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LORD BYRON
– 183013 —
… Quel Signor dell'altissimo canto
Che sovra gli altri, com'aquila, vola.
Dante, Inferno.
Se il Byron, come tanti fecero, e faranno, avesse scritto soltanto nienti vestiti di metro e di rime, io mai non avrei posto mente a volgerlo nella lingua nostra, lasciando volentieri ai maestri miei l'impresa di stringere un'ombra, e di tradurre il sussurro del vento; perchè reputo ufficio del cittadino non offerir nulla alla sua nazione, piuttosto che assuefarla ad oziose fatiche, per le quali mai non fa passo nella via del sapere, nè altro consegue fuorchè una millanteria strepitosa della sua nudità. Ma tolgano i cieli, che si abbia così a favellare del Byron; e per altrettante ragioni affatto contrarie a quelle già esposte ci piacque mostrarne tradotto un poema agl'Italiani nostri. E gli Italiani nostri non facciano conto di ravvisare sincere le sembianze del Byron nella mia traduzione; mainò davvero, e io non torrei a farlo credere coll'aiuto di tutti i giuramenti antichi e moderni. Il Genio è più fiero, che il cavallo del Magno Alessandro, e a trattarlo stimo non bastare un eroe. Io vi presento le figure di un quadro maraviglioso; e se non vi ho reso la magia del colorito, date parte del difetto al mio poco valore, e parte alla natura delle cose impossibili all'uomo. Nondimeno agli spiriti gentili amabile è sempre la creazione del fiore, benchè andasse dispersa metà della sua fragranza. Ad ogni modo il poeta, che visse nella sapienza della sventura, che sentì, e fece sentire le universe passioni, che nell'umana materia risvegliano un'anima; il pensiere, che tutti trascorse gli eventi mortali, e poi si affisse nel profondo dei cieli, tentando rapire il velame alla notte del mistero, è troppo grande, perchè non abbia da compensare largamente anche chi lo legga tradotto. La fiamma nodrita di eterni alimenti eterno manda e lontano il calore.
Della molta bellezza, ond'è lieto il presente Poema14, io non mi farò notomista: primamente, perchè l'alta poesia sfugge l'esame, e va del tutto soggetta al sentimento; poi perchè parmi ben fatto lasciare a ciascuno l'indipendenza delle opinioni. Finora le stelle non mi hanno impresso nel sangue bastante influsso di critico, nè il mondo mi dà per anche del chiarissimo, perchè io mi creda di avere in appalto il giudizio, e gridi ai miei fratelli di umanità: – non guardate, ho veduto io. – E questo è generalmente il raziocinio di quanti scrissero, e scriveranno riviste di lettere; e dietro a siffatta norma potrei scomporre ad una ad una le parti di un bel corpo, che io non ebbi il magisterio di creare, e così potrei regalarvi l'estratto o il parere; ma il frutto? Chi ha vivo il cuore e l'ingegno, sa fare a meno di certi soccorsi, perchè si aiuta più acconciamente da sè; e chi venne diseredato di quelle due facoltà, sa farne a meno più che mai, per la cagione solenne dell'impotenza. Cento matematici potrebbero dimostrare ben anche le frazioni impercettibili del Bello; ma i calcoli tornerebbero a zero; e però, benchè la pazzia faccia elemento di equilibrio nella fabbrica dell'uomo, chi sarà mai tanto pazzo, che doni gli occhiali al cieco, perchè veda una maraviglia? E se chi professa filantropia sclamasse all'ingiustizia, perchè gran parte del genere umano sia venuta, più che al fatto, alle pretensioni del sentimento e della ragione, io non saprei dargli torto; ma non vedo altro rimedio, che la pazienza; o altrimenti come potrò io debole, io servo di mille ignoranze, di mille bisogni, e della morte, sommettere la forza, che abita le tenebre, che mai non si mosse dai suoi decreti pei nostri schiamazzi, e che nell'ordine degli enti medesimi volle, o dovè, porre il savio e lo stolto, l'animoso e il codardo, il giusto e l'iniquo? Dunque pazienza; e coloro, che hanno anima fresca di gioventù, e agilità di spirito, leggano nel Byron, e vado sicuro, che proveranno un moto onnipotente alla vita; e se talvolta vien meno l'effetto della consueta sua prepotenza, non mormorate un'accento di biasimo a quell'immenso; – il peccato è della mia traduzione; io son l'ombra, che mi attraverso alla luce.
Nella prefazione alle Novelle del Cesari, stampate in Genova anno Domini 1829, sta scritto, che il Byron, Gualtieri Scott, e somiglianti ingegni così gagliardi a mo' di palloni, si levano sulle nubi, sino a che ad un soffio di aura nemica vuoti e vizzi ricaggiano al suolo. E, seguitando di questa maniera, vien confortata l'Italia a spregiare i più rei d'oltramare, e d'oltramonte, accettando invece un pugno di baie a guidare la gioventù per quella via, fuor della quale non sono, che greppi e balzi romantici. Dio perdoni l'impudente che scrisse siffatte miserie, perchè io non posso. Nè già questo dico a difesa del Grande, perchè più non abbisogna d'insulto o di lode. Il grido consentito d'Europa oggimai l'ha salutato potentissimo fra gli intelletti del secolo; e badate, che il Sole si spense a mezzogiorno, perocchè Giorgio Byron sfortunatamente morisse sugli anni 36. Ma ciò che mi muove è l'oltraggio gittato sopra un'intera nazione; e la ragione è sul vivo oltraggiata, allorchè un falso profeta con sue parabole la persuade a maledire il Genio, e a rinnegare il Pensiere, offerendole, in cambio dei sublimi dettati, Novelle povere tanto d'invenzione, e di subbietto, da farne torto a un cervello di donna. – Evvi sfoggiato lo bello stile, – dirà taluno, se pure è merito quello di assalire Messer Giovanni Boccaccio, e svaligiarlo in modo da non lasciargli neppure il farsetto. Così va da gran tempo la bisogna in questa mal capitata Italia, nè il fabbro della citata prefazione ha operato secondo nuovo costume. La forza si è divisa dai nostri destini, – il pensiere si è diviso dalla parola, e questa è diventata cimento degl'ingegni. E quando un libro apparisce, gl'inquisitori di Lettere non giudicano della sua bontà al concetto magnanimo, alla larghezza delle opinioni, alle utilità dello scopo; anzi, se per avventura sia corredato di queste doti, il libro sarà manomesso, perchè i giustizieri delle Lettere portano per impresa: – Parlate senza pensare; – ed hanno il cuore malato di soverchia strettezza, e li contrista la luce, e il moto gli affanna. Basta che il libro sia disteso in aurea favella, vale a dire limosinata a frusto a frusto dalle buone anime morte cinque secoli addietro, e avrà tutti i suffragi; non avvertendo, che l'aurea favella mal soddisfa ai nostri bisogni, quando vien trasferita dal passato al presente senza accorgimento d'arte, senza richiamo di vita, senza piegarsi in fine alle tante modificazioni che l'onnipotenza del tempo imprime sulle cose universe. Basta l'aurea favella, – e se il libro è vuoto non importa; i pedanti respirano meglio. E guai, se ti vien fatto di significare liberamente gl'impulsi della tua fantasia; guai, se ti diparti un passo dalle opinioni di patto comune! ti chiamano tosto tartaro, ottentotto, luterano, e peggio. E fanno di notte una guerra sorda di tradimenti, e nelle reti del sospetto avviluppano il potente, cosicchè egli si muova, ed aggiunga un peso alle oppressioni delle avverse fortune. Quindi nelle nostre provincie la fama crescente del giovane vilipesa, e intercetta; quindi molti nobili ingegni sprofondano nella energia e muoiono senza balenare scintilla; i pochi nati alla forza dell'animo resistono, è vero, ma dietro si traggono sconfortata tanto la vita, che io non so se di loro più si abbia ad ammirare la costanza, o a compiangere la durissima sorte. O maestri miei! veniamo agli accordi, e vi daremo pace con tutti gli onori militari, purchè non vogliate più abbarbicarvi al Genio; – voi potete starne lontani, perchè non avete con lui nessun grado di parentela, se non fosse quello che hanno le spine colla rosa. O maestri miei! perchè mai foste aggregati alla gran famiglia degli animali parlanti? O maestri miei! sgombrate il sentiero della scienza: parvi onesto di fare in questo mondo la parte dell'inciampo? Ma la Provvidenza aveva predestinato, che in hac lacrymarum valle non vi fosse strada, dove la polvere non salisse sulle vesti, e non facesse la guerra agli occhi. Dunque pazienza, e adoriamo. Forse taluno mi darà nota di vana acrimonia, dicendo; – le tue son ciance, perchè il pedante è pedante per obbligo della propria costituzione: e' son leggi di natura, nè vuolsi sperare che muteranno, finchè ella non ristampi il suo codice; – ma di questo dubito forte, chè troppo parmi si mostri contenta di ciò che opera, in bene, e in male. È ella questa la stagione in che i detti dell'Italiano debbono suonare lusinghe? E se io parlo agramente, nol faccio per gare parziali, almeno ch'io mi sappia; e se un galantuomo mi convincesse, che i miei sensi hanno aspetto d'invidia, o d'intrigo, o d'altre bassezze di umanità letteraria, io non porrei tempo in mezzo a tacermi. Ma se parlo agramente, è pel desiderio che le arti liberali abbiano sotto questo cielo felice una patria, e riti intemerati; è pel desiderio che la nazione si rivendichi in libertà d'intelletto, e si faccia viva, e forte, nè più giuri sul nome de' suoi maestri, che sempre la tratteranno a novelle.
La nuda parola, come io dissi, è dunque misura di giudizio ai dottori, cagione onde va così piena di fronde la nostra Letteratura; e chi non crede, veda le Raccolte dei Classici. Usare la purezza del linguaggio è savio consiglio, e nessuno lo nega: anzi chi ben guarda addentro le cose, conosce come la proprietà dell'idioma sia elemento nazionale; perchè in un popolo quando manca la proprietà dell'idioma, quel popolo non ha più la passione della patria, e si avvicina alla sua caduta. Ma la Lingua non è tutto: il massimo studio va convertito a pensare. Solo il Pensiere è padre delle maraviglie, che di quando in quando fecero immaginare nell'uomo un alito di natura divina: non è data all'uomo altra tavola per sorreggersi nelle burrasche della vita: – l'uomo non ha trovata altra ragione per sollevarsi sull'altre bestie. I maestri levano rumore, perchè logorando una dovizia di anni fecero grave il sopracciglio, e magra l'anima, sullo studio delle parole. Che la terra presto vi sia lieve sull'ossa! qual bene mai venne alle Lettere, e alla Italia, delle vostre discordie di tre secoli? Voi avete aggiunto un anello alla catena delle nostre vergogne. Senza di voi forse non era la Lingua? Prima che Lionardo Salviati, e compagni, angustiassero uno spirito immortale, e lasciassero un legato di lacci a chi veniva dopo di loro, – prima che la Crusca stampasse il vocabolario, – Dante, il Petrarca, il Boccaccio, il Machiavelli, l'Ariosto, e il Tasso, davano consistenza e splendore all'idioma nostro. Da questi Grandi soltanto, che ebbero arguta la mente, e caldo il cuore di generose passioni, potrà il popolo apprendere la favella, e il pensiere. L'anima loro vive sempre nei monumenti di grandezza che ci hanno lasciati, monumenti, che ci serviranno di conforto e di lume, finchè offriamo loro un culto di amore perenne, come il culto che gli antichi offersero al fuoco di Vesta. Ma i pedanti non sanno che ringhiare: e che giova se un popolo impari a ringhiare? Abbastanza l'indole nostra è rissosa; e i fatti passati, e i fatti anche del momento che passa ora, lo affermano. Dunque ogni studio va convertito a pensare, ed è massima, che mai non sarà predicata a sufficienza in Italia. Troppo evidente è il divario, che corse fra la nuda parola e l'utilità immediata del pensiere, anche quand'è scompagnato dalle forme eleganti. Il Filangieri, e il Beccaria, scrittori di profonda ragione, non distesero per avventura i loro trattati con quella convenienza di favella, che si vorrebbe, e in questo non meritano lode; ma chi sarà tanto ingiusto, e di senno così poco Italiano, che ponga nella medesima lance quei due divini, e la bisbetica razza dei professori de' vocaboli? Il nome di quei due è di fasto alla patria, perchè furono amici degli uomini, e illuminarono di luce immortale la nazione, e nessuno di quanti dottori fabbricano gabbie all'intelletto meritò mai d'esser nominato – Benemerito della Umanità, – come avvenne al celebrato scrittore dei Delitti e delle Pene.
Ma il desio di finire un più lieto argomento mi chiama. Venerata è nel mondo la memoria di Byron, perchè la riverenza del Genio è la più santa delle umane religioni: ma gl'Italiani presenti e futuri hanno un debito d'amore a quel Grande, che non vorranno negare, finchè duri in essi fiato di magnanimi sensi. Ei non discendeva sulla terra gentile a spendere il suo diritto di superbia e d'insulto; diritto, che la sapienza delle vicende a mano a mano toglie e concede alle diverse nazioni del globo. L'anima sua era troppo piena di Grandezza, nè vi trovò luogo l'ingiuria. Ei vagheggiò sempre l'Italia, come l'immagine più cara del suo desiderio, e cercò il nostro Sole per averne incremento allo spirito, e confuse il suo genio severo nei riposi del nostro cielo; quindi i suoi canti si fecero più divini, perchè il cielo d'Italia è sublime poesia; quindi l'amò come la patria del suo ingegno, e vestì del suo pensiero le gesta dei padri nostri, le sorti e le speranze di noi, e pianse sulle nostre sciagure la più bella lagrima, che ad occhio mortale fosse dato versare.
OSSERVAZIONI SOPRA UNO SCRITTO
DI MELCHIOR MISSIRINI
INSERITO NEL N.º 37 DELL'INDICATORE LIVORNESE
– 182915 —
Nè in tante lodi chieggo altro che modo.
Quando la Natura formò la bizzarra famiglia del genere umano, decise che la più parte di noi saremmo maligni, e in questo ci saranno le sue profonde ragioni, perchè ella è savia, e si muove ad operare pensatamente, non come facciamo noi, che il più delle volte ci moviamo, perchè il muoversi è oramai destino delle gambe. E l'uomo usa della sua natural dote di malignanza, come di vela buona per ogni vento, perchè maledisce a torto, e a diritto; però quantunque volte in questo mondo sotto la luna si produce opera, sia pur bella e innocente, non mancano mai le migliaia a morderla da tutti i lati, nè alla giustizia è dato il passo, finchè la provvidenza della noia o della morte alle migliaia non imponga silenzio. Ora, essendo così ordinato dalla sacra Necessità, non resta che darsi pace; e quando un amico gentile piega spontaneo, e senza mire d'interesse, a favorire onoratamente le cose tue, conviene ringraziare la Fortuna del miracolo, e l'animo gentile rimunerare con quella liberalità maggiore, che il cuore ti detta. Già a chi pretende il nome di galantuomo è necessario pagare i suoi debiti; a un debito poi di cortesia vuolsi nel modo più acconcio soddisfare, poichè l'è merce carissima, e mala pena trovi chi sappia fidartene dramma. Quindi intendiamo noi, nè più nè meno, mostrarci riconoscenti a Melchior Missirini, perocchè gli piacesse dare alla città nostra un pensiere e una parola di lode. Non mica, che noi crediamo di essere in cima o in fondo, perchè questi o quegli venga a recarcerne la novella; – no davvero: – il parere dell'individuo non tramuta l'indole delle cose; i fatti danno sentenza, nè a questi puoi contradire, per quanto tu meni in giro la lingua. Noi attestiamo gratitudine soltanto all'espressione della benevolenza, perchè un intimo sentimento ti sforza ad amare chi ti ama, e ci rallegra assai a veder l'uomo rompere per un momento il patto di guerra che ha coll'altr'uomo, e drizzargli voci di conforto, e di amore.
Ma noi sopra ogni altra cosa amiamo la Verità; però al Missirini non giunga discaro, che gli si notino alcuni punti del suo discorso; dove egli trasmodò per soverchio di spirito ben disposto, o perchè agio non ebbe a sapere precisamente le cose come stanno. I professori di prudenza ci hanno sovente dissuasi da questo studio del vero, sforzandosi a dimostrarci come di rado o mai ci si trovi guadagno, e ci hanno per lungo e per largo chiosata la scienza del vivere in pace con tutti. Ognuno fa i conti secondo i suoi numeri; e costoro, come prudenti, forse dicono bene; ma io per ora voglio starmi alla mia fede, e dire il vero, o quanto mi parrà che sia vero, finchè i Casuisti mi concederanno libero arbitrio; se in séguito alcuna delle tante cause dominatrici della mente avverrà che mi travolga, peggio per me; ed io allora andrò in punta di piedi a pesare le opinioni sulla bilancia della paura!
Alla legge solenne, che i popoli spinge ora in alto, ora in basso, potenza mortale non può resistere; e il Genio stesso, suprema delle forze create, può modificare, ma non impedire, o volgere altrove quel moto. Oggimai un progresso d'incivilimento è manifesto nelle nazioni d'Europa; quindi la città nostra anch'essa ai tempi consente, perchè alle spinte in qualche modo bisogna rispondere. Gli uomini vecchi, sospirando i giorni del buon tempo antico, dicono invece che la città sia declinata di male in peggio; ma i ricordi del passato, confrontati coll'evidenza del presente, senza rispetto danno la mentita agli uomini vecchi. Non v'è che dire: le condizioni hanno cominciato a migliorare, specialmente perchè adesso è la volta di salire; nondimeno gran parte della via rimane da corrersi, nè io credo, che mai basteranno l'alacrità dell'animo, l'intensità del desiderio; e taluno vorrebbe, che quei tanti nodi d'unione fossero stretti meglio che ora non sono. Per altro a lasciare senza onore di lode i pochi istituti, base alla nostra rigenerazione futura, sarebbe invidia fuor di luogo, perchè il vero a lungo andare rivendica il suo diritto, e a chi si spetta l'infamia non manca. Lodare le azioni buone, e vituperare le triste, io credo che sia sapienza; non dipingere tutto di nero, o di color di rosa, come è il costume di molti; perchè la Natura eternamente si gira sopra questi due perni, il bene ed il male, e l'intemperanza dell'amore o dell'odio traversa la strada al giudizio. Adunque favellò sanamente il Missirini della Scuola di Mutuo Insegnamento, istituzione, che non sarà tenuta mai cara quanto si merita; non foss'altro per tanta impostura di antichi metodi manomessa; e i forestieri sempre hanno fatto plauso, affermando, che è scuola da reggere il paragone con altre, le quali io non voglio rammentare. E a buon diritto fu commendata eziandio la Scuola di Architettura; e il Cittadino liberale16, che le dà vita dell'uniche sue sostanze, accolga, se vuole, anche il voto della nostra stima verace. La Società Medica, non so per quali ragioni, e se non altro per l'incostanza decretata alle cose umane, stette presso a disciogliersi; poi, mediante alcuni provvedimenti usati per tempo, si strinse di nuovo, ed ora procede con più vigore di prima, ond'è che le va il doppio di lode. La Scuola poi di Disegno figurativo non è sovvenuta, come dice il Missirini; bensì doveva essere; e la generosità municipale aveva già destinato il soccorso, ma un altro consiglio dispose altrimenti, e bisognò non farne nulla. Tuttavia quei Signori hanno dimostrata buona intenzione, e ogni volta che si presenti da fare del bene è da sperarsi che andranno avanti, a meno che taluno non venga a dir loro, che tornino indietro.
Che dirò io dell'illustre Accademia Labronica, intesa allo studio della lingua, allo esercizio del Genio, e all'acquisto del sapere?
Imprese belle son queste, ma gli accademici presentemente, forse per avere altro che fare, non ci hanno gran cosa badato; nonostante promettono di farlo quanto prima; e già da mattina a sera pensano a diventare il rovescio di quel che furono, e tu li potresti vedere tutti in faccende a costituire un corpo di leggi, perchè l'Accademia si trasformi in adunanza di gente che pensa, e non di gente che fa rumore; e so di certo, che hanno fatto giuramento di lasciare a casa i sonetti, e quante altre mai cianciafruscole in prosa e in rima inventò l'ozio, e la povertà del cervello; ma invece si affibbieranno la giornea a ragionare sul sodo; e quando non avranno da ragionare sul sodo, piuttosto staranno cheti, perchè, se l'uomo parla a motivo che le parole non costano nulla, il silenzio costa anche meno17. Questo hanno promesso di fare gli Accademici, ed io quasi quasi malleverei, che non vorranno mancare per cosa al mondo, sapendo essi meglio di noi, che la promessa
Agli animi gentili è sacramento;
per dirla così di passaggio con Lodovico Ariosto. E al primo congresso potrebbero quei valentuomini proporre un quesito: – Perchè la verità ami la solitudine, e sia tanto ritrosa di convenire laddove è gran frequenza di mondo; e se ella ebbe mai il breve di accademica, e quante volte in capo a cent'anni lesse la sua diceria? —
Ora è il tempo di venire alla emulazione liberalissima che hanno i Livornesi di regalare le private librerie ad una Biblioteca pubblica. Forse ho la vista corta, ma io della gara ardentissima non vedo nulla; anzi si tace così profondamente di questo progetto, che io dubito forte se ci abbiano mai pensato una volta. Dell'utile ed ornamento che alla città ne verrebbero, io non ho pazienza di trattare, perchè mi par mill'anni di finirla con questo discorso di rimbecco, ma i discreti sel possono vedere senz'altro bisogno. Così radunando in un luogo il sapere dei morti e dei vivi, chi volesse saggiarne tanto o quanto, andrebbe, e con pochi passi sarebbe contento; – oggi ci vogliono invece ricerche lunghe, e scudi, e tante volte non serve. E quì fate pausa, di grazia, un momento, e considerate quanto mai gioverebbero i libri pubblici agli uomini d'ingegno; – certo gioverebbero immensamente, perchè fino alle ricerche gli uomini d'ingegno possono spendere, ma, quanto agli scudi, qui giace nocco; e pare che la Natura gittasse una tal quale antipatia fra l'ingegno e gli scudi, onde avviene, che mai non li trovi insieme, o raramente davvero. Io non so se il dire faccia frutto, perchè allora durerei anche un anno a dire: – statuite la Biblioteca del pubblico; – pure, benchè non mi abbandoni il braccio della speranza, non mi pento di aver mandato fuori queste poche voci senza proposito, attesochè la nostra mente sia predestinata a dipendere ben anche dal minimo soffio. Nondimeno conforto chi sa ragionare per filo e per segno a sviscerare questo argomento secondo il merito, e presentarlo palpabile ai miei concittadini, affinchè si muovano all'opera18; e dove si cominciasse una volta, io stesso volentieri darei subito via i pochissimi libri miei, soprattutto perchè, a dirla schietta, non ho gran fede nè in me, nè in loro. Alle volte odo mormorare, che alcuni padroni di molti libri li vorranno lasciare in punto di morte. Già i savi mi hanno rivelato come questa non sia cosa da andarne tronfio, perchè in punto di morte non ci sono altre strade da prendere, se non quella di lasciar tutto, cominciando dall'anima. E questi tali a parer mio non patiscono abbondanza di senno, e mai non meriteranno il bell'elogio, fatto non so quando ad un ricco generoso. Sentite come dice: Tu non aspettasti a spogliare la tua veste in pro del bisognoso, quando la Natura ti copriva di una veste che non deve lasciarti più mai. Così cantava Aboutthayp Ahemed Ben-Alhosain Alucotennabby, poeta Arabo, in una elegia per la morte di un Fatik Egiziano. E, perchè io non voglio farmi bello delle penne altrui, sappiate, che la citazione l'ho tolta in prestito da un amico mio dolce.
Che diremo di un Giornale diretto a far rivivere, ec.
Quì la fantasia ha vinto la mano all'onesto Missirini; la dose è troppa carica, e noi non l'accettiamo, per timore che i fumi non ci salgano al capo. L'Indicatore Livornese non è l'effetto di menti combinate a dargli un disegno, una tendenza, un alimento continuo, come si converrebbe; è un povero foglio bianco, annerito da pochi giovani qua e là dispersi, i quali alla meglio si schermiscono, e cercano mantenergli la vita; ma poco è il numero, poco l'ingegno, poco la dottrina; – hanno la buona volontà, ma questa così sola non è cibo, che lusinghi il palato di molti. E qui cadrebbe in acconcio, che la crescente gioventù, animata di poetica inspirazione, adoprasse l'estro un po' meglio, e desse spinta alla barca: altrimenti ho gran paura non si rimanga in secco. Questo povero foglio non cerca frasche d'alloro; chiede solo compatimento, e gli uomini di giudizio son certo che gliel daranno. Ma gli uomini di giudizio tu li puoi contare, e gran mercè se per ogni paese oltrepassi contando le dieci dita. La turba ride del povero foglio, e a ridere ci vuol poco; e cominciando dalle femmine, e terminando nei pazzi, tutto il mondo sa ridere. Ma questo dileggio, sia pur meritato, non invoglia punto a pensar bene dell'umana natura, segnatamente quando egli si parte da persone obbligate a fare il contrario, non foss'altro, perchè il cielo medesimo ci ha veduto nascere. Che se poi l'uomo vuole il freno libero alle sue matte libidini, bene sta; ma allora non faccia mal viso, se gli austeri intelletti si levano sul creato a maledire; e non occorre che egli venga fuori a giurare, che l'anima sua è un raggio delle stelle; nè come il saltimbanco s'empia la bocca delle magnifiche parolone – lumi, civiltà, filantropia; – no, non è maschera, che basti all'infamia; invece si rassegni, e confessi d'essere iniquo e ignorante, come erano i padri suoi. Ma ritorniamo a noi. Questo povero foglio non può competer con tanti altri giornali, che vanno per la maggiore: in quelli scrive il popolone dei letterati a tre code, e per lo meno vincono col numero delle pagine. È un povero foglio, che merita la scomunica, perchè non ha detto agl'Italiani: – rimanetevi fermi sul solco, che avete segnato finora. – No, non ha parlato così agl'Italiani, avvisando, che a starsi per terra non bisognino nè maestri, nè scienze. È un povero foglio, che merita la scomunica, perchè finora non ha messo il dente nella lama di nessuno, nè sa di cortigiano, o di troppo devoto ai patriarchi in materia di Lettere, e qualche volta ha gridato agl'Italiani: – Sorgete all'onore, amate una patria, e siate finalmente fratelli, e forti dell'anima. – È un povero foglio, ve lo ripeto; compatitelo, se potete.