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Kitabı oku: «Ahi, Giacometta, la tua ghirlandella!», sayfa 6

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XVIII

Già, ma ne valeva la pena?


In quel mattino della fine di aprile, tu, Bologna, splendevi ne' tuoi rossi mattoni al sole nuovo e ti allietavi della tua placida gente, via per le piazze e i porticati che ti danno il tuo volto di città discreta, con molte ombre e molti riposati ritrovi per l'amore che vuol nascondersi.

Ridevi nel palazzo di Re Enzo, nel tuo Nettuno che non gocciola più, nel tuo Pavaglione dove passano le figliuole tue più belle e fresche e possenti, nate per l'amore che sempre vuol trovare una nuova canzone.

E se Dante disse male di te, ebbe torto, il padre nostro un poco arcigno; e certo non aveva vissuto il tuo grande e generoso cuore.

E dir male di chi si prodiga è certo un dir male della Divina Provvidenza.

Quando uscii dall'albergo cantavo. Avrei data l'anima mia al primo passante. Sorridevo a tutto e tutto mi sorrideva.

Dove andavo?.. Per il sole, per la soavissima mattina di quella fine di aprile. Andavo ad aspettar l'amore. Andavo ad incontrarlo, chè mi pareva dovergli abbreviare la strada.

A quando a quando guardavo l'orologio e mi dicevo:

– Ora sarà a Faenza… ora sarà a Castel Bolognese…

E la vedevo, in un rosso compartimento di prima classe, guardar dal finestrino la campagna che fuggiva, gli occhi assorti sui filari degli olmi, sui festoni delle viti, sulle case, sulle ville, sui turchini dolcissimi colli della nostra Romagna. La vedevo colta dalla mia stessa ansia nervosa che non le permetteva l'abbandono, il riposo; ma la stancava anzitempo in un'attesa snervante.

Mi fermai alla vetrina di un fioraio, sotto i porticati di via Indipendenza. Comprai per quaranta lire di rose che feci mandare all'albergo per Giacometta.

Ritornai all'albergo. In preda a una vera sofferenza fisica, mi trascinai di sala in sala; sedetti su tutte le poltrone, mi abbandonai da un divano all'altro; implorai l'orologio grifagno, il quale si appuntava sempre sugli stessi numeri. Ciascun minuto ebbe il suo profondo sospiro. Certi stiramenti nervosi, che non potevo assolutamente vincere, mi lasciavano in una profonda depressione.

E finalmente mancò un quarto d'ora, mancarono dieci, otto, sette minuti…

Che avrei detto rivedendola? Ah, che non si trovano parole là dove il commosso amore vive la sua prima giornata!.. Sentivo che non avrei parlato. Non avevo niente da dire. O meglio: tutto quanto era in me di vita, di spasimo, di sincera offerta, poteva leggersi negli occhi miei, nella mia pallida faccia.

Appunto perchè ogni mia facoltà non viveva che della passione mia. E non c'era posto per altre cose nè per pensieri diversi; nè, i miei diciannove anni, potevano parlare come parlano i trenta, i quaranta, quando l'amore è passato per tante strade e conosce le sue parole.

Io allora ero, appunto, di una semplicità francescana. Ma la giovinezza non si specchia mai alla sua fonte freschissima e non sa compiacersi. Vive e trascorre affannando, finchè non sosti, non si rivolga a guardare e sospiri, ed è ormai per morire!

Non potendo più attendere nella penombra della grande sala a vetri, mi feci sulla porta dell'albergo e vidi arrivare l'omnibus. Veniva dal fondo del vicolo, pencolando, sovraccarico di bauli e di valige.

Io non vidi chi fosse dentro a quel grande cassone a vetri; ma sentii che tu c'eri, Girometta!..

Ti chiamo Girometta perchè sei il fiore della mia canzone; perchè ora, che ti faccio rivivere, ti ritrovo come allora e ti sto intorno con lo stesso commovimento amoroso.

Poi l'omnibus si fermò e ci vedemmo.

Tu ti levasti di scatto dal rosso sedile sporgendoti verso i vetri chiusi; ridendo e agitando le mani…

Io arrivai fino allo sportello del pesante veicolo. Ma prima ne discesero due inglesi, una enorme signora, un funzionario, una dama segaligna e il suo pargolo dai capelli color canapa… poi eccoti eccoti eccoti, mia festante creatura… tormento e amore mio indimenticato!..

Ti offrii le braccia e tu ti gettasti al mio collo.

– Perchè, perchè lasciarmi così?..

Non ti seppi dire il perchè e fu molto meglio.

Dopo, rivolgendoti a una signora di mezza età che attendeva, placidamente sorridendo, dietro di te, mi dicesti:

– Questa è la signora Zeffira che mi ha accompagnato. È una vecchia buona amica nostra.

E alla signora Zeffira dicesti:

– Questo è il signor Francesco Balduino… il mio Franzi di cui le ho parlato.

Ci porgemmo la mano, la signora Zeffira ed io e questo fu tutto quanto si fece fra me e lei.

Quando fummo dentro l'albergo, Giacometta mi domandò:

– Che camera hai, tu?

– Io ho il numero 63, al terzo piano.

Allora Giacometta si diresse al bureau e disse al direttore:

– Io voglio stare vicina a mio cugino… questo signore… – e mi indicò. – Mi assegni la camera 62 o la 64.

La signora Zeffira, dietro di noi, aveva sempre il suo placido e disteso sorriso, nè rifiatava.

– E la signora? – domandò il direttore indicando la dama in nero che aveva accompagnato Giacometta.

– E lei? – fece Giacometta rivolgendosi verso la signora Zeffira.

– Oh! Per me fa lo stesso… – rispose la dama dal placido e largo sorriso. E le toccò il numero 72 molto lontano da noi.

Io ero un poco sorpreso, ma guardavo la signora Zeffira, sempre con riverente riguardo.

Quando Giacometta fu per salire, le si accostò un ragazzo che teneva abbracciato addirittura un grandissimo fascio di rose bianche e vermiglie.

– È lei la signorina Maldi?

– Sì…

– Queste rose sono per lei.

– Per me?.. E chi le manda?..

Guardò i fiori, corrugò un attimo la fronte poi levò la faccia irraggiata verso di me.

– Tu?..

– Sì…

– Caro caro caro!.. Sali… sali con me… ho da dirti tante cose!..

E andammo innanzi; e la signora Zeffira dietro; ma aveva sempre il suo largo e placido sorriso.

Io non so dove siate, ora; nè se la morte vi abbia presa, cara signora discreta della mia giovinezza; ma se pure il paradiso vi tenga, o qualche casa silenziosa della nostra provincialissima Forlì, il mio ringraziamento sempre vi sia rinnovato.

Giacometta mi fece entrare in camera sua; poi volle vedere la mia stanza e mentre io mi avviavo alla porta di uscita, mi chiese:

– Da dove passi?

– Perchè?

– Perchè c'è questa porta ed è tanto più semplice servirsi della strada più corta!

Aveva ragione. Le nostre camere erano intercomunicanti; ma io non mi ero accorto del particolare.

La porta era molto arrendevole e si aprì facilmente. Giacometta ne fu felice:

– Così saremo vicini vicini vicini!..

Poi mi pregò di starmene un momento solo in camera mia. Doveva sbrigare certe sue faccenduole.

– Ti chiamo subito, Franzi… Faccio presto presto…

Uscì e socchiuse l'uscio.

Io caddi, affranto, sopra la prima seggiola.

– Franzi?.. Di' la verità… credevi che io venissi?..

– Non lo pensavo neppure!

– Perchè?

– Ma… dopo l'altra sera…

– Quanto sei bambino!.. Ancora non mi hai capita!

– Questo è vero. Però non diremo tu sia facile.

– Sai? Non bisogna darmi troppo retta quando ho i nervi.

– Ma se mandi via la gente!

– E tu dovevi ritornare. Era il tuo semplice dovere.

Si udiva il rombo e lo stridore dei tranvai elettrici.

– Vieni, Franzi.

Sospinsi l'uscio ed entrai.

– Ora usciamo.

– Sì.

– Aspetta… prendo i guanti.

Quando fummo nel corridoio ella si diresse alle scale quasi correndo. Fui io che dissi:

– Scusa… e la signora Zeffira?

– No, lasciala stare. È tanto stanca.

– Ma… non dirà…

– E che deve dire?.. Aveva bisogno di venire a Bologna, l'ho condotta con me… le ho pagato il viaggio. Ora se la sbrighi come vuole.

Ammirai il semplice modo che aveva Giacometta nel regolare i rapporti sociali; ma, per conto mio, ero un poco stonato; non ci capivo proprio molto bene.

– Scusa, Giacometta… e se poi va a raccontare…

– Ah, Franzi!.. sei proprio un ragazzo!..

Era lei che guidava me; eppure questo capita qualche volta anche negli anni più gravi.

Una vettura ci portò un poco in giro per le strade di Bologna; poi ci condusse a una trattoria fuori barriera d'Azeglio.

Giacometta parlava con una volubilità e una freschezza bambina. Parlava quasi sempre lei e ne era molto contenta.

La mia fuga improvvisa e il dono delle rose l'avevano ricondotta a me piena d'amore.

– Ora tu potrai fare di me quello che vorrai. Io sono ormai decisa, ben decisa, Franzi. Mi hai scritto una lettera che mi ha fatto piangere. Ah! che cuore, che grande cuore hai, amor mio!.. Rimarremo a Bologna qualche giorno… poi andremo più lontano… molto più lontano. A Parigi… a Londra… Io voglio andarmene via con te… con te solo!..

Queste idee mi turbavano. Come avrei potuto seguir Giacometta a Parigi e a Londra?.. Con mille e tante lire dove sarei arrivato?.. Ma è un caso molto raro che le donne innamorate pensino a questi piccoli inconvenienti.

Desinammo fuori, alla stessa trattoria, senza che della signora Zeffira fosse fatta parola. Rientrammo all'albergo verso le dieci di sera.

– Sono stanca – disse Giacometta; ma aveva negli occhi un'ombra nuova e parlava molto meno.

XIX

Tienmi sulle tue ginocchia e non lasciarmi pensare…


La signora Zeffira sonnecchiava sopra un divano della sala di scrittura. Quando ci vide arrivare esclamò:

– Tanto tardi, figliuoli miei!

E senza aggiunger cosa nuova, si rifugiò nel suo largo e tranquillo sorriso.

– Noi andiamo a riposare – disse Giacometta.

– Sì, andiamo. Ho tanto sonno! – aggiunse la signora Zeffira.

Ci separammo nel corridoio e ciascuno entrò nella propria stanza. Ora, anche oggi, dopo tanti mai anni, oggi, sul punto di rientrare nell'ebbro turbinio di quella notte, mi sento battere il cuore alla gola e la mano non ubbidisce alla mente nel tracciar le parole.

Questo mi sia perdonato da chi conosce l'amore.

Non appena fui solo ed ebbi serrate la porta del corridoio, rimasi fermo in mezzo alla stanza senza saper più che fare. Uno smarrimento, giustificato da qualcosa che ancora non aveva preso forma nel pensiero, mi teneva così in una fissità di automa.

Guardavo gli oggetti riflessi nel fondo di uno specchio; ascoltavo i suoni confusi che mi arrivavano dalla via. Certo era che non pensavo a coricarmi.

Poi mi riscossi, mi avvicinai all'uscio della stanza di Giacometta; accostai l'occhio alla serratura; ma non potei vedere ciò che accadeva dall'altra parte.

Che faceva la mia vicina? Si sarebbe coricata tranquillamente… così?..

E aspettavo, non essendo ben certo che qualcosa fosse per accadere di molto diverso dal consueto.

Dalla stanza di lei non mi giungeva il benchè minimo suono. Avevo udito quand'ella aveva serrato l'uscio del corridoio a doppia mandata; ma, dopo questo, si era chiusa nel cuore del silenzio.

Che faceva?.. Dormiva forse?..

E l'idea ch'ella fosse già placidamente sperduta nel sonno, mi angosciò.

Poi nel mio agitato muovermi urtai una seggiola che si rovesciò. Allora, d'improvviso, Giacometta mi chiese:

– Cosa fai?

– Niente!

– Vai a riposare?..

– No!.. Non ho sonno!..

Trascorse un silenzio. Io guardavo la sua porta chiusa.

Ad un tratto udii il suo passo leggero accostarsi all'uscio.

– Senti?.. accostati!.. voglio parlarti…

Ella doveva udire sicurissimamente il battito del mio cuore.

– Franzi?.. Sei lì?

– Sì, piccola…

– Allora… se proprio non hai sonno…

– Giacometta…

– Sssssst!.. Parla piano!..

– Sì!

– Se proprio non vuoi dormire… non potremmo…

– Che cosa?..

– Non potremmo… raccontarci qualche bella favola?..

– Una favola?..

– Non vuoi?..

– Sì, voglio…

– Bene… aspetta un poco…

Fuggì; pareva corresse a piedi nudi sul tappeto. Poco dopo la sua voce, più lontana e più spenta mi chiamò:

– Franzi… vieni!..

Quando posi la mano sulla maniglia dell'uscio, tremavo come un paralitico. E dovevo essere pallidissimo, allorchè apparvi nel vano, perchè ella mi domandò:

– Ti senti male?

– No, Giacometta…

– Vieni… Siedi qui…

Si era sprofondata in una ampissima poltrona di cuoio rosso e mi fece prendere posto sul bracciuolo.

Era appena vestita… che so io?.. Attraverso la vestaglia rosa, nella quale si era avvolta, la vedevo più ignuda che se mi fosse apparsa solo nella sua serica pelle. Ignude erano le braccia e il collo, il seno e le spalle; ignuda la caviglia sottile; i piccoli piedi calzavano due pantofolette del color delle rose. Si era già pettinata per la notte: aveva raccolto parte dei capelli in una cuffietta alla foggia dell'Olanda; ma non tanto raccolti erano che due grosse ciocche non le scendessero fino alle guancie. E due rose bianche, una per parte, morivano sulla biondezza de' suoi capelli ricciuti.

I grandi occhi di bambina, i suoi occhi – «color seta celeste come il vestito della Madonna» – per chiamarli con le parole di Principina, si sgranavano in un muto sorriso; la grande iride lionata, fatta meno ampia dal dilatarsi delle pupille, nella leggera penombra, si accendeva, a quando a quando di una curiosità ambigua che turbava quella freschezza, con qualcosa di acre e di insano.

Ma sapeva di essere bella, sapeva di raggiungere il limite tragico della bellezza. Tutto poteva riuscirle; tutto le era dovuto. La sua bionda adolescenza era una divina parola per gli uomini stupiti che la vedevano passare. E a me, proprio a me era toccata l'immensa gioia di poterla godere!

Abile in tutto, aveva avvolte le tre lampade centrali in una sciarpa rossa cosicchè la luce si diffondeva blanda, ammorzando ogni violenza di contorni, per fondere in un'unica dolcezza i fiori, le cose, le creature.

Aveva disposto, in un tavolo, un grande vaso di bianca maiolica e dentro vi aveva raccolto gran parte delle mie rose. Altre rose rosse erano gettate sulla coltre del letto; ed altre, bianche, erano ai suoi piedi e, vicino a lei, sulla poltrona.

Quando chiusi l'uscio e mi avanzai, ella, gettate via le pantofolette del color delle rose (ed io vidi, nel gesto improvviso, la meraviglia della sua schietta e sottile nudità, fin oltre le rotonde ginocchia!..) si raccolse tutta, si rannicchiò nell'ampissima poltrona riducendosi come un piccolo rosso ghiro nel suo nido di foglie secche; e, sporto innanzi il piccoletto viso, allargò le braccia, posando le minuscole mani sui bracciali della poltrona, in tale gesto di grazia, che sarei caduto in ginocchio ad adorarla.

– Siedi qui…

Sedetti. Ella mi si accostò; sovrappose le minuscole mani sulla mia gamba, appoggiò la guancia alle mani e mi guardò così dal sotto in su, sorridendo muta.

Quant'era bella!..

Dalla pura fronte al mento disegnato in una soavità che appena compiva l'ovale del viso per accordarne la linea a quella della gola, là dove muore e palpita nel palpito delle parole, tutta la delicata faccia si compiva nella musicale dolcezza di un fiore; nè vi era parte sua che potesse, o per una luce più cruda o per un angolo visuale diverso, apparire meno perfetta. La soavità di ogni particolare compiva il miracolo di quel volto angelicato di adolescente che poteva tuttavia tramutare d'improvviso, senza perdere l'incantesimo suo ed essere men puro, allora che dal torbido ridestarsi dell'anima nuova al mondo, saliva una fra quelle inespresse e tormentate volontà che presentivano il vizio e volevano assaporarlo in un desiderio di sùbita violenza.

Per un poco mi sorrise ella ancora, senza togliersi da quell'atteggiamento, poi gettatemi le ignude braccia al collo e avvinghiatasi a me, mi susurrò in un improvviso delirio, ansimando:

– Prendimi!.. Prendimi!..

E, parrà a voi, che quello dovesse essere il punto logico del giusto sacrificio… E anche a me parve, tantochè, perduta ormai la nozione dei giorni e del tempo, travolto dalla mia giovine forza che tempestava, stretta che l'ebbi fra le braccia e coperto il caro volto che smoriva, di un diluvio di baci, tentai di averne ragione per quelle strade che le semplici leggi della natura impongono; ma la mia giusta volontà s'infranse sempre contro la resistenza di lei. Non ch'ella ripugnasse da me e volesse disciogliersi dall'abbraccio, chè anzi mi restava avvinta come una piccola serpe e mi rendeva i baci che le davo; ma travolta da una esasperata volontà di rasentare il piacere senza concedersi tutta, mi eccitava con parole scomposte, presa dalla febbre della sua follia; più bella che mai e più che mai nemica.

E, nella lotta che ne seguì, ci accolse il rosso tappeto.

Io la sentivo e la vedevo, ormai quasi ignuda, talmente bella nel suo primo fiore, da darmi le vertigini, eppure mi accorgevo di pensare, meravigliando, alla scombuiata mente di quell'adolescenza così presto travolta da un vento di follia, dalla precoce voluttà del vizio.

Io che non conoscevo allora se non le ancestrali strade, battute già da cento e cento generazioni che sapevano l'amore dagli occhi limpidi e dalla schietta volontà procreatrice.

Però, preso dal turbine nuovo, non potevo nè volevo ritrarmene e l'angoscia mia tanto era maggiore, quanto meno mi pensavo dovesse avere un siffatto termine.

Ella si esasperava ognor più eccitandomi ed eccitandosi, e la sua faccia era contratta, pareva, a volte, dolorante come quella di una Maddalena.

Così continuò non so quanto, nè le mie forze cedevano, nè mi sarei dato per vinto s'ella, a un tratto, non avesse avuta una contrazione convulsa e non avesse rotta l'angoscia in un breve ed aspro riso arrovesciandosi come morta e restando così sul pavimento, le braccia larghe, i capelli disciolti, senza più sangue la faccia e le minuscole mani contratte.

Me le inginocchiai vicino; la chiamai impaurito, senza capire che accadesse, incolpandomi di averla ridotta in tale stato.

– Giacometta?.. Giacometta mia?..

Non rispose, ma, nascosta d'improvviso la faccia contro un braccio ripiegato, mi accorsi che piangeva. Che non le dissi allora? Quali parole non trovai nella mia disperazione per calmarla, per dimostrarle tutta la mia brutalità e la mia colpa; per farmi perdonare?..

Io ero convinto di averle fatto un gran male, non sapevo scusare la mia bestiale condotta; ma ero ben lontano dall'aver compresa, anche quella volta, la mia singolare compagna.

Ella restò così prostrata non so quanto tempo; poi si rialzò senza guardarmi, mi sospinse con una mano verso la poltrona; mi disse:

– Siedi…

E accostatasi a me, sedette sulle mie ginocchia. Poi, abbandonata la testa sulla mia spalla come una bimba malata, sussurrò:

– Tienmi così, Franzi… tienmi sulle tue ginocchia e non lasciarmi pensare…

Suonavan le campane dell'alba quando mi gettai sul letto, senza neppure svestirmi e mi pareva di essere vuoto d'ogni sostanza, pur senza avere nulla ottenuto.

XX

C'è ancora un albergo dedicato a un nomade poeta?


Fu quando mi ridestai che mi ritornò nella memoria la ghirlandella di gelsomini abbandonata sul ramo più in cima della gigantesca betulla.

Non eran forse queste le prove alle quali la mia disperata Giacometta voleva pormi? Ero io già in pieno rito tartarico?

E mi dolevo meco stesso della mia disavventura e del ginepraio nel quale sempre più mi addentravo e sempre più avrei dovuto addentrarmi fatalmente, di giorno in giorno.

Come avevo potuto trovare una simile creatura proprio in fondo alla mia taciturna Tebaide? nella più quieta, cioè, nella più dispersa, nella più addormentata fra le città di provincia? Proprio te, Forlì, città grugnita dai tre campanili come tre maghi coi cappelli a cono, proprio da un tuo giardino incantato in fondo al Borgo dei Cotogni, doveva uscire per me quello che appena avrebbe potuto darmi una fra le moderne Babilonie? Quale nuovissimo Leggendario di Maddalene avevi tu sfogliato per ispirarti a dar vita a questa tua Girometta?.. E sì che i costumi tuoi erano castigatissimi e nessun ardimento sarebbe bastato ad affermare che dalla tua folle vita potesse essere generato un tanto fenomeno!

Ma l'inverosimile è appunto ciò che più di frequente si verifica al mondo; ed è più spesso dai tormentati silenzii e dalle aspre vigilie delle città sonnacchiose che escono le creature piene di follia, atte a qualsiasi estremo.

Mi levai, quel giorno, ingrugnito come la città mia fra le ortaglie, e non chiamai Giacometta. Aspettavo ch'ella fosse comparsa.

Seduto nell'ampia poltrona, fumavo una sigaretta dietro l'altra, guardando, dalla finestra aperta, una riga di sole passar sul muro opposto… e le ore passavano… e Giacometta non compariva.

Era già trascorso mezzogiorno quando mi decisi a troncar l'attesa. Possibile ch'ella dormisse ancora?.. Il dubbio che fosse malata mi spinse a bussare alla porta di lei. Nessuno rispose. Dopo reiterati e infruttuosi tentativi aprii la porta ed entrai. La stanza era vuota. Abituato ormai alle stramberie di Giacometta, la prima idea che mi venne fu che ella avesse presa la via della stazione e fosse salita sul primo treno in partenza.

Però, gettato uno sguardo per la stanza, mi convinsi di aver sbagliato. Giacometta era a Bologna. Le sue valigie lo attestavano.

Allora perchè uscire senza dirmi niente? Andai in cerca della signora Zeffira. Anche la placida signora era fuori.

Seppi poi dal portiere che la signorina Maldi era uscita verso le nove.

La cosa m'indispettì. Mi proposi di andarmene per conto mio e di non ritornare se non a tarda notte. Però non avevo fatto dieci passi fuor dall'albergo che eccoti venirmi incontro Giacometta, accompagnata da una signorina che non conoscevo.

– Franzi, ti presento la mia amica Elda Sialli. Venivamo a cercarti. Dove sei stato fino a quest'ora?

– All'albergo.

– Hai dormito?

– Ma neppure per sogno!

– Che cos'hai fatto allora?

– Ti ho aspettato.

– Non sapevi che ero uscita?

– No.

– Sono uscita presto perchè non mi è riuscito di prender sonno. Ti ho lasciato riposare, in compenso. Ora si veniva a cercarti con Arlecchina.

Il nome inatteso mi fece levar gli occhi sul volto della giovinetta che, fino a quel punto, non avevo osservata.

Ci avviammo sotto i porticati corsi da un fiotto di gente ingaita dal sole, dalla stagione, dalla natura sua prodiga e tranquilla che ama il benestare e rifugge dalle malinconie.

Io parlo della Bologna di allora, e mi rifaccio a un tempo in cui l'ora grigia, che oggi è sul mondo, con tutta la sua tempesta, si accennava appena all'orizzonte.

Allora c'era tuttavia un po' di primavera, nè si pensava allo sfacelo più che non si pensasse alla morte del mondo. E si cercava la gioia nel ritmo dei giorni; ma senza la scomposta ansietà che segna il carattere delle ultime generazioni sopravvenute; e molta e sana serenità era nel cuore delle folle.

E la petroniana bonarietà epicurea passava nel sole delle sue primavere, quando i giardini dei soavissimi colli bolognesi sono tutti un fiore e un aroma, sorridendo nella sua secolare esperienza.

Giacometta aveva indossato, quel giorno, una sua veste turchina (era il colore prediletto) semplice come la veste di un piccolo lago, e aveva un cappello a viso dal quale usciva un'onda de' suoi magnifici capelli biondi. Il suo volto di adolescente non serbava traccia della notte combattuta ed insonne; solo, sotto i grandi occhi celesti, era una delicata ombreggiatura che ne accresceva la profondità e l'incantesimo. Poi la freschezza del giorno primaverile era la sua freschezza.

Ella rideva parlando e la gente si rivolgeva a guardarla.

Arlecchina, all'opposto, non era brutta, ma aveva una faccia strana, rilevata fortemente negli zigomi e nelle mascelle; con un qualcosa di indecifrabile, che la segnava, a quando a quando, di un'ombra maligna e cattiva.

Arlecchina poteva avere vent'anni. Era ciò che si chiama un tipo. Bisognava guardarla per il turbamento che proveniva dall'ombra del suo volto bruno e degli occhi leggermente obliqui.

Ella aveva una figura superba. Pareva nata al piacere. Forte e delicata la curva dell'anca; il seno rotondo; soavi le spalle, spioventi fino al disegno delle belle braccia; bene eretto il collo da cui sbocciava il viso che non piaceva e turbava.

Portava, sui foltissimi capelli neri, un berretto alla raffaella, gettato da banda, tanto da lasciare in ombra una parte del volto; e camminava eretta sul busto, senza distrarsi a guardare intorno, come se passasse per arrivar sempre più lontano, assorta nell'enigma di un suo sogno; se ne andava così estranea a tutto e a tutti, lasciando che il passo, un poco molle, ponesse in rilievo le sue curve di bella tigre in agguato.

Aveva quattro rose rosse alla cintura e la gonnella disegnava, nel vento leggero, la schiettezza delle gambe diritte che incominciavano baciandosi, dall'ombra del desiderio per condiscendere, agili, fino alla piena rotondità delle ginocchia.

Arlecchina era molto più alta di Giacometta e parlava, un poco in dialetto, un po' in italiano, ridendo e muovendo al riso per una sua comicità inesausta.

Percorremmo varie volte il Pavaglione e via Rizzoli, soffermandoci alle mostre dei negozi; poi Giacometta, disse:

– Che faremo oggi?.. Che ne diresti, Arlecchina, se si prendesse un auto?

– Quale auto?

– Ma un auto da piazza!

– Non è necessario. C'è la mia… Aspetta: oggi che giorno è?

– È martedì.

– Allora papà non si muove. Per la mamma è giorno di visite. Possiamo andarcene con la mia automobile.

– E dove andremo?

– Questo lo chiedo a te. Io ti do il mezzo, tu trova la mèta.

Allora Giacometta si rivolse a me.

– Tu, Franzi, non hai un'idea da suggerire?..

Risposi:

– Andiamo a Ravenna.

– Bene bene!.. Andiamo a trovar Teodora!.. Che ne pensi, Arlecchina?..

– D'accordo! Ma quanti chilometri ci sono di qui a Ravenna?.. Perchè voglio essere di ritorno questa sera.

– Non più di ottanta – dissi. – Le strade sono ottime e, se la macchina è forte, si può andare e tornare tranquillamente.

La cosa fu decisa e, presi dalla festevolezza dell'impensato, ci avviammo verso la casa di Elda Sialli.

Poco dopo si filava fra le ville, i pioppi e le borgate della via Emilia, trascinati dall'impeto di una quaranta cavalli, presi dalla vertigine della corsa e della nostra innamorata e spensierata giovinezza.

Superammo Castel San Pietro, Imola, Castel Bolognese in men di un'ora. A quest'ultima borgata abbandonammo i bei colli emiliani per inoltrarci nella pianura che muore fra le pinete e le lande incontro al verde Adriatico.

Era con noi, in quel giorno della fine di aprile, la piena gioia di vivere; il compiuto possesso della giovinezza nostra in ardore; la ebbra coscienza di coesistere al mondo con le cose belle, luminose, armoniose, nell'ora nostra, nella grande ora nostra di vita.

La felicità ci era sorella; seduta con noi sulla macchina che si avventava per le strade della campagna assolata, tutta un profumo di fieni e di biancospino. Si correva fra siepi bianche di fiori, via in una dolcezza di luce distesa senza violenza; ed ogni casolare, ogni vecchia villa, ogni pieve aveva la sua parola gettata sul nostro rapido passare come un augurio. E noi, pellegrini del sogno, fuggivamo senza sapere perchè, dietro il volo della nostra gioia che si chiamava giovinezza.

Difficilmente gli uomini, se non hanno un grande cuore, sanno rinnovare l'incantesimo nella cosa raggiunta; il partire per giungervi, è tutto; poi all'arrivo, quasi sempre non resta che cenere.

Ravenna ci accolse nella sua malinconica pace raccolta fra le piccole squallide case, le millennii basiliche e l'umido verde delle piazze sacre alle ore di nessuno, alle ore che si distendono sui vecchi muri giallastri per dormire con la luce che dorme, col cuore che dorme da tanti mai anni.

Giacometta volle veder subito Teodora, la Basilissa che appare dal mosaico bizantino co' suoi grandi occhi neri i quali serbano la fissità di un fascino inestinguibile e di un inestinguibile dominio.

L'auto si fermò dinnanzi ai cancelli della Basilica antichissima.

Un nuvolo di ragazzi e di donne ci si strinse intorno, in una curiosità piena di esclamazioni ammirative e di sonanti insolenze.

– È tutto qui? – chiese Arlecchina guardando l'aspetto esteriore della Basilica.

– Vieni… vieni!.. – le rispose Giacometta e, presala per mano, la trascinò, quasi correndo, nel tempio.

Avvolte ancora nei loro lunghi veli dei quali si erano servite per difendersi dalla polvere della strada, scomparvero nell'ombra di uno fra i più famosi tempî della cristianità.

Le seguii da presso.

Nell'interno non vedemmo se non una vecchia inglese mal vestita, che ascoltava come in una beata assenza, le peregrine meraviglie che le veniva decantando una guida patentata.

La luce era blanda. Un umidore perenne faceva l'aria più fredda.

Nè Giacometta nè Arlecchina dissero parola.

Si fermarono a guardare, intorno, la circolare maestà del gineceo; la fuga dei piccoli archi e dei capitelli a cesto; la gloria della cupola.

– E la chiesa sprofonda come tutti i vecchi monumenti di Ravenna. Vuoi vedere?.. – disse Giacometta alla compagna.

Si allontanarono verso una colonna, alla base della quale è praticato un piccolo pozzo che discende fino al primitivo pavimento.

Giacometta aprì la botola che ne serrava la bocca e si sporse a guardare.

– Peccato! Non si vede niente. È pieno d'acqua.

Arlecchina volle guardare a sua volta; si diressero poi alla navata dei mosaici; a quella che splende ancora del cuore del tempo che la consacrò a Dio.

Qui nel colore, nella forma schematica che si ripete sempre identica come un rito liturgico, nella raffigurazione dei simboli e dei miti, l'anima bizantina risplende nella sua fastosità e nel terrore di Dio.

Giacometta ed Arlecchina non dissero parola. Nel Tempio eravamo soli. Ogni rumore era spento. Dall'esterno non giunse che un remoto tocco di campana, subito disciolto nel basso silenzio. La luce che scendeva dai vetri opachi, simili a sottili lastre di alabastro, recava intorno un pallido oro di cui si vestivan tutte le cose. Fuori c'era il sole, la primavera; ma nell'ambito della severa basilica, pareva trascorresse un'ora eternamente uguale nei millennii; e fosse, fra quelle mura, la immutata pace di un luogo ultraterreno. Quale fiumana di anni, di aspetti; quale parola divina turbava l'anima delle due giovanette? Si sentivano esse annegare sulla via dell'inconcepibile? naufragavano in Dio?.. Era la pace dell'infinita immensità raccolta nella suprema speranza, o il terrore dell'annientamento nello spazio senza limiti dell'eterno, che le teneva così, un poco pallide e estatiche, smarritamente mute?.. La loro giovinezza, il cuor loro di allodole solari, l'essere e tutto il mondo dell'essere loro, ecco che non eran più niente; non più di un povero fiore sugli oceani, di una favilla nei turbini. Esse sentivano questo, all'improvviso, tramutate.

Dove troverete l'Ospite vostro, lievi anime del piacere? Se il mondo vi apparisse squallido, talvolta, dove potrete trovare l'Ospite vostro?

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
05 temmuz 2017
Hacim:
220 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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