nel Mascagni. Anche il duetto tra Guglielmo e Maria è sforzato, inconcludente, anzi addirittura assorbito in altra e ben più bella concezione mascagnana, di cui non è un'eco, sibbene un primo abbozzo, come, a quel che ho sentito dire, è avvenuto di altri pezzi dell'opera; il duetto, cioè, tra Turiddu e Santuzza. Dunque, mi potrebbe obbiettare qualche malizioso, tutta la vostra teoria sul Ratcliff non diviene forse oziosa, se la suite o poema, che voi dite essere il nucleo di quest'opera, non è neppur compiuto? Niente affatto. La critica, intorno a questo spartito, che molti credono il capolavoro del maestro, non può far altro che dimostrare qual sia la sua vera vita, anche ad onta che tale suo modo di vita appaia qua e là interrotto da lacune, le quali spetterebbe al Mascagni, reso cosciente del suo lavoro, di riempire – dato e ammesso che gli artisti fossero così malleabili, da lasciarsi consigliare dalla critica – cosa che non fanno quasi mai e che, se ci pensi bene, è forse impossibile che riescano a fare.

IV.
Silvano, Zanetto e Poema leopardiano

Il romanticismo del Ratcliff dopo il crudo verismo della Cavalleria e lo pseudoverismo del Fritz e dei Rantzau, può assumere il valore d'una prova luminosa della leggerezza artistica del Mascagni, prova che non viene infirmata dal fatto che il Ratcliff fu concepito avanti la Cavalleria, giacchè, ritornandoci sopra, il maestro ne riaffermava il contenuto, un contenuto ad ogni modo di significato infinitamente minore a quello della Cavalleria. Ciò che forma, si può dire, la personalità d'uno Schumann e d'uno Chopin, per non citare sempre i massimi, è l'unità e la continuità di svolgimento del loro contenuto, il quale, in costoro, sembra svilupparsi come la vita d'un organismo lentamente e ininterrottamente crescente su sè stesso. Lo concepite un Wagner che dopo aver creata la tetralogia scriva una Carmen? È assurdo e ridicolo insieme; chè creare non è solo avere delle lucide intuizioni, ma queste spontaneamente organare per via di assimilazioni ed eliminazioni, in un tutto assolutamente originale. In altre parole un compositore deve avere coscienza delle proprie forze e seguire la linea unica e diritta delle sue aspirazioni. Ora questa coscienza delle proprie forze o aspirazioni, o com'altro vogliasi chiamare il mondo d'un artista, è affatto embrionale nel Mascagni. Come i nostri ultimi operisti – Rossini, Donizzetti, Mercadante, Bellini, Verdi – anch'egli non sente ambizione superiore a quella di espandere fiotti di colori su qualunque disegno gli venga presentato. Questa minima ambizione raffaelliana – mi si perdoni, ma io scrivo quest'aggettivo contrapponendolo mentalmente a michelangiolesca – era quella per cui si tributavano maggiori lodi, per es., al Rossini; ma, se in un certo senso è vero che sopra innumeri soggetti il Rossini e il Mascagni trovan sempre qualcosa da dire, bisogna però vedere se questo qualcosa è detto ad hoc, o non è piuttosto un'improvvisazione simile, in parte, a un sonetto a rime obbligate.

Ora al punto in cui siam giunti del nostro studio, ci è lecito stabilire, contemplando la serie dei soggetti, già noti a noi, che hanno fornito al Mascagni l'occasione di cantare il più possibile, sotto un nuovo aspetto il limite dell'ingegno mascagnano. Noi non possiamo in fondo in fondo creder molto al romanticismo mascagnano per le stesse ragioni, anzi accresciute, per le quali abbiamo dubitato del verismo mascagnano. A una sola condizione noi vi potremmo credere, se l'abbandono del verismo per il suo mortale nemico il romanticismo, fosse stato causato da un pieno riconoscimento delle manchevolezze del verismo rispetto ai bisogni spirituali del Mascagni. Ma, in realtà, questa crisi potente e violenta nel maestro non è affatto avvenuta. Come già dimostrai l'indifferenza e forse l'incoscienza assoluta dello spirito del maestro verso il valore veristico della Cavalleria, così non ci vorrebbe molto a dimostrare una non meno incosciente indifferenza dell'interpretazione romantica della vita contenuta nella leggenda ratcliffiana. Siamo nel paese dove si canta senza sapere il perchè, diceva, credo, uno straniero a tempo della feconda polemica tra Gluckisti e Piccinnisti. E anche oggi Mascagni in linea retta italianamente discendente del Piccinni, non fa nulla di più che cantare senza sapere il perchè.

Continuiamo la nostra analisi.

La 1ª rappresentazione del Silvano segue appena d'un mese quella del Ratcliff e questa nova opera di proporzioni più piccole dovrebb'essere un dramma marinaresco. Ma in realtà il mare in quest'opera, che è la più brutta delle opere del Mascagni, non è che un ridicolo mare di cartapesta, quale in certi teatri da burattini vien rappresentato con strisce di cartone dipinte e rumorosamente agitate con delle corde. Nè il dramma a cui serve di sfondo questo ridicolo oceano impagliato, ha il benchè minimo pregio drammatico. Si tratta d'un sanguinolento fattaccio recitato da fantocci senza nessuna intimità e ragion d'essere. La musica poi è un tale accozzo di frasucce o volgari o addirittura insignificanti, da non meritare quasi il conto d'esser analizzata. Il mare che pur è stato il benigno custode dell'adolescenza del maestro e a cui pur questi deve tanta salute di sangue e d'ispirazione, non gli ha dettato nessuna immagine viva. Come nel libretto il mare è un incolore luogo comune, così nella fusione del libretto e della musica esso rimane una vecchissima immagine ritmica e sonora, quale avrebbe potuto avere, sebben più fine, uno dei nostri buoni vecchi operisti sordi e ciechi a qualunque voce ed aspetto della natura. Neppure nel coro marinaresco del 2º atto, dove il maestro avrebbe potuto almeno darci qualche accento impregnato di sale come le tamerici salse della spiaggia dell'Antignano, egli sa ritenersi dal cadere in una fraseologia da borghese canzonetta napoletana. «Cantate la più bella marinaresca» esclama il coro; ma, ahimè, le note sembrano intendere proprio il contrario.

Ma quello che dà più malessere in quest'opera insignificante, ne è la vecchiezza delle modulazioni, l'insipidezza dell'armonia. C'è la falsa eloquenza dell'agile improvvisator di preludi pianistici per mettere in tono un coretto d'educande. Si osservino poi i recitativi. Essi non sono come nella Cavalleria e nel Fritz quasi la forma musicale che sorgendo ed espandendosi investe e beve le parole, assimilandosele. Essi son fatti come musicando pezzetto per pezzetto, parola per parola il libretto, onde resultano sconclusionati ed incerti. Gli spunti melodici poi riescono odiosi per la ricerca quasi a tentoni della frase che non vuol venire. L'autoretorica vi trionfa: son come frammenti di intuizioni precedenti legati alla meglio. Se mai il Silvano può avere un valore, sarà quello di aver dimostrato al Mascagni tutto il suo dovere di rinnovarsi. Ormai le belle formule melodiche della Cavalleria, gli universali fantastici del suo stile giovanile, non gli dicono più nulla, sono strizzati fino ad aver versato tutto il loro succo. Bisogna ch'egli cessi di strascicare dietro a sè i cadaveri d'una fraseologia che un giorno fu viva; bisogna che immergendosi in un silenzio fecondo, ritrovi nel suo segreto la sua limpida vena, che non s'è seccata, ma solo, non coltivata gelosamente, s'è perduta nel suolo.

Al soggetto sconciamente realistico del Silvano, segue con un nuovo sbalzo, un soggetto di squisita poesia: Zanetto o «Le passant» di F. Coppée. La dolce e intima scena che ne forma il contenuto a dir vero non era molto consona alla natura esteriore del Mascagni. Occorreva prima di tutto un librettista che non sbertucciasse il delizioso episodio con versi che non significano nulla – Cuore, c'è il dolore, tra il profumo e lo splendore – , e in secondo luogo occorreva un musicista di arte molto più evoluta e sinuosa di quello che non sia l'ingenuo e rozzo linguaggio mascagnano. Certo, se confrontiamo lo Zanetto al Silvano, ci accorgiamo subito che il fascino sentimentale del soggetto ha suscitato qualche fantasma vero nella inerte immaginazione del maestro. Il preludio, sebbene così poco intonato alla signorilità umoristica che dovrebbe avere un madrigale sussurrato in lontananza – siamo nel Rinascimento, a Firenze – ; la canzone di Zanetto sebbene così poco elegantemente trovadorica; l'appassionata e bell'aria «non andar da Silvia», sebbene anch'essa troppo plebea per sgorgare dall'anima d'una grande cortigiana fiorentina; sono brani di musica che invano si cercherebbe nel Silvano. Ma nel complesso l'opera è viziosa; il recitativo ne è povero, convenzionale, spesso pesante. Si aggiunga, a momenti, un cantabile indegno della penna d'uno scrittorucolo di romanze a base di sentimentalità da Scena illustrata. So che lo Zanetto ha esercitato un certo fascino sugli studenti intellettuali del tempo. Ma credo che essi, se non eran dei babbei, fossero più vellicati nella loro sentimentalità dall'idea del soggetto, che dall'attuazione mascagnana di quest'idea. La verità è che quest'idea non fu saputa incarnare. Convengo però che tra i libretti mascagnani lo Zanetto è l'unico che, accanto alla Cavalleria e a parte del Ratcliff, può significare qualcosa di poetico.

Mi resterebbe, avanti di passare all'Iris, di parlare del Poema leopardiano. Ma io chiedo venia ai lettori se per rispetto alla innocente gioventù della fresca melodia mascagnana, e per rispetto alla dignità della mia critica, io getto un velo pietoso su questo fallo di gioventù del Mascagni. Ho già troppo robustamente lineato il profilo di quest'arte, perchè ne debba ancora dimostrare l'indifferenza adolescentesca davanti alle altezze più pure e più formidabili dello spirito umano. Mascagni e Leopardi sono due spiriti che, avvicinati, fanno provare la vertigine; appartengono quasi a due mondi diversi. Credo che sarebbe un giochetto puerile dimostrare una cosa a cui tutti credono: che Mascagni non può capire nè quindi cantare Giacomo Leopardi. È possibile che Riccardo Strauss decadente fin nella midolla delle ossa, senta tutto il decadentismo raffinato ed astuto che già s'annida nel nietzschiano «Also sprach Zarathustra». Ma è impossibile che un fanciullo, un monello livornese possa comprendere il pensiero di Leopardi. Tutt'al più farà, come ha fatto Mascagni, un compito diligente sul tipo di quelli dal tema: ditemi che sentimenti vi suggerisce la tomba di Torquato Tasso, o qualche altra tomba o destino umano di cui si sia impadronita senza remissione la retorica scolastica.

V.
L'Iris

Riccardo Wagner a proposito dell'opera italianizzante del Meyerbeer ci lasciò una deliziosa satira di tal sorta di melodramma commerciale, nel quale gli spettacoli naturali, i costumi esotici dei cori e dei personaggi, non stanno al dramma, come accidentalità necessarie; sibbene il dramma, l'azione intima dei personaggi, sta come canevaccio indifferentemente prescelto a motivare quelle esteriorità che diventano di massima importanza. Perchè Meyerbeer a un certo punto del Profeta fa sorgere il sole? non perchè ciò sia necessario al dramma, ma perchè fa più effetto. Perchè il Metastasio a volte metteva in Cina un'azione melodrammatica assolutamente anticinese? Perchè vestiti alla cinese era sicuro che i personaggi avrebbero fatto il doppio dell'effetto. Accade lo stesso per l'Iris? Ahimè! io non saprei negarlo; chè anche in questo io scorgo la filiazione diretta degli spartiti mascagnani dal passato più o meno prossimo del melodramma italiano e italianizzante. Vestire da mousmè le donne del coro e la protagonista; mettere per sfondo un paesaggio esotico di discutibile autenticità; chiamare Yoshiwara la vecchia europea maison de plaisir; insomma giapponesizzare tutto, dai capelli ai piedi dei personaggi e dalla cime dei monti alle bassure d'una fogna formicolante di cenciaiuoli che la scrutano con delle lampadine di… carta del Giappone; è certo una ricetta sicura per titillare la fantasia e gli occhi del pubblico, non che la vena del maestro. Infatti al Mascagni nessuna opera è venuta meglio orchestrata di questa, se per orchestrazione s'intenda l'agile saettìo impreveduto della bizzarria. Per ogni scena di quest'Iris tremola come un multivolo troll di astuta follìa. I colori orchestrali s'impastano con delicati e quasi direi fulminei contrasti; e ora scivolano glaciali e striati come pelle di serpi, e ora ondeggiano come nebbie leggermente iridate. Ogni tanto un'argentinità squillante e melodiosa scande il ritmo – ad altra parte l'esame dell'istrumentazione mascagnana, la quale possiam dire fin d'ora arricchita di tutti i modernismi più audaci della tecnica strumentale d'oltralpe – ; a volte piene sonorità orchestrali e corali prorompono e allargano i loro flutti pesanti, ma equilibrati. L'immaginazione del Mascagni è stata insomma meravigliosamente eccitata anzi sopreccitata dalla poesia nipponica, che l'Illica ha versato con mani prodighe, se non sapienti, nel suo libretto.

Ma un libretto in stile floreale – giapponese – d'annunziano, e uno sfoggio sia pur delizioso d'una ricchissima gamma orchestrale, non bastano a fare un'opera da mettere accanto alla Cavalleria rusticana. Tutt'al più testimonieranno d'un vero innamoramento del compositore per il soggetto che ha preso a trattare, ma non varranno a elevare l'Iris all'altezza di opera certificante una presa di possesso più audace e profonda della personalità dell'autore della Cavalleria. La ragion vera per cui l'Iris se non intera e perfetta come la Cavalleria, è pur sempre l'unica opera degna d'esser detta sorella di quella, è che per l'Iris noi potremmo ripeter la stessa esclamazione d'Osaka sulla giovinetta dormente: «non è mousmè leziosa di città – ordigno fatto per la voluttà – qui c'è l'anima!» Sì, ad onta del nipponismo teatrale, ad onta dei molti difetti, dei quali maggior di tutti lo pseudo-simbolismo, in quest'opera c'è l'anima. L'ingenuità della innocentissima giovinetta sul cui corpo piccolo e perfetto passano vani i lubrìci tentacoli del piacere infecondo, si è fusa con la divina ingenuità della melodia mascagnana. Il 2º atto, che è il migliore di tutta l'opera, va posto accanto alla Cavalleria. Non credo affatto che il maestro sia stato pienamente cosciente della bellissima cosa che componeva, altrimenti avrebbe rigettato come spurio il simbolismo nipponico – solare che guasta e isterilisce la significazione umana di questo second'atto. Ma come per la Cavalleria una «fortunata concordanza di fattori storici ed estetici» condussero il Mascagni a creare un capolavoro quasi senza ch'egli se ne accorgesse, e cioè senza obbedire a quelle profonde aspirazioni che formano la vita intima ed austera dei grandi genî, così in questo second'atto la purezza dell'adolescenza d'Iris e della spensierata adolescenza della fantasia mascagnana si sono incontrate per caso e ne è risultato un capolavoro, così, per caso, come due adolescenti s'incontrano e si baciano senza sapere perchè. Capolavoro naturalmente, che come già ebbi a concludere per la Cavalleria, per questa mancanza d'una severa coscienza artistica, si rivela a uno sguardo più profondo e vasto come – un semicapolavoro.

Ho detto che il simbolismo è tra i peggiori difetti dell'opera. In realtà il simbolismo in arte, non esiste. Esso non è che una specie di astrazione che noi fabbrichiamo per impossessarci alla meglio d'un fatto che spesso si ripete o sembra ripetersi alla nostra analisi intellettualistica, nella grande arte: l'incarnazione artistica, cioè, d'un pensiero, di per sè stesso – e cioè se estratto dall'opera d'arte e ricreato logicamente – ripetibile in modi espressivi innumerevoli. Simbolica si può intellettualisticamente chiamare l'arte del 2º Faust o della tetralogia wagneriana. Ma se noi paragoniamo il simbolismo dell'Iris al simbolismo delle sunnominate opere (prego i lettori di non riderne troppo) ci accorgiamo presto che l'Illica e per conseguenza il Mascagni ha adoprato tale concetto intellettualistico come concreto, ed ha applicato il simbolismo al suo dramma volontariamente, esternamente, più per seguire volente una moda, che per obbedire, al di qua da qualunque regola e metodo, a un bisogno del proprio spirito. Perchè infatti, in fondo in fondo, sotto al velame dei versi e degli accordi strani, qual profondo pensiero troviamo espresso dal simbolo? Che il sole è il maestro delle opere e delle passioni umane, e che se l'egoismo degli uomini spinse alla rovina materiale (non mi pare morale, il che sarebbe stato ben peggio) la piccioletta Iris, la Natura (con l'N grande) corrompendone il cadavere sotto l'azione vivificante del sole genera da tale corruzione una nuova vita, cioè fiori e fiori e fiori. Dio mio! valeva proprio la pena di scomodare l'olimpico simbolismo per dimostrare che anche il corpo d'Iris diviene dopo tante vicissitudini dolorose del concime chimico? Giacchè, come ognun vede, nel simbolismo dell'Iris è lo stesso male di tanto simbolismo d'annunziano (potrei dir moderno, e anche maeterlinckiano, se non mi premesse dimostrarne l'esistenza italiana); far cascare dall'alto una verità vecchia, e cioè, una verità superata, come quelle del positivismo, che s'annidano e echeggiano in tanta arte moderna, nuova come sentimento, vecchia come credenza.

Così anche il simbolismo dell'Iris va messo accanto al suo nipponismo letterario. Esso non ha un valore molto diverso dalle vesti cinesi dei personaggi melodrammatici metastasiani. Ho detto che è un simbolismo di moda. E sotto quest'aspetto noi potremmo notare che il Mascagni segue la scuola italiana e l'orma del Verdi, che emerse in ciò, nel seguire – come molti critici hanno detto quasi una lode enorme – il volubile e mutevole gusto del pubblico; sebbene ciò, per giustizia, sia vero e non sia vero.

Ma come non credemmo al verismo e al romanticismo, così neppur crediamo al simbolismo mascagnano. Infatti la composizione, di poco distante dell'Iris, delle Maschere e dell'Amica, ci conferma pienamente nella nostra opinione. Nè starò a ripetere quel che dissi per la Cavalleria: che, cioè, anche questo simbolismo è uno dei tanti tardivi contraccolpi, che i movimenti della grande vita artistica europea generano nei sostrati ciechi della vita cinese del mondo musicale. Si potrebbe osservare anche qui che al momento in cui l'ingegno del Mascagni, pronubo l'Illica, si sposava al vuoto simbolismo promulgato in Italia dal D'Annunzio, già nella stessa Italia era nata l'alba del giorno, che da quel simbolismo insincero, oltre che errato esteticamente, ci doveva redimere. Chè già dei giovani e forti critici attingevano dal pensiero di un nuovo filosofo di pura tradizione italiano-alemanna, la piena coscienza dell'errore simbolistico e del falso pensiero che tale errore sceglieva per tramite di manifestazione. Ma figuriamoci se questo stato di cose lo poteva neppur sospettare – un musicista!

L'Iris, dunque, si apre simbolisticamente con un fragoroso inno al Sole. Esso è ispirato e retorico al tempo stesso. Retorico già ho detto perchè; ispirato, perchè nonostante la odiosa teatralità wagneriana del tema dell'aurora e del finale mefistofeliano, il motivo dei primi albori, e quindi il corale del sole è pieno di movimento e di fuoco. Mascagni, giunto alla virilità, ha ritrovato l'empito sano della sua bella melodia, di quella melodia chiara, docile, calda come il sole. E infatti qualcosa del sole, e non del freddo sole simbolico, ma del nostro bel sole tirreno che imbionda le nostre larghe città ondeggianti di bandiere sulle spiagge, nel mare, nelle pianure verdi, nelle pieghe delle montagne boschive, è in questo ampio canto melodioso e ben ritmato.

Cessati gli ultimi fragori orchestrali una timida melodia c'introduce nel minuscolo giardinetto d'Iris. È una serena mattina… giapponese? – no, italiana. I fiori devono avere un profumo così sano da mettere appetito. Lasciamo che Iris giovinetta folleggi con la sua bambola; facendo ciò, ella è leziosa come il nipponismo illichiano. Ecco Osaka e Kioto che fanno un delizioso duettino. Osaka canta le lodi della propria voce in versi boursouflés e con una adorabile melodia scapigliata. Ma la sorpresa più affascinante è l'entrata delle mousmè – lavandaie. Oh! l'incantevole freschezza di questo coretto, a cui s'unisce la gaia voce mattutina di Iris che annaffia i suoi fiori e la monotona voce del cieco che prega! Veramente questa musica semplice, senza le smanie impressionistico – descrittive dello Strauss e del Debussy, è tutta, per virtù di miracolo, sapida di geranio e di cedrina bagnati, di borracina mèzza; una gioia agreste si spande per le sue modulazioni leggere, ed essa è fresca e scorrevole come le innumerevoli stille d'acqua che spillano dall'annaffiatoio d'Iris. L'errore della musica descrittiva in generale sta in ciò che in essa si tenta di cogliere volontariamente e quindi arbitrariamente alcune impressioni, la cui vera vita musicale non potrebbe essere altra che una sintesi spontanea di esse e, cioè, una vera trasformazione spirituale della sensazione materiale. Peccato che sulla fine del pezzo il tumido simbolismo dell'inno al sole rispunti guastando con la sua volgare convenzionalità tanta freschezza e semplicità!

Un suono curioso annuncia su di un ritmo saltellante la venuta del teatrino. Questa nuova scena, a dire il vero sempre sprizzante di trovate fantasiose, non è bella come la precedente. Vi sono anzi episodi triviali, come quello del dialogo del padre e della figlia da commedia e dell'ascensione al nirvana di costei: si trova in ispecie nell'episodio del nirvana un wagnerismo di seconda mano che non significa nulla. È al contrario bellissima la romanza di Ior. Il Mascagni della popolare Siciliana della Cavalleria in essa risuscita con nostra grande gioia. La danza delle guechas è forse musica troppo da operetta, tanto più che quel ritmo di valse è assai poco… giapponese. La scena finale dell'atto riesce simpatica per certe movenze melodiche schiette e persuasive, ma nel complesso è sforzata e pesante. Il Mascagni non sente profondamente, come avemmo già a notare, altri affetti che l'amore, e d'altronde le smanie del cieco per l'abbandono della figlia non hanno neppur nel libretto una chiara e intima motivazione, onde, al postutto, cieco e merciaioli pietosi convincono al riso più che alle lacrime. Se al posto del padre si fosse trovato un rivale, un fidanzato di Iris, noi forse avremmo potuto contare una bellezza di più nel teatro mascagnano. Amore, amore! il Mascagni non chiede di più per divenire eloquente e vero artista.

È perciò che il 2º atto gli è riuscito migliore degli altri. Non siamo qui, è vero, davanti a una tragedia d'amor plebeo, come per la Cavalleria; ma l'intimità dei due drammi è la stessa: la carne, il piacere sensuale. Se non che l'amore sensuale non è qui frenetico e feroce come nella Cavalleria. Esso s'è raffinato e, pur rimanendo sano, è divenuto quasi direi meno bestiale. A questa sensualità consueta, quali che sieno le sue modificazioni, in Mascagni, sembrerebbe contrastare l'innocenza di Iris; ma, immersa nell'aria di voluttà carnale che spira la sera dell'Yoshiwara, anche quest'innocenza diventa una specie di ingenuo eccitante alla sensualità. Buon per noi che sia il Mascagni a cantarci questo contrasto tra gli allettamenti egoistici d'un viveur annoiato e la pura ignoranza d'un'adolescente; chè se fosse stato invece uno Strauss, chi sa a quali ributtanti pervertimenti sadici ci toccava assistere.

Ma la musica mascagnana di tutto difetterà fuorchè di salute. La melodia che mugolano le guechas nella penombra calda che circonda Iris dormente, è incantevole per il buon aroma meridionale sano ed asciutto che contiene. È una nenia blanda, che fa sognare a non so quali ombre di giardini sonnolenti nelle canicole mediterranee. Come pure niente di sadico ha la melodia che sottolinea lo sguardo di voluttuoso desiderio con cui il leggero amore di Osaka fascia il sonno giovanile di Iris sotto il velo versicolore. E quali belle melodie espansive non sgorgano dalle labbra di Osaka ridivenuto, per un momento, veramente giovane dinanzi a tanta grazia d'adolescenza! Ma ben altro occhio e ben altro cuore ci vorrebbe per capire Iris; non un Osaka, il quale sospetta sì che in Iris ci sia un'anima, ma non arriva a misurare quanto bella e ingenua sia quest'anima, troppo avendolo da essa distanziato la continua infecondità del piacere. O forse piuttosto per capire la divina bontà di Iris ci vorrebbe la candida penetrazione d'un buon adolescente plebeo, che venisse a parlar con lei di soppiatto, dietro il giardinetto minuscolo, quando fosse giunto il tempo dell'amore e per l'uno e per l'altra. Ma per Iris il tempo d'amare non è giunto ancora. Sforzarla all'amore è una viltà di quelle, a cui la natura pone più che può le sue sacre barriere insormontabili. Iris così non capisce ciò che Osaka vuole, e risponde al giovane seduttore infantilmente, chiamandolo «figlio del Sole»; infantilmente si spaventa nella sua religiosità al nome che Osaka impudente si dà come un magnifico titolo: il piacere. Neppure capisce ciò che Osaka vuol da lei quando questi la bacia con lento allettamento. Anzi – e forse un presentimento confuso ha commosso le sue viscere di bambina – prova terrore del bacio e scoppia in pianto. E qui tutta l'aridità di Osaka e il suo leggero egoistico amore si palesano. Egli non vuol ritrosie neppure da parte di una giovinetta bella come Iris, e accetta infuriato il turpe proposito del tristo mezzano Kyoto di esporre la fanciulla al pubblico come una cortigiana.

La musica di tutte queste scene sembra a me molto bella. Se se ne tolgano certe leziosaggini massenettiane nella parte di Iris, è tutto un seguito di frasi ispirate limpide trascinanti, ben corrispondenti al flusso della situazione. Perfetta è poi, dopo il grido di Osaka: «sono il piacere» (di cui va ammirata la tortuosa successione delle due tredicesime maggiore e minore), l'ondulazione, come di un respiro ansante per paura, che forma il ritmo dell'aria della piovra. Forse questa improvvisa coscienza di Iris, sia pur suscitata dal ricordo d'un insegnamento religioso e superstizioso, del piacere, è un poco esagerata. Ma musicalmente poche volte il Mascagni era giunto a tanto tragica profondità.

Bellissima è poi tutta la fine dell'atto. I recitativi eleganti di Kyoto, impregnati d'un comico umorismo; le sue lubriche preparazioni; la dolce purità di Iris che canta con in braccio il fantoccio di Ior, la stessa romanza di Ior nell'atto primo; i rumori strani della città oziante nel crepuscolo; l'urlo d'ammirazione prorompente nella gente «dotta e ghiotta d'ogni cosa vaga e rara» alla vista del divin corpo seminudo di Iris, il fior di giaggiolo montanino che accende le cupidigie degli stanchi cittadini spargendo sopra di essi un fascino di acerbità casta; Osaka che alla vista dello spettacolo turpe non prova rimorso morale, bensì un volgare rimorso carnale; e finalmente l'arrivo del cieco, che invece di essere la risoluzione della terribile ansia di Iris, ne corona l'orrore con la maledizione infamante; e la piccola Iris, che ignara di tutto ciò che ha veduto come in un sogno pieno d'incubi e di dolcezze misteriose, non resiste alla maledizione paterna e s'uccide precipitandosi in un grande abisso «ove in fogna si sfoga la gran città», forse improvvisamente balenando alla sua breve coscienza l'infamia in cui è stata trascinata – è tutta una serie di rappresentazioni vive, rapide, colorite, in cui il Mascagni raggiunge di nuovo, come nella Cavalleria, la sua potenzialità di ingegno drammatico per eccellenza. E un fortissimo orchestrale, procedimento classico ormai dell'arte operistica Mascagnana, distende e quindi scioglie l'ansia delle scene dolorose a cui abbiamo assistito.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 haziran 2017
Hacim:
120 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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