Kitabı oku: «Ahi, Giacometta, la tua ghirlandella!», sayfa 9
XXIV
Ebbene, diremo al tempo di volerci dimenticare per un piccolo secolo almeno…
I medici, molte volte, non sanno quello che si fanno.
Prendono un innamorato e lo chiudono al buio.
Lo chiudono al buio e lo fasciano come il povero Lazzaro prima che uscisse dal suo sepolcro.
I medici scrissero un decalogo, per me:
Non parlare.
Non mangiare.
Non muoversi.
Non deglutire la saliva.
Non domandare la luce.
Non cercare Giacometta.
Non desiderare Arlecchina.
Non pensare.
Non bere.
Non inquietarsi mai.
Poi scrissero duemila ricette; mi impiastricciarono tutto il corpo con certi loro infernali unguenti che putivano; mi raddrizzarono le costole e mi fasciarono tutto come la mummia di un qualsiasi Sesostri; mi cucirono mi suturarono; mi sondarono; mi cauterizzarono; mi disinfettarono; mi anestettizzarono e, non contenti di aver fatto di me il campo sperimentale dei tormenti, mi ficcarono in camera una vecchia suora di carità che tabaccava e starnutiva di minuto in minuto.
Ed io cantavo e sorridevo al mio divino maggio.
Perchè maggio era ritornato.
Me ne accorsi, chè Suor Costanza disse, una volta:
– Siamo entrati nel Mese di Maria e vedrà che la Beata Vergine le farà la grazia di guarir molto presto!
Oh, Suor Costanza che fiutavate tabacco, come mi cantava in cuore il vostro Mese di Maria! Ve ne accorgeste voi, piccola suora rugosa?
Se fiorivan tutte le rose lontane, anche nella mia benedetta stanza fioriva un giardino.
Il mio giardino, Suor Costanza.
Io vi sentivo pregare e mi piaceva pregaste la Vergine di Maggio.
In modo diverso eravamo assorti ambedue nella stessa preghiera.
Io vi sentivo pispigliare, buona donna mia; ma vedevate voi tanto cielo quanto io ne vedevo?
Vi faceva la grazia, la Vergine Beata, di schiudere, alla mente vostra, la divina bellezza dei terrestri paradisi?.. Sognavate voi i giardini dell'alba, i giardini dei crepuscoli, i fiori, i bimbi, le fanciulle, il sole, la gioia?
O tutto questo era peccato grande, per voi, Suor Costanza?..
Era peccato grande?
Ma che cos'è Iddio, Suor Costanza mia, ditemi che cos'è Iddio (a me peccatore cane, ditelo) se non vive in tutti gli imponderabili di cui Primavera si veste?
Può darsi che odii ciò che ha creato, l'Iddio nostro? Suor Costanza che fiutavate tabacco, se questo non era, quale spiritello ghignava allora fra i grani della vostra nera corona?
Il vostro Mese di Maria era adunque la notte polare?
E dalla giovinezza vostra, dall'isola bella del vostro vivere nel mondo, non vi arrivava più nemmeno un ricordo ad avvincervi?
Sì, anch'io lo sapevo il Mese di Maria, il mio mese fanciullo!
E Maria era il mio sogno di bimbo che guardava le nuvole, le rondini, i fiori del maggio.
Lo sapevo con le chiese che si aprivano non appena il sole era dietro le torri; e con i grandi altari nel buio fondo in cui le scalate fiammelle dei ceri disegnavano come un organo ardente.
Anche la luce cantava, Suor Costanza, nel mio maggio fanciullo.
Ed entravamo nelle grandi chiese in un raccoglimento giocondo; portavamo a Iddio ciò che si aveva di migliore, ciò che da Lui ci proveniva: la nostra divina allegrezza!
Oh, Suor Costanza, quelli erano veramente gli anni della pura e profonda religione!
Si entrava a salutare e a ringraziare il Signore perchè non faceva più freddo; perchè erano ritornate le rondini.
Si entrava con una grande semplicità bambina, nella Casa del Signore e gli occhi nostri raggiavano come i ceri dell'altar maggiore, in fondo alla navata centrale.
Il Mese di Maria era quello della nostra più pura festività.
Oh, maggio maggio maggio!..
La mia città di provincia si vestiva del profumo de' suoi giardini…
Suor Costanza, non avete sentito mai il peso della verginità vostra? non vi è mancato mai il vostro tetro coraggio, Suor Costanza, quando nella quietudine insidiosa delle Città dei giardini incominciano a fiorire le rose e il gelsomino?
Quando a passare da una malinconica e deserta strada, in un'ora di crepuscolo, fra le piccole case aperte e come disabitate, vi siete sentita ad un tratto investire, abbracciare, trasportare da una morbida ventata di profumo, da una carezza insidiosa?.. Ed eravate sola, e giovine, e desiderata?..
Suor Costanza, il vostro tetro coraggio è stato sempre più forte, in voi, della vostra pena?
Oh, ch'io vi compiango, sorella mia! Vi compiango perchè Iddio non indulge due volte, nella vita terrena; ed ogni anno serra una tremenda porta che non si riaprirà mai più!
Ora voi ne avete tante e tante di queste porte irremissibilmente serrate, e vi disciogliete in una lenta preghiera che vi dà la calma del sonno.
Ed io vi sento pispigliare nella tenebra della mia stanza che i medici vogliono chiusa; e ascolto il tinnire dei grani del vostro rosario sul quale offrite alla Vergine Maria, nelle preci, il dono della verginità vostra, povera sorella, che è così malinconica e inutile.
Avete giovato a Iddio o a voi stessa riportando a Iddio il magnifico dono di cui vi aveva ornata?..
Oh, ma le vergini della Galilea…
Avete veduto Nazaret, Suor Costanza?
Siete andata mai in dolce pellegrinaggio alle terre del vostro Signore?
Andate andate, sorella mia. Entrate nella soave Nazaret quando incomincia la primavera della Palestina; soffermatevi ai pozzi, verso sera, quando vi si raccolgono le vergini bellissime dalle armille d'argento…
Certo riconoscerete Myriam… Laggiù il miracolo si rinnova di anno in anno…
Andate andate, Suor Costanza, il miracolo si rinnova, nelle terre del vostro Signore, ad ogni innamorato crepuscolo, quando passa la primavera sulla Palestina e una musica indefinita arriva dalle lontananze del Giordano e dai colli di Getsemani…
E l'angelo Gabriele discende per le bianche strade e per le carovaniere; condotto per mano dal giovine amore.
Myriam è sempre viva e vivrà sempre ai pozzi della Palestina, fin che la giovinezza si innamori.
Ma voi non mi udite, Suor Costanza, da dietro le vostre cento porte barricate; e Iddio non vi può ascoltare.
Ah, che è bene un grandissimo peccato, morire senza aver peccato, sorella mia!
Io vi dicevo questo, allora, e adesso è inutile ve lo ripeta perchè sarete morta forse, in fondo a qualche convento nella sconsolata disperazione di non aver vissuto.
Ma se siete viva, Suor Costanza, e possa darsi l'inverosimile caso che queste mie infernali parole vi capitino sotto agli occhi, ricordate ch'io pur sempre vi voglio bene, sorella, e vi imploro almeno la grazia di un divino sogno nel quale possiate addormentarvi serena come dormivate già accanto al mio letto con la corona fra le scarne mani.
E anche per voi, sia fatta nel bene, e solamente nel bene, la volontà di Dio.
Io fantasticavo, io sognavo di giardino in giardino, mentre la buona Suora mi era sempre d'intorno, fiutando tabacco.
Non potevo veder nessuno; non potevo nemmeno parlare.
Mi dissero poi che poco c'era mancato non me ne ritornassi al Creatore.
Fra le altre cose avevo anche la frattura del cranio.
Ma andate a parlare con i diciannove anni!
I medici avevano detto che la cosa sarebbe stata molto lunga; e invece fu brevissima.
Avevano prognosticato almeno due mesi di letto e in quindici o venti giorni il mio macerato corpo si era rifatto.
Io volevo guarire e tale volontà, oltre tutti i dettami della scienza, ebbe certo grande importanza.
Però come furono terribilmente lunghi i giorni trascorsi al buio e in piena solitudine con Suor Costanza!
Siccome stavo per perdere un occhio, i medici mi avevano costretto alla tenebra. Nè potevo chiedere di Giacometta, nè potevo sapere dove mi trovassi e chi fosse il mio ospite.
Mi erano evitate le emozioni. E perchè poi? Solo Suor Costanza si credette di consolarmi un giorno domandandomi se volevo vedere la signora Adalgisa.
Tale prospettata consolazione mi fece salire la febbre a quarantun gradi! E se me la facevano vedere sarei morto.
– No, per carità! Che male ho fatto, io?..
Fu così che incominciai a migliorare.
In capo a sei giorni vidi la luce.
Ricomparve il Verbo al mio spirito in amore.
Ma quale impetuosissima gioia!
Quando si aprirono le finestre, ecco il più bel giardino di alberi in fiore; ecco il più bel cielo di maggio!
Allora la volontà di guarire venne moltiplicandosi di ora in ora.
– Questo ragazzo ha la vitalità di una cavalletta!
In capo a otto giorni, mi fu permessa la più grande emozione:
Io ti rividi, amor mio!
Ora Giacometta procedeva per impulsi e predilezioni imprecise senza badar troppo a quel che faceva.
Così quella volta non pensò nè punto nè poco che una buona e candida Suora di Carità era nella mia stanza; o, se anche vi pensò, non vi fece caso, tanto che di un salto fu al mio letto, mi abbracciò e incominciò a parlare a parlare.
Mi accorgevo che Suor Costanza non fiutava più tabacco e veniva facendosi certi segni di croce che erano sempre più larghi; ma non volevo dire a Giacometta di contenersi.
– Peccheremo, Suor Costanza – dissi fra me – ma è così giusto peccare!..
Giacometta mi parlò di Beppe Mandusio; me ne parlò con entusiasmo. Un bello, un simpatico giovine.
– Tu sapessi le partite a tennis che abbiamo fatte in questi giorni!
Io intanto avevo vissuto fra Suor Costanza e la tenebra.
Poi mi parlò di tutti quanti erano nella grande villa bolognese e, più vagamente, di un giovane maestro di musica, un certo Rorò che era noto, al secolo, col più umano nome di Doro Somigli.
Erano quasi sempre una trentina, vegliavano, la notte, fino ad ora tarda. Spesso spesso dai suoni e dai canti trascorrevano alle danze.
– Vedrai come ti divertirai! Oggi il marchese Alberti vorrebbe conoscerti. Vuoi vederlo?
Il marchese Alberti era l'ospite mio; colui che mi aveva accolto nella famosa notte del mio disastro.
Come non volerlo vedere se gli dovevo tanta riconoscenza? Mi dichiarai disposto ad accoglierlo anche subito. Giacometta mi consigliò di riceverlo nel pomeriggio.
Poi seppi come si erano svolte le cose, la sera della quasi tragedia.
Giacometta ed Arlecchina, visto ch'io ero ormai, e inesplicabilmente, intrattabile; non essendo disposte a combattere con i miei ingiustificati nervi, nè volendo, d'altra parte, immalinconirsi con la mia malinconia, si erano allontanate da me col proposito di farsi raggiungere dall'auto.
Avevano così camminato lungo la strada provinciale per qualche chilometro e si erano fermate ad attenderci alla spalletta di un ponte quando un'altra automobile le aveva raggiunte, quella del marchese Otomaro Alberti.
Com'era naturale e cavalleresco, il marchese Otomaro, che guidava la macchina, frenò di forza e, saputo dell'inconveniente toccato alle giovani leggiadre, le invitò a salire.
Esse, per un poco rifiutarono cortesemente; ma cedettero poi alle insistenze del marchese il quale disse loro, ad un dipresso, le cose che seguono:
– Io vado alla Stellata (era il nome della sua villa). Lasceremo un servo sul cancello perchè, al passaggio della loro automobile, avverta il meccanico ed il loro amico e li faccia entrare.
La soluzione era semplice.
Giacometta ed Arlecchina salirono sulla macchina del nobile Otomaro.
Poi le ore eran passate; era sopraggiunta la notte.
L'apprensione si era convertita in pena; la pena in paura.
Certo che una cosa sinistra doveva avere interrotto il nostro viaggio.
E rieccole in macchina, alla disperata ricerca.
Ci avevano poi trovato in camera di sicurezza e sul punto di esalare lo spirito nostro armonioso.
Anche Arlecchina arrivò a salutarmi, poi che Giacometta fu uscita; mi accarezzò sussurrandomi qualche vaga parola.
Essendosi ella posta sopra una nuova strada, voleva assicurarsi la mia discrezione circa la perduta notte ravennate, quando lo spirito dei poeti e delle imperatrici l'avevano sospinta a varcar la soglia della mia stanza per compire, nel brivido della settima, la danza delle sei rose.
Poi anche Arlecchina mi lasciò e, nel pomeriggio, ecco Otomaro Alberti in persona.
In verità il marchese Otomaro, di giapponese non aveva quasi niente se se ne tolgano i capelli lisci, neri e setolosi. Il resto del viso e del corpo era di perfetto tipo caucasico.
Un servo venne ad annunziarlo ed egli si presentò da quel perfetto gentiluomo che era.
– Ho il piacere di conoscervi finalmente!
A me parve una degna persona.
Alto, elegantissimo, il viso compiutamente rasato, la caramella, modi signorili, un parlare calmo e benigno con qualche punta d'ironia.
I marchesi Alberti appartenevano al più antico e schietto patriziato bolognese. Credo avessero avuto uno o due antenati alle Crociate. Un nonno di Otomaro, già generale di Napoleone, era morto al passaggio della Beresina. Il padre era stato ambasciatore a Tokio dove era venuto al mondo Otomaro.
Famiglia ricchissima, possedeva ville e poderi un po' dappertutto.
La Stellata era però il particolare amore dell'ultimo discendente.
Ivi egli teneva corte bandita dal maggio alla fine di giugno e dall'ottobre a Natale.
La buona società bolognese ricorderà ancora i fasti della Stellata.
Io, povero giovine, mi trovavo assai confuso di fronte a un così nobile signore e mi logoravo nel dubbio di non fare almeno una discreta figura.
Il marchese volle togliermi d'imbarazzo fin dalle prime parole.
– Non vi date pena, caro figliuolo; siete e potete restare mio ospite fin che vi piaccia. Anzi vi avverto che dovrete passare con noi la vostra convalescenza. L'abbiamo deciso, se proprio non avete impegni che vi chiamino altrove. Potrete divertirvi. La Stellata offre qualche divago. Vi si fa della buona musica; vi si amano i bei conversari ed anche vi si balla. Io non sono più giovane, ma amo circondarmi di persone giovani. Adoro la giovinezza che da sola può far scusare la vita. Dunque non vi date pensiero e restate, sicuro di fare a me, e non a me solo, un grande piacere. Giacometta vi deve molta gratitudine. Conosciamo la vostra nobiltà e l'abbiamo apprezzata.
Egli vide certo gli occhi miei luminosi perchè mi strinse forte la mano e se ne andò sorridendomi.
Suor Costanza, che cos'erano i secoli alla mia vita, in quel giorno?
Ricordate con quali parole vi dissi molte cose discrete?
E vi dissi, fra l'altro, levandomi dal letto (Dio, quanto spavento nei vostri poveri occhi come foglie secche!..), vi dissi:
– Sorella, oggi non si muore e neanche domani. Per tutti gli anni del mondo non si può morire! Noi siamo immortali, sorella!..
E voi rispondeste, e vi tremava il mento nella parola:
– Tu sei troppo ragazzo! Lo saprai un giorno come cambiano le cose col tempo!..
– Ebbene, Suor Costanza, e noi diremo al tempo di volerci dimenticare per un piccolo secolo almeno!..
Suor Costanza scosse la testa e fiutò una grande presa di tabacco; dopodichè, ripresa la corona, si affondò nel gorgo della sua eterna preghiera come affonda una rana nell'acqua immota di uno stagno.
XXV
… egli sapeva le musiche stanche che conducono alla velata nostalgia e allo sconsolato desiderio di un lontano amore…
Incominciai ad alzarmi e potei muovermi per la stanza.
Pensai proprio a te, Michelaccio imperatore, quando, appoggiato al braccio di Suor Costanza, mossi i primi passi dal letto alla finestra.
Michelaccio, Imperator delle carra, delle strade e della luna; governatore di ogni campestre o cittadina osteria; Dio dei bianchi boccali e delle panciute ostesse, Michelaccio io non negherò più la tua sovranità e ne pongo a pegno la penna mia.
Io mi fermerò al tuo passaggio; tollererò che tu mi attraversi la strada millanta volte se così a te piaccia; che tu attenti, col tuo carro, alla vita mia perchè questo è il tuo diritto essendo tu Carrettiere e cioè forte del tuo genio e della tua fortuna sul mobile trono delle strade, dal quale imperi, minacci ed eseguisci nel nome dei nuovi principii e della tua recentissima nobiltà e strapotenza.
Michelaccio, io ti riconosco il potere fin da oggi e qui ti consacro mio Re ed Imperatore.
E ciò che tu voglia ordinarmi, io compirò in onor tuo, io, umile scriba e porco vagabondo (tu l'hai detto, Signor mio!..); io che mangio il tuo pane se non bevo il tuo vino perchè non mi piace; io che vivo sulla tua fatica come un pidocchio fra la chioma di Sansone; io che sono l'ultima immondizia di fronte alla tua intatta grandezza suggellata dalle sbornie tue che sono imperiali; perchè tutto è gigantesco in te.
E riconosco che, cessando tu domani dall'opera tua, non solo sulla terra, ma su tutti i pianeti, la vita dovrebbe cessare, perchè tu sei, Michelaccio, la forza madre e il cardine universale del benessere.
E la tua ignoranza ti è a fregio di maggiore potere perchè là dove gli altri pensano (i porci vagabondi!) tu con un solo rutto te la puoi spicciare e dettar legge alle moltitudini.
Questo riconoscendo io, oggi e per sempre, ti incorono Imperatore nel nome dei sacri principii, dei bianchi boccali e delle panciute ostesse.
Ero un poco triste.
Pregai Suor Costanza di portarmi una seggiola presso la finestra. Appoggiato al braccio della mia infermiera arrivai fino ai vetri. Vidi un grande giardino e gli alberi del parco, nel fondo.
Fiori e turchino.
Udii un fresco riso levarsi nell'aria.
E sentivo, a poco a poco, ingrandire in me la mia malinconia.
Mi abbandonai al pianto che non si piange se non nel fondo cuore; nella solitudine del cuore.
Al pianto che non ha ragione palese; che nasce dalla giovinezza come una rugiada.
Tutte le strade della terra hanno le loro incrociate.
Chi si sente smarrire riconosce, in sè, Iddio.
Non altrimenti si può arrivare, ma appena, sulla soglia del gran mistero.
I genuini canti del popolo, i canti del crepuscolo recano, nella loro inconscia tristezza, lo stesso smarrimento.
Vi sono ore che scendono sulla terra da un'infinita malinconia di esilio.
Quelle che precedono la scomparsa del sole.
Io guardavo, dai vetri, allontanarsi nell'ombra della sera un carro, per una piccola strada che serpeggiava fra le siepi; un carro rosso, dipinto a rose, come ne usano i contadini delle nostre terre; e lo seguivo con gli occhi come si seguono le cose che si allontanano sotto la sera.
E un suono mi giunse per l'aria, soave e spento; ma non proveniva dall'aperto anzi pareva ammorzato da un inceppo di mura. La musica doveva arrivare da qualche stanza della vecchia villa che ancora non sapevo.
Ascoltai e gli occhi miei erano aperti sul mondo come se nulla vedessero.
Una voce accompagnava il suono.
Suor Costanza mi domandò:
– Le piace tanto sentir suonare?
– Sì, Suor Costanza. Sa chi fosse che suonava poco fa?
– Deve essere un giovane maestro di musica. Mi pare lo chiamino Rorò.
– Lo conosce?
– L'ho veduto una volta sola. È venuto fin qui quando lei era ancora molto malato. L'accompagnava la signorina Giacometta.
Bastò questo a ridestare in me la fiera gelosia che già incominciava ad assopirsi.
Conobbi il giovine compositore, la prima volta che discesi, accompagnato dal marchese Otomaro, nel grande salone da pranzo al pianterreno, e presi posto a tavola, fra Giacometta e Beppe Mandusio. Ci era seduto di contro ed era il centro dell'amorosa femminile attenzione.
Rorò era un candidato alla fama mondiale. Lo dicevano tutti.
A questo biondo giovine, dall'aspetto femmineo, eran bastate una ventina di romanze a salire in grandissima fama.
Dicevano ch'egli possedesse una personalità di primissimo ordine.
Le signore lo chiamavano il divino fanciullo.
Ma tutto questo pareva accrescesse la sua malinconia perchè era malinconico come una sera di mezz'ottobre.
Rorò non parlava mai delle cose sue; o meglio, diceva e non diceva; lasciava cadere qualche parola vaga nella profondità della disperazione.
Aveva sofferto, aveva lottato, era stato per morire, non era morto!
Tutto ciò apriva una enorme parentesi che la fantasia riempiva.
È difficile che un pover'uomo senza parentesi interessi molto le donne.
L'uomo piatto, l'uomo uguale al due più due fanno quattro; l'uomo che vi dice quello che pensa e che pensa quello che dice; l'uomo che non ha avuto avventure, che non sa colorire la sua vita ma fa consistere tutta la sua virtù nella semplicità: oh, quest'uomo non sposi mai, o, se vuol proprio sposare, scelga una virtuosissima fanciulla senza un filo di immaginazione!
Così forse potrà viver tranquillo; ma non altrimenti.
Rorò aveva capito qual forza rappresenti la donna e il giudizio della donna nell'umana convivenza, e se ne serviva. Era un abile fanciullo, pieno di sagaci previdenze. Ma, d'altra parte, quali armi scegliere che fossero più appuntate?
Poteva egli negarsi all'ammirazione delle belle creature?.. Egli si era valso di codesta ammirazione, così, senza parere… lasciando fare.
Rorò lasciava fare. Era la sua tattica. Nella sua infinita malinconia trovava, in tal modo, centomila consolazioni. Ma anche le consolazioni non accendevano quel suo pallido viso da divino fanciullo. Egli aveva precocemente capito che un uomo tanto più vale, quanto più conosce l'arte di rinnovare il proprio mistero.
Rorò lo rinnovava ogni giorno.
Se si abbandonava ad una innamorata, non le concedeva se non quella parte di sè che poteva bastare a una notte.
Con l'alba nuova, Rorò, questo piccolo semidio, aveva un'anima nuova.
E sapeva coltivarsi, altresì. Era sempre inappuntabile. Vestiva di scuro; ma con rara eleganza. Aveva anche capito che certe tinte davano alla sua pallida faccia e ai suoi capelli biondi una particolare evanescenza che lo rendeva molto più interessante.
Rorò era bello; aveva ingegno e, co' suoi vent'anni, camminava per le ampie strade della fama mondiale.
A differenza de' suoi miseri coetanei, Rorò era già edito dalla Casa Ricordi.
Grande fatto per un giovanissimo compositore!
Rorò guadagnava bene e scriveva un'opera in tre atti: L'alba lontana.
Un titolo che prometteva i più remoti paradisi alle fanciulle e alle donne con qualche anno di più.
Ora aveva ceduto alla insistenza del marchese Otomaro, e si era ritirato alla Stellata per lavorare a L'alba lontana.
Disponeva di tutto un appartamento al primo piano ed ivi si rinchiudeva per la maggior parte del giorno.
A volte le giovinette sostavano nel giardino ad ascoltare la eco di una melodia. Dicevano appena appena:
– Rorò lavora…
Dicevano ancora, ascoltando, con un tremito nella voce:
– Senti… che cosa divina!
E le note cadevan dal cielo in fondo al loro cuore, accasciato d'improvviso sotto il peso di tutto l'amore.
E dell'Alba lontana nessuno sapeva niente. Rorò non si era sbottonato neppure col marchese Otomaro. L'Alba lontana era una cosa remotissima nel vivo mistero che si chiamava Rorò.
Egli veniva componendo contemporaneamente i versi e la musica. Diceva che i grandi poeti dell'antichità avevan trovato, quasi sempre, la nota ai loro poemi. Diceva che musica e poesia sono due cose inseparabili e che un vero poeta, per essere compiuto, dovrebbe anche essere compositore. Citava Pindaro… e il suo mecenate: Jerone, ai tempi belli della divina Siracusa.
Ahi, Rorò! Biondo semidio, quanto mai sonno togliesti alle notti delle vergini bolognesi!
Perchè tu parlavi dell'arte tua con prodigiosa sicurezza e non v'era chi non ti potesse credere.
Con tutte queste cose e queste peculiari doti, Rorò si era creato un piccolo regno in attesa di un più vasto impero.
E passava, fra il mattino e la sera, per gli azzurri giardini delle innamorate, lasciando sulla sua strada l'onda di un canto nostalgico che pareva schiudesse le occulte strade dei sogni. Passava per dileguare, il divino fanciullo, chiuso nel suo silenzio immutabile.
Ora io lo guardavo. Egli sedeva in faccia a me, fra la signorina Bice Alandri e la signora Clara Salvi le quali se lo disputavano.
Il bel fanciullo rispondeva loro senza troppa fretta e senza scomporsi mai.
Piuttosto vedevo gli occhi suoi cercare molto sovente gli occhi di Giacometta e se avveniva che li incontrassero, allora pareva si disciogliesse in una sùbita profonda carezza.
Ma Giacometta non vi faceva caso e bastava a me questo piccolo segno, per riempirmi di sconfinata consolazione.