Kitabı oku: «Ahi, Giacometta, la tua ghirlandella!», sayfa 8
XXII
E tu, in un angolo di mondo, povera piccola, guardavi senza parlare…
Il giorno dopo Giaconetta volle passare da Forlì, prima di ritornare a Bologna; volle rivedere la piccola città grugnita dai tre campanili coi cappelli a cono, come tre vecchi maghi.
Non la contraddicemmo, tanto era perfettamente inutile.
Poi io avevo un po' di rimorso per essermi perduto con Arlecchina a cercare la settima rosa, in fondo a un giardino, nella tepida notte di aprile.
Ma Giacometta era come sempre ed Arlecchina, come potei osservare, non portava con sè i ricordi prossimi o remoti; e questo, per non avere un inutile bagaglio sulla sua strada di bella vincitrice.
A me solo balenava, di tanto in tanto, la folle idea di aver tradito il mio amore.
Uscimmo da Porta Assisi e ci lanciammo per la bianca strada che costeggia il fiume Ronco.
Solo, per un improvviso capriccio di Giacometta, ci fermammo a una vecchia villa disabitata: La Monaldina.
Poco dopo Ghibullo, là dove il fiume piega per due gomiti, e la strada con lui, sorge la grande casa dei campi.
Forse un Monaldi, forse un'altra famiglia che non so, la volle nella riposata pace di quel luogo.
Allora aveva l'aspetto delle vecchie cose che non servono più a nessuno.
Era sempre chiusa in fondo a un giardino, nel quale i viali si cancellavano di anno in anno, fra le ortiche e gli sterpi.
Aveva un'aria semplice e severa; una linea architettonica che ricordava il barocco ingentilito delle ville veneziane, fra Brenta e Piave.
Vi si accedeva per una grande scala esterna, a due rami. Alla sua sinistra, e un poco più verso la strada, sorgeva una chiesuola col suo campanile e una piccola campana che non aveva più albe da poter cantare.
Non so quale storia raccontassero, i contadini, della famiglia Monaldi: mi pare dicessero che, l'ultimo dell'antico ceppo, fosse lontano, per le metropoli regali, dimentico della sua terra.
Ed anche favoleggiavano di qualcuna che era morta di malinconia e di nostalgia nella grande casa dei campi…
E da quel tempo la Monaldina non si era riaperta mai più.
Sulla strada, due grandi pilastri rossigni, mezzo ricoperti dall'edera, reggevano un rugginoso cancello in ferro battuto, che portava a sommo, l'insegna gentilizia dei Monaldi. Due cancelletti minori si aprivano ai lati. Ma i battenti non si aprivano più per lasciar passare qualcuno.
Vi passavan le ombre e solamente quelle. Questo era il cuore e questa la poesia della Monaldina.
E Giacometta vi si volle fermare.
Ella viveva così, di volontà inattese.
Avrebbe voluto veder tutto, rovistar tutto, fare aprire porte e finestre, posseder l'anima del luogo, vivere dell'incantesimo triste della vecchia villa ravennate.
Ma i contadini non poterono far niente; essi non avevano le chiavi; forse le aveva il fattore.
– Non importa – disse Giacometta. – Ritornerò!
Ed era certo ch'ella sarebbe ritornata.
Arlecchina era seccata e cantarellava un'aria della Vally.
Poi disse:
– Non capisco come possa interessarti questa vecchia villa che fa venire l'ipocondria solo a guardarla!
– Tu non puoi sapere – rispose Giacometta. – È una mia idea!
– Spero non vorrai comprarla!
– Se si vendesse la comprerei.
– Ma non mi avresti ospite…
Giacometta non rispose. Si fermò a raccogliere un fiore e ripartimmo.
Ed ecco i colli foroliviensi e il campanile di San Mercuriale spuntare di fra l'azzurro come il faro delle rondini nel cuore dell'aria.
– E tu aspettami in giardino – disse Giacometta.
Io non volevo esser veduto; e molto meno dalla signora Adalgisa.
Mi inoltrai nella parte più remota del giardino.
Arlecchina era salita con Giacometta. Mi avevano detto che si sarebbero trattenute non più di due ore.
Per ingannare il tempo mi diressi alle serre. Mi proponevo di conversare un poco con Girolamo.
Me ne andavo così strappando qualche foglia alle macchie e guardando le ombre turchiniccie sulla terra e sui prati; ascoltavo gli usignuoli e sentivo discendere in me la letizia della primavera.
E mi sentii chiamare:
– Signor Franzi?
Principina era sbucata da una macchia di lillà; mi guardava, rossa come il fior del geranio.
– Oh, Principina!
Ella discese fino al limite del prato; ma rimase sull'erba co' suoi piedi scalzi.
– È dei nostri, ancora?..
– Sono di passaggio…
Si volse a guardare i fiori delle serre aperte.
– Non ritornerà più con noi?
– Non lo so, Principina…
– E… sua zia?
– Per quella non è un gran male se non ritorno più!
– Sa che è venuta a cercarlo?
– Qui?
– Sì, ier l'altro! Ha parlato al signor Stefano.
– Poco male.
Passò un silenzio.
– Dove va, adesso?
– Andavo a cercare Girolamo…
– È fuori… È andato al mercato a Faenza… Tornerà questa sera…
La brezza muoveva le pannocchie delle sirene fiorite.
– Deve aspettare la signorina?
– Sì…
– Ripartiranno in automobile?
– Sì…
– Come deve essere bello!..
Strappò un fior di sirena e vi affondò la dolce faccia di bambina.
– Senta come sa di buono!
– E tu… che fai Principina?..
– Io?.. Che vuol che faccia?.. Niente!..
– Non esci mai?
– Uscire?.. E per andar dove?..
– Alla tua età!.. Non hai proprio nessuno che ti aspetti?..
Divenne di bragia. Mi guardò conturbata.
– Chi deve aspettar me?.. Sono una povera!
– Questo non vorrebbe dir niente!
– Vuol dir tanto, invece!
– Ma tu sei bella…
– Bella?.. – Mi guardò fissamente negli occhi. – E poi… anche se fosse vero, a che cosa mi servirebbe?..
– Ma… mi pare debba essere sempre una gioia sentirsi guardare!
– No, signor Franzi. Io ho una strada sola…
– E dove va la tua strada?
Ella mi levò in faccia gli occhi ad un tratto serii e malinconici. E non rispose.
Mi domandò, dopo una pausa:
– Ha niente da fare?
– No.
– Vuol venire con me?
– Volentieri.
– Vado a dar aria alla serra delle orchidee.
Ci avviammo attraverso ai prati. Ella camminava guardando a terra.
Povera piccola cara!.. Ora che ti ripenso… ma allora ero troppo cieco!..
Vi sono creature che ci stanno accanto accanto, tante volte, e che non vediamo mai.
Passano nella nostra vita, spente nell'abitudine.
Se ci si chiedesse all'improvviso di quale colore hanno gli occhi, non sapremmo dirlo.
Le udiamo parlare, le sentiamo vivere la nostra vita di ogni giorno; accanto alla nostra gioia e alla tristezza nostra, eppure ci sono lontanissime…
Non una loro parola penetra nell'essere nostro; non un loro sorriso ci illumina il cuore.
Ne conosciamo il nome, eppure è come se non lo sapessimo nemmeno.
Chi sono? Dove vanno? In che consiste la loro povera vita?
A tali domande non sapremmo rispondere.
Per noi sono o furono la cieca abitudine, il niente.
La cenere del focolare; le ore grige senza volto. Sono o furono la giornata più inutile; quella che non lascia ricordo; che si chiude nella tetraggine dell'infinita inutilità!..
Sono o furono il più intiero silenzio nelle disperate pause che si vogliono dimenticare.
Ma talvolta, negli anni più gravi, queste creature della povera vita si presentano alla deserta soglia del cuore…
E vediamo ciò che non vedemmo mai…
Ci accorgiamo allora di un bene perduto. Perchè esse sole, le creature della povera vita, ritornano quando nessuno ritorna più; e non dicono parola…
Ma le vediamo piangere del nostro pianto, nel silenzio che non ruppero mai, per lasciarsi più libera la strada…
Ora che ti ripenso, povera piccola cara!
Ma allora ero troppo cieco.
– Quanti anni hai, Principina?
– Sedici, signor Franzi.
– E sei sola?
– Sì, siamo soli, il babbo ed io.
– Sei nata qui?
– No. Sono nata a Terra del sole, ma venni qui che non avevo ancora due anni.
– E anche tu ti occupi di giardinaggio?
– Sì. Mi piace tanto!
– E pensi di rimaner sempre in questo giardino?
– Dove vuole che vada?
– Non sposerai?
– Per sposare bisogna essere due…
– Grazie! Ma non vorrai trovarne di giovani che ti vogliano?
– Per trovarli bisognerebbe volere…
– E tu non vuoi?
– Non ci penso.
– Già, sei tanto giovane!
– No, non è per questo.
– E allora?
– Certe volte si guarda alla casa più lontana, sui monti e… non si trova la strada per arrivare!
– Allora sei innamorata?
– No, signor Franzi… non posso essere innamorata!
– E perchè?
– Perchè… con una sola gugliata non si cuce un lenzuolo…
Rispondeva dolcemente col suo parlar figurato e non mi guardava mai. Mi precedeva di un passo, scivolando fra le macchie, leggera e sottile. Passava sotto i grandi alberi, nel sole; smuoveva appena i fiori dei ranuncoli, sui prati.
– Ah, Principina! Tu non vuoi dirmi chi è il tuo innamorato…
– Perchè mi tormenta, signor Franzi?
– Hai ragione. Perdonami.
– Che devo perdonarle… io?.. Mi fa piacere sentirla parlare. Era tanto tempo che non la vedevo più! Solo non posso dirle niente, perchè non ho niente da dirle…
Arrivammo alla serra delle orchidee. Principina ne aprì i battenti. Il sole si precipitò in un gran fiotto d'oro ad inondare la serra.
– Vede come sono belle!
– E tu sai il nome di tutte?
– Sì.
– E sai anche il nome latino?
– Sì, signor Franzi. Forse dirò qualche sproposito, ma per quello che ho studiato io!
– Che classe hai fatto?
– La terza elementare. Poi basta. Il babbo aveva bisogno di me. Ma leggo molto. Ho letto anche il suo libro…
– Tu?..
La mia sorpresa domanda le fece abbassar gli occhi.
– Ha ragione. Io sono una povera ignorante e non dovevo dirglielo neppure!
Alle mie tarde proteste cambiò discorso ma sempre con dolcezza, senza dimostrarsi offesa.
Più tardi mi domandò:
– Quand'è lontano, ci pensa qualche volta al suo paese?
– Quasi mai – risposi.
– Non c'è niente che le piaccia al suo paese?
– Forse… non so bene. Ma è certo che mi ci sento morire!
– Dunque andrà via per sempre?
– Lo vorrei.
– E andrà molto lontano?
– Anche al di là degli oceani andrei, pur di acquistare l'intiera libertà della mia vita…
– Ha ragione…
Certe volte tu incontri degli occhi puri, senza egoismo e non sai vederli. La bontà è lieve; passa col volo della rondine.
E quando è morta, allora una voce ti parla dentro e dice: – Quella era la bontà!..
– Signor Franzi – riprese Principina, – a Bologna ha conosciuto qualcuno?
– Perchè mi domandi questo?
– Così!.. So che la signorina ha tante conoscenze a Bologna…
– Fino ad ora non ho conosciuta che Arlecchina.
– Vedrà che la signorina le farà conoscere anche gli altri amici…
– E che ne sai tu?
– Non sono sempre insieme?
– Sì.
– Allora vedrà!
– Ma perchè lo dici?
– Per niente…
– Per niente, no! Tu sai qualcosa…
– Signor Franzi, che vuol che sappia, io?
– Tu sai qualcosa che non vuoi dirmi!
– Io vorrei dirle una cosa sola…
– Quale?
– Vorrei dirle di non sperare troppo…
– E perchè?
– Perchè ci son tante strade che non conducono a casa!.. Mi perdoni, signor Franzi! Mi sono presa la confidenza di dirle questo perchè mi pare di conoscerla tanto bene… tanto bene!.. Ho avuto torto?
– No, Principina…
– Lei è come un bambino!.. E una volta ha fatto quel salto dalla finestra… e poteva ammazzarsi!..
– Ora esageri!
– Be', io ebbi paura!.. Io non avrei voluto mai ch'ella avesse fatto, per me, una cosa simile!
– Che c'era di male?
– Niente! Ma non si vuol bene così!
Volse la faccia da un'altra parte e rimanemmo muti in un reciproco imbarazzo.
Ella aveva parlato troppo e un disagio invincibile era nell'anima mia, fuori strada. Nell'anima di lei c'era un'angoscia fonda. Ci avviammo verso una piccola casa bianca, fra le roveri.
C'era un solo nido di rondine sotto la gronda arrugginita…
C'era una sola stanza sotto la gronda… Principina disse:
– Io dormo lassù…
Guardai la casa e l'aria turchina… La primavera eri tu, piccola rondine sola…
– E in queste notti, con la finestra aperta, sento cantare i rosignoli e vedo tutte le stelle…
Due grandi occhi di bambina spalancati sulle notti di aprile…
perchè il piccolo cuore non dovesse morire dì solitudine fra le quattro mura di una stanza…
– Io dormo lassù… e sento le campane dell'alba e il primo volo della rondine…
Il primo volo di una rondine; qualcosa che si allontana per sempre!
E così in un angolo di mondo, povera piccola mia, tu guardavi e ascoltavi senza parlare mai.
XXIII
E guarderemo, passando nella notte, le finestre illuminate da una gioia che non potremo sapere…
Ripartimmo, ma io ero più taciturno e l'allegria di Arlecchina non bastava a distrarmi.
Giacometta mi domandò più volte che avessi. Le risposi sempre vagamente.
Al Piratello, passata Imola, un guasto all'automobile ci costrinse a fermarci.
Ci avviammo a piedi attendendo che la macchina fosse riparata.
Le parole di Principina avevano innalzata, nel mio povero cuore, la torre della gelosia e, dentro, c'era l'anima che piangeva.
E soffrivo. Arlecchina mi disse:
– Franzi, oggi siete simpatico come un quaresimale!
Giacometta, indispettita dal mio contegno, soggiunse:
– Lascialo stare. È meglio non occuparsene.
Tale indifferenza accrebbe il mio dispetto.
Avvenne così che il mio ostinato mutismo e la mia faccia oscurata distraessero compiutamente da me l'attenzione di Giacometta e di Arlecchina le quali, presesi sotto braccio, se ne andarono innanzi parlando fra loro e mi abbandonarono alle mie inesplicabili paturnie.
Io camminavo sullo scrimolo di un fosso e venivo guardando le campagne dell'imolese; ma non mi interessavano; anzi, in quel punto, mi erano odiose come tutte le cose del mondo.
Giacometta ed Arlecchina ridevano allegramente, un poco più innanzi.
Perchè ridevano?.. Evidentemente per accrescere il mio malumore, per incrudire il mio male.
L'automobile arrivò ed io avevo lasciato dilungare di molto le mie compagne.
Salii a fianco del meccanico.
Giacometta ed Arlecchina non si vedevano. Possibile si fossero dilungate di tanto?
Demmo l'avviso con la tromba dell'automobile; si proseguì a passo d'uomo; ci fermammo.
Dove erano andate?
– Saranno entrate in qualche casa di contadino.
Rifacemmo la strada a ritroso; entrammo in tutte le case; nessuno le aveva vedute.
– Avranno preso qualche via traversa…
Il meccanico si stringeva nelle spalle; il mio dispetto incominciava a dileguare.
– E che si fa adesso?
Il meccanico era uno di quegli uomini che non amano assumere responsabilità. Io solo dovevo decidere.
Sopraggiunse un biroccino con sopravi un fattore rubicondo:
– Scusi… non ha veduto due signorine così e così?
– Macchè!.. Neppur l'ombra di una signorina!
Arrivò un'automobile, a precipizio. Ritto in mezzo alla strada feci cenno perchè fermassero:
– Scusino… non hanno veduto…
Mi mandarono a morire ammazzato. Erano persone molto bene educate.
– E adesso?
Decidemmo di proseguire a passo d'uomo.
La sera si avvicinava.
Ad ogni chilometro una sosta; ad ogni stazione sulla linea del tranvai Imola-Bologna, una fermata più lunga.
Giacometta ed Arlecchina erano scomparse sulle ali del loro Genio. Neppure avessero fondato Roma!
Però la cosa incominciava a destarmi una seria preoccupazione. Potevo io ritornare a Bologna così? Potevo presentarmi in casa di Arlecchina, o anche dalla placida signora Zeffira senza neppur l'ombra di una spiegazione da dare?
Dovevo ritrovarle a tutti i costi; pena la mia tranquillità.
Bologna non era ormai lontana più di quindici chilometri.
Per la via Emilia si vedono ceffi di ogni sorta e non solamente gli zingari passano su questa grande strada miliare.
Poteva darsi adunque che due o più uomini, decisi a tutto, imbattutisi, in un punto solitario, nelle due giovinette, se le fossero prese.
Tale dubbio mi tormentò ancor più. Dissi:
– Arriviamo fino a San Lazzaro; se a San Lazzaro non le abbiamo trovate, torneremo indietro.
Il meccanico non era entusiasta e incominciava a diffondersi riccamente nel campo della bestemmia.
– È inutile bestemmiare, caro Luca!.. Tanto bisogna ritrovarle.
Luca era un buon bolognese, di fondo gioviale, ma violento.
L'udii mormorare, all'indirizzo delle due signorine, qualche parola che non portava i guanti bianchi. Si espresse senza perifrasi. E la cosa tanto mi dispiacque che poco mancò non ci mettessimo le mani addosso.
Il pericolo fu evitato solo perchè un carro che ci attraversò la strada ci distrasse.
Com'era ben naturale, tutto il furor nostro compreso si sfogò allora contro il carrettiere che coprimmo di male parole.
I carrettieri, vuoi per il loro peripatetico mestiere, vuoi per l'influenza della luna, vuoi per tradizione di classe, certe volte non sentono e certe altre volte sentono doppio.
Quando non sentono, tutto va bene; ma quando sentono doppio è opinione comune che le cose finiscano male.
Eravamo ad un paesuccio di cui non ricordo il nome; vicino ad un'osteria che aveva per insegna un grandissimo gallo.
L'automobile si era fermata.
Il carrettiere era un uomo robustissimo e doveva certo aver vuotato varî boccali. Lungo la via Emilia sono distribuite numerose osterie per la inestinguibile sete dei carrettieri.
Michelaccio (il nome lo ricordo perchè lo seppi dopo), quel giorno si era proposto di essere allegro come a quindici anni e per esser tale, si era raccomandato al buon vino dei colli bolognesi. Ma detto vino, più che allegria, gli aveva dato una immensa coscienza di sè stesso, tanto che Michelaccio viaggiava, quel giorno, sul suo carro, come l'apostolo e l'imperatore della proletaria grandezza.
Fatto sta che il degno uomo, udite le parole nostre (le quali non erano ingiustificate!) discese dal carro e brandendo alta una sua nodosa frusta che si chiama, in Romagna, parpignano, si diresse correndo verso di noi con la ferma intenzione di sottoporci al massaggio sofferto dalle sue bestie da soma.
Luca ed io, discesi dall'automobile, fummo pronti a scansare, in un primo tempo, la furia di Michelaccio, il quale continuava per altro ad avventarcisi addosso con ferma costanza.
La buffa schermaglia non poteva continuare. Già si era venuto formando un crocchio che assisteva alla scena ridendo.
Non era ammissibile che l'uno dovesse continuare ne' suoi assalti e gli altri dovessero difendersi senza reagire.
Luca pensò di finirla.
Scelto il momento opportuno, si cacciò sotto, riuscì ad abbrancare Michelaccio, lo strinse forte e ruzzolarono per le terre.
E Luca stava buscandole. Michelaccio se l'era messo sotto e con i suoi grandissimi pugni veniva esercitandosi in guisa da cambiare i connotati al mio povero compagno.
Il suo coraggio non lo salvava.
Fu allora che intervenni.
Mi abbrancai all'industre carrettiere e, invece di esser due, fummo tre a ruzzolar per le terre.
Ora avviene che la folla, la quale assiste a un litigio, finisca per eccitarsi a sua volta.
La nostra gente non può non parteggiare.
E anche quella volta parteggiò, ma per Michelaccio. Noi eravamo signori!
Luca, mio buon Luca, noi eravamo signori!!..
Tu ed io, con la nostra sacrosanta e decorosissima miseria che non ci ha abbandonato quasi mai! Tu, re del volante; io, suddito della penna!
Dapprima la gente, assistendo al nostro triplice pugilato, si accontentò di urlare; ma poi anche questo le parve poco. E allora prima uno, poi quattro, poi sei energumeni si staccarono dal crocchio ed entrarono in lizza.
Dio Onnipotente, quante ne buscai!..
Molte volte, nel corso delle mie esperienze, partito col nobile còmpito di bastonare, ritornai bastonato; ma quella volta fu un'esagerazione. Non si può ammettere che un poveruomo solo, debba digerirsi una così nutrita scarica! Io non mi sentivo ormai salva nessunissima parte del corpo.
Avevo un occhio enfiato; mi sanguinava la bocca; le spalle e il resto del corpo non me li sentivo più.
Ormai mi ero detto:
– Povero Francesco Balduino, sei bell'e spacciato. Preparati a far fagotto e raccomandati alla Divina Misericordia!
Mi sentivo lanciare da destra a sinistra e avanti e indietro, da un pugno all'altro; da una notevole pedata, a una seconda pedata non meno notevole. Il mio povero bel vestito era tutto un brandello. Colletto, cravatta, camicia non esistevano quasi più. Il cappello era un'immondizia in mezzo alle immondizie, fra la polvere. Non ci vedevo più, non parlavo più; le mie labbra parevano colpite da improvvisa elefantiasi. Stavano per scardinarmi i denti e mi avrebber mozzate le orecchie e il naso se li lasciavano fare.
Fosti contento, Michelaccio, imperator nostro delle carra?.. Ti piacque il festino sulle persone nostre, magnifico cantor della luna per le tappe miliari delle grandi strade maestre? Ti parve soddisfatta la nobiltà tua di nuovissimo Re dei boccali e delle moltitudini?
Ci deste addosso in quaranta, figli di cani, e ci volle un bel coraggio!..
In quaranta: e Michelaccio guidava la ciurma. S'io anche fossi stato grosso e forte come Gargantua, che avrei potuto fare? Ero invece, come sono, un uomo di modesta taglia che non può compire l'inverosimile.
Poi quando si è sopraffatti non si reagisce più. Ci si lascia percuotere come un tappeto; rassegnati a tutto.
Comunque fosse, la fortuna ci venne in aiuto nel momento critico.
Il popolo stava compiendo su di noi le sue vendette socialiste, allorchè intervenne chi rappresentava ancora un barlume di civiltà: intendo riferirmi a qualche carabiniere.
Allora la folla ci lasciò stare; ma non si trattava di una grande generosità.
Ci lasciò stare e tanto Luca quanto io non potemmo rialzarci da terra.
Nello stato semicosciente nel quale mi trovavo ricordo di aver udito una voce che diceva:
– Li hanno ammazzati!
Allora ebbi il dubbio di esser morto addirittura; uno stranissimo dubbio che sdoppiò l'essere mio in modo che mi vedevo disteso in terra e tutto insanguinato e potevo disinteressarmi tranquillamente dei fatti miei mortali.
Poi ci caricarono in non so quale veicolo e ci portarono via fra i fischi e gli ululati della folla.
Signori socialisti, questo fu il trionfo di Michelaccio imperatore.
Forse tale fasto non passerà ai posteri, scolpito nel bronzo dell'avvenire; ma sta di fatto che la folla, non ancora soddisfatta, fischiò ed ululò al passaggio di due cenci sanguinanti.
Signori socialisti, io sono stato il giullare della mia vita ed ora sono un uomo che ride perchè nel mondo v'è troppa tragedia per aggiungervene ancora; ma voi, vi siete resi conto di quello che avete fatto delle moltitudini, all'infuori di ogni giusta riforma e di ogni più lontana conquista?..
Avete pensato agli argini per salvare le faticate messi?..
Domani la civiltà potrebbe essere, come noi eravamo, un cencio sanguinante dietro al quale la scalmanata follia delle moltitudini ululasse il suo scherno.
Ci guardammo di fra le bozze, i gonfiori, le piaghe e le lividure; ci guardammo da un occhio solo, Luca ed io, e ci si meravigliò di essere ancora vivi e di esser vicini.
Eravamo in camera di sicurezza.
Abbandonati su due tavolacci vicini, ci avevano lasciati là come cose immonde.
Ed era sopraggiunta la notte.
Mi pareva di aver vissuto duecentomila anni e della mia vita non ci capivo più niente. Solo, a incommensurate distanze appariva un isolotto, un frammento di memoria.
Ravenna… Giacometta… il giardino di Principina…
Ma l'una cosa non si riconnetteva all'altra. La mia coscienza era a brandelli.
Luca trovò ancora forza per dirmi:
– Signor Franzi… se non vengono a prendermi… muoio…
Ricordo che risposi:
– Anch'io…
Non rammento quante costole rotte avessimo; ma sono certo che, a sommarle, facevano un bel numero.
Ricordo ancora che dovevo respirare con somma precauzione per evitare un dolore cane che, ad ogni respiro, mi trafiggeva la spalla sinistra.
Poi, nel silenzio che si era ormai stabilito, udimmo un rumore insolito e il rombo di un motore fece levare il capo a Luca.
– Vengono a prenderci… – disse Luca.
Risposi con profonda convinzione:
– Non è vero…
Chi poteva venirci a prendere se eravamo l'ultimo rifiuto della società?
Però i catenacci stridettero e la stanzaccia fu invasa da un fiotto di gente.
Qualcuno chiese:
– Dove sono?
E un altro:
– Eccoli!
Allora udii una voce cara, una voce nota, che implorava ansiosamente:
– Franzi… Franzi?.. Dov'è Franzi?..
E poco dopo Giacometta era china sulla mia mostruosità ed io sentii sulle mie ecchimosi la carezza del suo respiro.
– Franzi?.. Franzi mio?.. Amore mio caro?..
Dio ti benedica fino in fondo al tuo cammino, solo per la grande dolcezza che mi desti allora!
– Come l'hanno ridotto!.. Non si riconosce!..
E ti udii singhiozzare.
Invece io ridevo. Ridevo dentro di me di un riso infinito; ridevo perchè sentivo il mio amore che ritornava come una folata di vento primaverile verso la mia disperazione.
Se mi avessero calpestato dieci volte tanto, ancora sarei stato felice, per averti ritrovata…
– Amore? rispondimi!.. Amore?.. rispondimi almeno una parola…
Parlavi basso perchè io solo ti udissi; perchè si creasse il cerchio soave nel quale due sole anime si illuminano.
– Come stai?.. Ti senti molto male?..
– No..
– Puoi parlare?.. Puoi parlare ancora, amore mio?..
– Un poco…
Allora volesti accarezzarmi i capelli e, con ribrezzo, ritraesti la mano insanguinata.
La tua minuscola mano regale, insanguinata!
Ti riudii parlare con qualcuno che non vedevo:
– È ferito anche al capo. Guardate!
E questo qualcuno rispose:
– Ora lo porteremo via.
– Ma non sarà troppo grave?
– Non credo. Lo trasporteremo in automobile.
– Alla villa?
– Sì, alla villa.
– Oh, grazie, grazie!.. Volevo chiedervelo come un grande favore, ma non mi azzardavo!
Quando mi sollevarono dal duro giaciglio ebbi un grido di dolore. Poi non ricordo che una nebbia di sonno e d'incubo.