Sadece LitRes`te okuyun

Kitap dosya olarak indirilemez ancak uygulamamız üzerinden veya online olarak web sitemizden okunabilir.

Kitabı oku: «Ahi, Giacometta, la tua ghirlandella!», sayfa 7

Yazı tipi:

Quello che era già nel bianco paradiso dei semplici, in quale luogo oggi, in quale idea può riposare, nell'amorfa tenebra senza tempo?

E stavano strette a braccio a braccio, unite come due passeri sopra un nudo ramo nel cuor dell'inverno; si rifugiavano nell'ultimo tepore di non sentirsi sole, nella gran legge che associa le forze per creare dall'infinito il finito. E in questo loro istinto di sentirsi unite non era già la presenza di Dio? L'avvertivano esse? Forse non eran più del tremito e del colore della foglia del salice, la quale avverte ogni impercettibile moto dell'aria e a questo si abbandona, inerte. E il loro pensiero era l'attesa che trepida; la loro volontà era la volontà che non ha nome nè volto e chiude d'un tratto la vita nell'enigma.

Esse l'avvertivano, spaurite, nell'immenso impero di quel silenzio improvviso; nel fascino della antichissima finzione dell'arte bizantina. Prima a riscuotersi dal giogo angoscioso, fu Arlecchina. Disse, sottraendosi di scatto a quella che diventava un'ossessione per l'anima sua insofferente:

– Franzi, è davvero il ritratto di Teodora quello?

La Basilissa si levava dal cupo fondo del mosaico, di fra le cameriste, pallida e altera; i grandi occhi neri, nel piccolo volto ovale, vivi di quella cruda volontà, di quel violento fascino che sempre l'avevan fatta padrona, sì nell'abbominio, come nel palazzo imperiale. Ella appariva ancora come la figlia più schietta del voluttuoso e mistico Oriente.

Le nostre voci, per quanto sommesse, riempirono il tempio di un sonoro brusìo. L'incantesimo svanì. Giustiniano non si guadagnò uguale attenzione da parte di Giacometta e di Arlecchina le quali, ormai, non sentivano che la necessità di uscire, di respirare l'aria libera.

Nè Galla Placidia, dal suo mausoleo che chiude tanta tragedia col cuore del morto Impero di Roma, le attrasse maggiormente. Ormai volevan vivere, lanciarsi al vento dell'aprile, cantare con la gola delle usignole che tessono il nido fra le macchie dei lillà in fiore.

E Sant'Apollinare, San Giovanni, il Battistero non ebbero più di una rapida occhiata distratta. Solo acconsentirono di visitare Classe fuori, perchè c'era da compiere un'altra corsa in automobile e potevano veder la Pineta, da lontano.

Saettammo fra gli argini e le lunghe teorie delle betulle, per la squallida campagna che muore nella Valle del Dismano; e la solitaria Classe, con la sua torre farea, una fra le chiese più antiche e più sole nella solitudine, ci apparve sull'acceso cielo che già presentiva il maggio. S'incupiva, non molto lontana, la folta massa della Pineta che discendeva al mare.

Nè la chiesa di Classe seppe riconquistare l'anima ormai perduta delle due pellegrine. Esse erano assetate di luce, di aria, di vertigine. Guardarono con occhio distratto le oscure navate e vollero uscir subito.

Riscontrammo che tutti tre eravamo presi da un formidabile appetito.

– Dove andremo? – chiese Giacometta.

– Al Byron – risposi.

E all'albergo Byron discendemmo, animati dalla stessa allegria, facendo stupire un poco il placido albergo dei più placidi ospiti che discendono alla Città degli Esarchi per ragioni di studio, o per posata curiosità, o per malinconia.

Nell'ampia sala da pranzo si occupò un tavolo dal quale poteva vedersi il bel cortile fiancheggiato da un portico e, oltre un muricciuolo, gli alberi della Piazza di San Francesco.

Tutto era calmo, sereno, disteso in una conventuale letizia senza mutamento. Le case si guardavano fra loro dalle piccole finestre aperte; la gente non aveva fretta di compiere gli affari suoi, se ne aveva; tutto pareva sistemato in una placidità senza scosse per vivere beatamente, per digerire fortissimamente. Una minima stupida cosa bastava al discorso di un'ora; pur di fermarsi al sole di primavera e sentirne il tepore sulla persona. Innanzi a un piccolo caffè che aveva disteso all'aperto una fila di tavoli sbilenchi e di seggiole spagliate, qualcuno leggeva tutto quanto un giornale con religiosa attenzione. Come si prendono sul serio le chiacchiere stampate, nelle piccole città di provincia! E i cani davano spettacolo dei loro costumi; e i monelli berciavano correndo.

Dove sei, mia favolosa provincia così annoiante e cara?

Tutte le case, nella parte inferiore dei loro muri, erano specchi di cultura. Ivi culminavano le parole fondamentali del sesso precedute ordinariamente da un lieto Evviva! e frammischiate alla apoteosi della repubblica, del socialismo, della anarchia e dei loro rappresentanti. Tanto il popolo non fa distinzioni sottili e pone sullo stesso piano le cose che predilige. Ivi, rozzi disegnatori, si esercitavano a rappresentare al pubblico disattento, quelle parti del corpo umano che una persona distinta non potrà mostrare se non privatamente e in certe occasioni. Ivi, infine, il popolo urlava le sole parole oscene e minacciose in faccia a chi voleva sentire. Ma non sentiva nessuno e nessuno vedeva, neppure le candidissime giovinette che passavano a fianco alla mamma loro, modestamente vestite come pappagalli e non sapevano niente di niente; proprio niente al mondo, all'infuori del loro conchiuso pudore.

Oh, mie città di provincia! oh, Passionario delle Maddalene!..

E di questo si parlava, raccolti intorno al piccolo tavolo che ci faceva tutti quanti vicini. Ma ci si stava tanto bene!

Giacometta? Arlecchina?.. la ricordate quella nostra ora di piena letizia, nel cuore della morta Ravenna, fra le ossa di Dante Alighieri e le mura del palagio dei Polentani?.. La ricordate? Dove siete voi ora, Giacometta ed Arlecchina, rosse ed asprigne ciliege del mio maggio fanciullo?..

Ci sarà sempre l'albergo Byron, con la sua grande sala da pranzo che si apriva sopra un bel cortile fiancheggiato da un portico? Ci sarà sempre a ricordare gli amori di un nomade poeta per una bella ravennate infedele?..

Giacometta, Arlecchina quant'anima era in quel giorno nostro!.. Lo ricordate?.. E gli scarsi ospiti, nella grande sala da pranzo, si rivolgevano a guardarci perchè eravamo noi solamente vivi, veramente vivi là dentro, in quel meriggio della fine di aprile. Poi la nostra gaiezza prese la scarna brigata.

Poi suonarono tutte le campane della bassa città delle Valli, io non ricordo perchè, suonarono dalle vecchissime torri e dai campanili, a distesa, come a festeggiare il dolce aprile.

Tu ridesti Arlecchina (già lo champagne aveva accelerato il ritmo delle nostre vene!) ridesti per quella festa di suoni nell'aria accesa, nel fondo colore del cielo. Ma perchè?.. Così, perchè la tua piena vita doveva erompere; perchè il tuo sangue era rosso come le rosse ciliege.

Peccare, peccare!.. Tutta la tua faccia, tutta la tua persona erano lo specchio del giusto peccato, quel giorno! Lo dicevano i tuoi occhi accesi; le tue lunghe mani sottili quasi esangui; la tua bocca un po' larga e troppo rossa; i tuoi atteggiamenti improvvisi di abbandono. Ed io ti guardavo appena. Ma chi ti avesse presa, allora, bella dagli occhi obliqui! Chi ti avesse avvinghiata per farti soffrire come volevi!

E tutto ti era argomento di riso, mentre Giacometta ti guardava, assorta in chissà quali improvvise lontananze.

Tu sola parlavi. Giacometta si era allontanata col rombo delle campane celesti. Era restata, sul volto di lei, l'ombra di un riso, ma ella non era più con noi. Era lontana, attraverso il regno delle sue pause.

Tu, Arlecchina, mi facesti cenno di non occuparmene, la conoscevi meglio di me la nipote di quella tartara che aveva fatto già, della vita del povero Felice, un tappeto per le sue danze.

E quella volta seguii il tuo consiglio e me ne trovai bene perchè Giacometta, vistasi sola, e accortasi che non avrebbe avuto, sulle sue orme, l'amore di un disperato giovane da tormentare, se ne ritornò fra noi non senza però serbare un'ombra nella schietta fronte serena.

E ci levammo. Quante cose c'erano ancora da vedere fra il Candiano e i Fiumi uniti? Il pomeriggio volò via. Da un vecchio giardino prendemmo tante rose da empirne l'automobile; dalla tomba di Teodorico un grande tralcio di glicinie.

– Ma in questo paese non ci sono che tombe? Venivano tutti qua a morire i re e gli imperatori?

Questo chiedesti tu, Arlecchina, e Giacometta con te decise di non voler vedere più niente.

– Lasciamo stare i monumenti – disse Arlecchina. – Che cos'è il Candiano?

– È il canale degli Esarchi. Congiunge Ravenna al mare.

– Andiamo a vederlo. La storia non m'interessa più. M'interessa la vita.

Arrivammo al mare. Venne la sera.

– Bisogna ritornare.

– A Bologna?

– E dove dunque?

– È troppo lontana.

– Ma io non ho avvisato a casa.

– Telegraferemo da Ravenna. Un guasto alla macchina…

– Be', andiamo.

Erano già accese le fiammelle dei rari fanali quando rientrammo.

Si decise di pernottare a Ravenna. In quel punto Giacometta non era più allegra ed Arlecchina lo era troppo.

XXI

Oh! se voi troverete talvolta, la settima rosa.. in fondo al giardino!..


Le due belle stanze ampie, solenni come una veste nuziale del 1850!.. Il compìto signore che ci accompagnava (discendeva egli forse dalla stessa famiglia dei Rasponi a cui era appartenuto il palazzo adibito poi ad albergo?) ci annunziò con riverente austerità:

– Qui ha alloggiato Gabriele d'Annunzio! E qui dormì una notte Eleonora Duse!..

Ci guardammo negli occhi; ma Arlecchina non dimostrava affatto di esser compresa dal fato che ci destinava gli stessi giacigli nei quali avevano cercato il sonno i grandi del secolo.

– E nella stanza prossima – soggiunse il compìto signore – ha abitato Sem Benelli quando era a Ravenna per certe sue ricerche intorno a Rosmunda.

Allora Arlecchina non si tenne dal domandare:

– Perdoni… e la stanza di Dante Alighieri dov'è?..

Il nostro bel signore sorrise e si inchinò compitamente.

– Quella, cara signorina, è qui vicino – rispose. – Ma non è una stanza… è un sepolcro!..

– Comunque sia – ribattè Arlecchina – siamo destinati al nido delle celebrità!

– Se così le piace! – rispose il compìto signore. Poi, disegnato l'ultimo inchino e l'ultimo sorriso, ci lasciò soli coi nostri nomi senza diadema; nell'oscurità del tempo e dei tempi.

– Dunque dormiremo nella stanza della divina Eleonora… – gridò Arlecchina non appena la porta fu chiusa e il compìto signore, lontano. – E voi, Franzi… voi riposerete la vostra testa, senza alloro, sullo stesso guanciale che seppe Alcione e Francesca da Rimini. Ma ormai è tardi e dobbiamo andare a pranzo. Che ore sono, Franzi?

– Le sette.

– Arlecchina?.. – chiamò Giacometta dalla prossima stanza. – Vieni… vieni a vedere!..

– Che c'è?.. – domandò Arlecchina fuggendo.

Poco dopo le udii ridere; e mi chiamavano:

– Franzi?.. Franzi?..

Le raggiunsi. Mi fecero leggere sulla spalliera di un enorme letto nuziale a baldacchino (antico e solenne come una veste di parata del 1850), una breve iscrizione tracciata a lapis copiativo e in inglese. Diceva:

«Io, Joe Greeniwood, americano dell'Arizona, ho riposato in questo letto in una calda notte d'estate, pensando ai miei quattro miliardi!»

– Bel tipo questo signor Joe! – disse Giacometta.

– Non voleva esser da meno degli altri – soggiunse Arlecchina. – La sua opera era il suo denaro e può dirsi ne avesse una intiera biblioteca!

– Segno dei tempi!

Ma il signor Joe fu presto dimenticato.

– Con che cosa faremo toilette per scendere a pranzo – domandò Giacometta – se non abbiamo neppure un pettine, nè una spazzola nè un poco di sapone?

– A questo si rimedia presto – rispose Arlecchina. – Voi, signor Franzi, siete pregato di lasciarci sole!

– Vi aspetterò nella mia stanza.

– Sta bene! Ma non commettete imprudenze, perchè, come ho potuto osservare, la porta di comunicazione fra le nostre stanze non è munita di chiave!

Ci separammo.

Vi udii ridere ancora, verlette della mia dolce giornata; poi mi chiamaste dal buco della chiave (foste voi, Arlecchina):

– Franzi?

– Eh?

– Siete pronto?

– Ai suoi ordini.

– Allora potete passare.

Dove avevate tolta la nuova veste che indossavate: Giacometta ed Arlecchina?

Suonava la campana del pranzo; meglio di una campana era il suono lugubre di un gong che faceva venir in mente una qualche pagoda sulla vetta di una stilizzata collina.

Ancora debbo dirvi una parola d'amore, compagne della mia dolce giornata; per quanto eravate belle quella sera, nell'albergo che porta il nome di un nomade poeta, in fondo a una città di provincia. Ma tu, Giacometta, non eri più la stessa; la tua cruda compagna pareva ti tarpasse un poco le ali, con la sua esuberanza, col suo prepotere di bella pantera che si sente agile e pronta e non teme rivali. Tu parlavi molto meno; ridevi, sì, ma il tuo cuore non era con noi. Nella sala bene illuminata trovammo molta più gente che non la mattina; ma erano comitive del luogo; erano i rumorosi nativi che si compiacevano di cenare al Byron per imparentarsi con quel po' di mondanità che poteva offrire Ravenna.

Il cameriere ci aveva serbato lo stesso posto del mattino.

Il tavolo era coperto di rose (delicata attenzione che commosse Giacometta); e ci aspettavano due bottiglie di champagne in ghiaccio.

Il desinare fu buono. Voi, Arlecchina, vi compiacevate della gioia della mensa ed era, in voi, come una raffinata lussuria. La giornata vissuta fra sole e vento vi era valsa da formidabile aperitivo ed ora dovevate pensare a ben compensarvi delle forze spese.

Ma tu, Giacometta, dove eri tu coi tuoi grandi occhi color seta celeste? Ritornavi nelle steppe di nonna Tatiana ad ascoltare il lamento di una balalaika? O era la nostra ghirlandella sospesa sul ramo più in cima della enorme betulla, che ti faceva pensosa? Perchè ridevi, ma non eri con noi, non con la nostra allegria, non con l'anima nostra tutta presente. Certo ti esiliavi per sentirti più tua; o ti assaliva una fra quelle tue improvvise stanchezze per cui tutta la vita ti era a tedio e avresti voluto chiudere gli occhi per sempre e affondare in una immensa eterna pace coi tuoi diciassette anni!

Perchè il tuo viso si faceva più immobile; perchè la tua freschezza si adombrava e le tue parole cadevano a stento: fredde ed estranee.

E se anche Arlecchina empiva il tuo posto, fingendo di non accorgersi di ciò che in te tramontava, non lo vedevo io che ero sui tuoi passi come l'ombra, innamorato di te, qualunque tu fossi e certo sempre a me più cara.

Poi accostasti la coppa dello champagne alle labbra e volesti berne ancora e ancora. Io ti seguivo con gli occhi; senza dir niente. Volesti annegare l'anima tua, nella spuma del vino che reca la leggera ebbrezza e ritornare tra noi col tuo più rosso cuore.

Ma non eri la stessa! Ora ch'io non so in fondo a quale strada di stelle tu sia e non ho più speranza di rivederti, ora posso ben dirti che la tua sùbita folle allegria mi fece pena, perchè ti vestivi di panni che non erano tuoi e ti falsavi e mi parevi una bella e triste sorella della Compagnia del Povero Carnevale.

Allora veramente mi sembrasti bambina e solo allora provai per te una grande pena.

Capii la tua precedente tristezza; capii che per un attimo avevi veduto fino in fondo alla tua povera vita.

Perchè (e non fu che un rapidissimo baleno) poi che il chiaro vino di Francia ebbe disciolta la prima asperità del tuo carattere e vinto l'orgoglio e lo sdegno che ti facevano quasi sempre sola; poi che tutto l'artificio in cui nascondevi, falsandola tante volte, la tua timida solitudine di adolescente fu debellata, io vidi, ne' tuoi occhi d'improvviso più fondi e sinceri, una grande triste preghiera; io vidi una malinconia di pianto apparire nella luce degli occhi tuoi che mi cercarono come se in me solo potesse trovare riposo il tuo sconsolato cuore. Allora ritornavi bambina col tuo piccolo novero di anni; ritornavi sincera e ti sentivi, fuor d'ogni finzione, disperatamente sola.

Non ti vergognare, anche se puoi ascoltarmi, non ti vergognare ora di quella tua debolezza improvvisa che ti dette un così caro volto, che ti fece così umana, così vicina al cuore di tutti, di tutti quanti siamo su questa povera stella che ci porta nel mistero degli spazi, con lo stesso destino.

Però non fu che un rapidissimo baleno; tu volevi essere più forte del cuor tuo di bambina; volevi essere solamente quella Giacometta della quale ho parlato fino a questo punto, edificando me stesso nel ricordo.

A pranzo ultimato eravamo tutti tre nella stessa sfera; ci potevamo prendere per mano per la stessa danza.

I vostri pensieri, Arlecchina, erano quelli di Giacometta ed i miei.

Questo càpita ben di rado, ch'io mi sappia. Avremmo riso sulla faccia a qualsiasi autorità: perchè lo champagne (e domandiamone perdono, ora, al sindaco di Ravenna) ci aveva fatto irriverenti.

Arlecchina avrebbe voluto compiere cose pazze; ci propose le imprese più inverosimili; ma la sua follia provocò la saggezza nostra.

Finimmo per risalire alle nostre stanze, fra la rumorosa attenzione dei nativi i quali, presi ad uno ad uno, si ritenevano, tutti quanti, uomini da grande conquista.

Il più bello, fra i molti, un giovanottone scialacquato, dagli occhietti adiposi, non si tenne dal farsi sentire quando gettò alla comitiva dei nobili marcantonii questa popolaresca uscita da raffinato porcaro:

– Io ci spenderei anche mille lire!

La qual cosa piacque ai messeri della bella raccolta, i quali risero sganasciando, per quella natural compitezza che li faceva signori.

Ora le porte erano chiuse; tutte le lampade accese; le stanze bene illuminate.

– Che faremo? – domandò Arlecchina. – Io non ho sonno e tu, Giacometta?

– Io?.. Posso vegliare fino a domani!

– E voi, Franzi?

– Capirete che io ho meno sonno di tutti!

– Be' – soggiunse Arlecchina. – Se siete tanto desto, signor Franzi, suggeriteci qualcosa. Vogliamo far qualcosa di molto diverso.

– Guardiamo alle stelle – risposi. – Le finestre sono aperte e tutte le stelle sono nel cielo in questa notte serena.

– Caro signore – disse Arlecchina – quelle luci da telescopio entrano, sì, nella nostra serata, ma solo come decorazione. Se credete che si possa star ferme a contemplare le stelle, povero Franzi, si vede che siete al solo frontispizio della donna!

– Sentite – disse Giacometta. – Ho un'idea!..

– Quale?

– Andiamo in Pineta!

– A quest'ora?

– E perchè no?

– E dove trovi il meccanico? Poi non mi garba. Io sono molto pigra, dopo cena – disse Arlecchina. – Piuttosto voi, Franzi, non sapete fare di meglio che guardare le stelle? Venite qui… mostratemi la mano… No, quella… l'altra, la sinistra.

Si era lasciata cadere in una poltrona. Giacometta corse a lei e le sedette accanto, sul bracciuolo.

– Ti intendi di chiromanzia?

– Un poco…

– Allora leggi anche la mia sorte…

Arlecchina, com'era del carattere suo che non concedeva alla serietà il solo spazio di un minuto, incominciò a raccontare le più matte cose, tantochè tutto si conchiuse in una risata; poi si levò di scatto e disse:

– Balliamo!

– Sì! sì! – approvò Giacometta battendo le mani.

– Sapete ballare, Franzi?

– Perfettamente.

– Venite, allora!

– Ma la musica?..

– Un'altra idea!.. Aspettate!.. Ho veduto, salendo, una chitarra. Deve essere dell'albergo. Ora vado a prenderla.

E, senza aspettar altro, uscì dalla stanza correndo.

Rimasti soli, Giacometta mi chiamò a sè con un cenno della mano.

Mi accostai. Le sedetti accanto. Ella allora mi abbracciò abbandonandosi a me come se una grande grande stanchezza la stroncasse.

– Ho tanto freddo, questa sera, Franzi!

– Che cos'hai, piccola cara?

– Non so… vorrei piangere!.. Così… con te solo!..

E nascose la faccia contro il mio petto.

– Oh, poter piangere!.. poter piangere!..

Le accarezzai i capelli, il piccolo volto contratto.

– Sai che vorrei andarmene?.. che non vorrei essere più niente?.. Sarebbe molto meglio anche per te.

– Perchè dici questo? Se la mia vita rimanesse vuota…

Senza alzare la faccia ella levò una mano e la pose contro la mia bocca.

– Non parlare!.. Non dire ciò che non sai, povero Franzi!

E si rifugiò nel silenzio, sempre più stretta a me, come se avesse paura di essere travolta dalla tristezza che le proveniva dal mondo che non si avverte e che è intorno a noi ad ogni nostro battito di cuore.

Tu scioglievi l'anima tua come un pianto sulla tua povera nudità di creatura.

Ah! che non c'era più, cara piccina, la tua fantasia regale e il turbine del tuo senso a condurti e trascinarti per le complicate strade dei goditori; non c'era più l'irrefrenato desiderio a chiuderti nella rossa ombra del piacere, a farti perdere ogni riferimento coi giorni tuoi vissuti e da vivere; a trasportarti verso i fiumi regali ai quali accorrono le adolescenti che hanno sete di ogni vita, di ogni prova, di tutto il godimento; non c'era più niente per te…

Ma solo la povera anima tua come un pianto sulla tua nudità di creatura.

Nè ti vergognavi di mostrarti così, agli occhi miei di innamorato, perchè sapevi di trovare non già indulgenza, ma doppio amore, essendomi tu più vicina, e più semplice: superato ogni artifizio tuo, consapevole o no.

E allora mi dicesti:

– Voglimi bene, Franzi, anche quando non meriterò più di essere amata. Perchè io sento che non potrò mai essere di nessuno veramente. Ma per te ho avuto una gran tenerezza. Se ti farò soffrire è perchè soffro. Il mio desiderio e il mio cuore sono sempre al di là dell'Oceano, povero Franzi!.. E se io debbo alzarmi e camminare, mentre vorrei tanto essere morta, è per il mio destino!!.. Voglimi bene, Franzi… Forse non parlerò mai più a nessuno come parlo a te…

In quell'istante, tanto era bella e umana che non mi tenni dal stringerla a me tanto forte che certo le feci male; ma il mio amore ruppe il nodo che la legava alla pena ed ella potè piangere tutte le sue lacrime come una bambina: senza più vergogna, senza più infingimento.

E così, povero amore, l'anima tua era sulla tua schietta nudità di creatura.

La voce di Arlecchina, che si avvicinava cantarellando, la fece balzare in piedi. Si coprì la faccia con le mani e disse:

– Non parlare… non parlare…

Poi corse in camera sua e si serrò dentro.

Arlecchina entrò pizzicando una vecchia chitarra e accennando il motivo di una canzone spagnuola.

Non appena ebbe serrata la porta, si guardò intorno e domandò:

– Dov'è Giacometta?..

Poi, fissandomi riprese:

– Che cosa avete fatto?.. Vi siete bisticciati?..

Non attese risposta, ma, posata la chitarra sulla poltrona, si diresse all'uscio di comunicazione fra le due stanze e pose una mano sulla maniglia dell'uscio.

– Giacometta, aprimi!

L'altra non rispose:

– Aprimi! Ho qualcosa di molto urgente da dirti!

Allora la chiave girò nella toppa ed Arlecchina entrò.

Rimasero forse una mezz'ora sole, senza ch'io pure le udissi mormorare; poi una voce mi chiamò sommessamente:

– Franzi?..

E la porta girò sui cardini senza ch'io vedessi chi la muoveva; come un soffio inavvertibile la sospingesse così.

Mi affacciai sulla soglia.

La stanza era immersa in una penombra color di rosa. Non vidi nessuno. Che stava accadendo?

La stessa voce falsata mi disse:

– Prendi la chitarra…

Ubbidii.

– Canta… ma piano… la canzone che dice: Se tu vorrai la piccola rosa

Sorrisi. Perchè proprio quella?.. Quella che diceva:

 
Se tu vorrai la piccola rosa,
la piccola rosa che non si vede…
 

Era una dolce canzone per gli innamorati. Diceva molte cose e ne lasciava sottintendere moltissime altre. Ma era garbata.

Accordai la chitarra, appena appena; e incominciai con tutta la mia passione:

 
Se tu vorrai la piccola rosa,
la piccola rosa che non si vede…
 

Allora, da dietro il baldacchino del letto, uscirono l'una dopo l'altra, Arlecchina e Giacometta.

Lasciai a mezzo il canto incominciato.

Esse aveano i capelli disciolti e tenevano in mano sei rose… sei rose rosse per ciascuna. E il resto dell'abbigliamento era fatto per togliere il respiro anche a un giovane contegnoso, assennato e lagrimevole quale ero io in quel tempo.

Non indossavano esse che la loro compitissima camicia di tela battista, ultra-leggera; e tale industre cosa, intessuta per amoroso tormento, era stretta alla cintola da un nastro celeste così che veniva ad essere come la fugacissima veste di un respiro su tali meravigliose rivelazioni che i miei larghi occhi si allargarono ancor più, per tutto accogliere, essi almeno, che non davan sospetto.

Arlecchina mi annunziò che quella che stava per cominciare era la Danza delle sette rose. E non avevan, per ciascuna, se non sei rose. Ebbene… dov'era la settima?.. Che significava il numero cabalistico?..

Ma andavo cercando la cabala là dove non era che un delicato simbolo… perchè appunto la settima rosa era quella più in fondo al giardino, la più timida fra le foglie; e appena in boccio…

La settima rosa che i saggi non seppero noverare fra le meraviglie del mondo; ma che fu santificata dai sacerdoti degli Incas, i quali la posero a capo della loro Bibbia come il Verbo; la prima parola sulla tenebra della terra.

Così la Danza delle sette rose doveva significare appunto il mistero della settima sorella, dietro il cancello serrato; del piccolo fiore del mondo per il quale cantano, combattono e muoiono le turbe affaticate, dal principio alla fine dei secoli…

Dietro l'invito delle danzatrici ricominciai, pianissimamente, la canzone interrotta.

Sui sepolcri delle imperatrici e dei re; sulle tombe dei poeti lucevan le stelle d'aprile, nella gran notte di primavera…

Le finestre erano aperte…

L'alito odoroso dei giardini passava col lume degli astri, nell'ombra di Ravenna, a chiamar, per amore, le sue belle figliuole dai letti senza sonno…

Era il tempo dei lillà, della madreselva, dei gelsomini… e, nelle notti più brevi, si ridestavano le rose…

Anche una musica era per l'aria, una musica da core, sul vento dell'Adriatico…

O innamorate!..

Cantare ed aver la gola riarsa, questa è una pena nel mondo!

Esse avevano i piccoli piedi nudi…

Si allacciavano, si discioglievano, levavano le braccia, le mani scuotendo le rosse rose… Seguivano gli armonici sentieri della grazia…

E il lieve velame, nell'arte dell'atteggiamento, si dissipava…

Noi eravamo tre; ma io solo avevo il mio cuore di giovine che danzava da solo…

Tutto solo danzava, il mio cuore, la danza della settima rosa!

Udisti tu la mia voce, Galla Placidia, dal tuo mausoleo tutto a stelle?..

Perchè c'era, quella notte, nell'albergo sacro a un nomade poeta, c'era il mio delirio…

E l'ombra di due giovanette in fiore…

Prendetemi, cacciatemi pel mondo, fate di me l'ultima strada calpesta, condannate me solo a tutto il vituperio: ma ch'io mi abbia, al mio tempo, la giusta grazia e il cuore della settima rosa…

Questo, a suo tempo, chè poi non sia troppo tardi!..

O Ravenna Ravenna, quanta pena m'imponesti in quel tuo aprile; mentre i poeti e le imperatrici dormivano nella fonda notte…

e ne' tuoi giardini era tornato il rosignolo a cantare…

perchè i bianchi letti delle vergini non fossero più soli soli per le squallide stanze…

e la morale condiscendesse alla danza inevitabile…

… Per una piccola rosa, nel giardino delle vergini, dietro il cancello serrato…

… e sul sentiero delle fanciulle in fiore!..

E furono stanche.

Dopo aver volteggiato ed aver teso il giovine corpo nell'arco soave che si parte dal pollice del piede per compirsi nella fronte riversa (e i capelli disciolti pareva traessero il capo col loro peso); dopo aver messo in lume, a parte a parte, la gioia del loro corpo perfetto, «la forma che ride» e, travolte nella follia dell'eccitazione, aver accresciuto il ritmo della loro danza, affrettata la misura in una frenesia primaverile d'incontenuto spasimo; stanche alfine, ansimanti come rondini sbattute dalla raffica, vennero a cadere ai miei piedi, ridendo ancora, a scatti, per l'affanno che non le abbandonava.

– Franzi… – disse Giacometta. – Cantaci qualcosa che ci riposi un poco… una canzone vecchia!.. Una di quelle di Principina…

– Quale, ad esempio?

– Oh, tu le conosci bene le canzoni di Principina!

– Io?.. E perchè?..

– Via, Franzi! È inutile tu finga!

– Scusa, Giacometta… ma perchè dovrei fingere?

– Vuoi non lo si sappia!

– Ma che cosa?

– Ti faccio i miei complimenti perchè sai portare bene la tua parte. Però non vorrai negarmi che, se io mi sono accorta di te è stato per Principina…

Incominciai a cantare la vecchia dolcissima canzone che dice:

 
« – Dove sei stata questa mattinella?
Bondì Mariù!
« – Son stata a coglier l'insalatinella,
Mio bel marì!
 

E tutto riposò nel riposato ritmo sorto da un tempo tranquillo e ormai troppo lontano.

Poi vollero dormire (o finsero!) e chiusero la porta.

Chiusero la porta come s'io fossi stato una trascurabile cosa che si lascia in fondo alle scale, rientrando.

Ma non ero ancora fra le coltri quando sentii un sussurro all'uscio del corridoio. Corsi ad aprire.

Eri tu, Arlecchina, tu che cercavi una cosa dimenticata… che so?.. un pettine.. un nastro… una giarrettiera…

E un poco ti tremava la voce… e facevi piano piano perchè non si destasse l'altra che dormiva.

E la cosa dimenticata la ritrovammo assieme quella notte…

La ritrovammo insieme, dolcissimamente, brillando tutte le stelle dell'aprile sui sentieri delle fanciulle in fiore.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
05 temmuz 2017
Hacim:
220 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre