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Kitabı oku: «Scritti editi e postumi», sayfa 11

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ESEMPIO DI CARITÀ

– 182919

Hic pietatis honos.

Virgilius.

Nè sempre curva sulla sua polvere la razza nostra, come tacito armento, si travolge nella morte. E vi sono momenti, nei quali la ventura assente benigna, che l'umana famiglia armonizzi tutta d'amore, e l'anima allora veste forme d'insolita vaghezza, e il pensiere concede a stimarla splendida parte del cielo. Ma in un popolo caduto, dove l'educazione e l'esempio non ammaestrano a verecondo costume e a sentimento generoso, quando la compassione e l'amore fanno che l'uomo armonizzi coll'uomo, il caso tien del prodigio, e tu respiri largamente l'aure della speranza, e una voce segreta ti annunzia, che pure un giorno quegli uomini saranno uomini secondo il decreto della Natura, non già come gli stringe ad essere la violenza di maligne vicende. E segnare sulla memoria i momenti, nei quali l'anima scintillò del suo raggio più bello, è argomento di decoro allo spirito umano; – e laddove le Lettere sono sentiero di civiltà, ed immagine solenne del moto sociale, non lasciano perdere avvenimento, che di un fiato accresca lo scarso patrimonio della nostre virtù; – ed è caro a chi medita sugli eventi mortali sottrarre una pagina alla severa necessità del delitto e della sventura; – e così danno alla Morale ben altra consistenza, che non è quella delle nude massime; e così anche la capanna del povero suonò spesso di una lode divina, ricompensa alla maggior dote di affanni, che dalla Provvidenza gli venne in retaggio. Ma i Letterati Italiani, tranne ben pochi, finora scrivevano devoti all'Egoismo, come se non avessero una patria, dove tutte spendere le potenze dell'ingegno. E sì che una patria sospinta in fondo chiedeva loro la parola della sapienza, e del vero, e sapevano come la fama dell'individuo mal si regga senza i voti del popolo, e come i voti del popolo mal si conseguano senza consacrargli la mente. – Mancavano i fatti? – No, perchè viveva una gente, e la gente d'Italia ebbe sempre fibra sensibile, e velocissimo corso di sangue, e ardore di passioni; nè da altre sorgenti scende mai l'atto turpe o magnanimo.

Io dunque racconto un fatto che non vorrà levar grido, ma è buono. Se questa poi fosse tal condizione da non raccomandarlo abbastanza, peggio per chi mena gran vanto d'essere un uomo. Coloro che sono gentili non disdegnino l'apparente umiltà del subbietto: – educheremo noi allora soltanto alla forza, che fa piangere?

Molti giorni non sono passati che nel contado della città nostra occorsero di vari incendi, e donde il fuoco partisse rimane peranche ignoto, e le cause vengono annoverate diverse, secondo l'indole di chi ne discorre. Altri ne addebita la vendetta, altri una malignità senza scopo, e taluno mormora che il fuoco fosse appiccato per commissione di tali, che assicurano dal fuoco, onde maggior importanza prendesse quella nuova speculazione di guadagno. Un vecchio mi diceva una volta: – a pensar bene ci è sempre tempo, e a pensar male ci s'indovina. – L'avviso forse era vero, ma poco umano. Certo ogni testa è capace di portare un delitto, ma quando non puoi sapere sopra qual testa il delitto si posi, tu non hai ragione da far l'indovino, e carità comanda che del prossimo allora non si pensi nè bene, nè male. E noi per trarci d'intrigo questa volta diamone al caso la taccia. Il caso non teme offesa di riputazione, o rigore di giudice; e al pari della vendetta, della stolta malignanza, e dell'interesse, comprende la ragione sufficiente di un incendio. Ora, per dire appunto la cosa come l'andò, vo' farvi sapere come da prima bruciassero in due o tre fiate diverse cataste di legno all'uomo ricco, e il popolo sempre correva prontissimo a spegnere; ma null'altro seguiva che spegnere; voglio dire, che belle passioni non si mossero a far memorabili, come sovente avviene, siffatte venture. E tante volte vivono uomini, che non meritano nè anche la pochezza del compianto, e all'occasione si vede; ma poi bisogna pur dire, che la disgrazia dell'uomo ricco è indifferente al povero, o grata forse, perchè l'ineguaglianza genera invidia; e io, ravvolgendomi in questi casi tra le umili turbe, spesso ho inteso celebrare il senno della Fortuna, quasi che, affliggendo ella d'improvviso il felice, in certa guisa renda loro giustizia. Se poi da queste, e da altre simili esposizioni, torto venga o diritto alla nostra natura, io nol saprei così su due piedi diffinire; nè vorrei farmi così di fretta ministro di lode o di biasimo, finchè non avessi per ogni parte saputo se le nostre umanità sieno l'effetto del volere o della forza. Ma tutto questo sia per non detto, – e, seguitando, sappiate che non andò gran tempo, e una sera incendiavano l'unico pagliaio di un tal Canaccini. Questi era povero assai, e manteneva colle fatiche la vita. E la gente corse affannata, e faceva di tutto per impedire l'incendio, ma il fuoco aveva ormai preso in maniera, che più non curava gli argomenti dì chi cercasse sopirlo, tanto che finalmente del pagliaio non avanzavano che le ceneri. E il Canaccini piangeva, perchè era povero assai, e nel pagliaio consumato svaniva il frutto degli stenti di un anno. E gli mancava la speranza, e il suo dolore era grande, perchè accoglieva anche il dolore di una famiglia desolata. Era vicino del Canaccini un uomo nominato il Pannocchia, uno di quei pochi che si rallegrano alla tua allegrezza, e si contristano al tuo gemito, e il mondo tutto vorrebbero felice, perchè hanno la bontà nel sangue, e benedicono il sereno e la tempesta, nè un pensier nero passerebbe loro per l'anima, neppure a cacciarvelo a spinte. Era il Pannocchia accorso coll'altra gente a spegnere il fuoco, ma, come sapete, fu invano. Gli astanti consolavano di buone parole il Canaccini, ma il conforto della voce non accheta il bisogno. E il Pannocchia vide piangere un uomo, e le sue viscere più non potevano chiudere la soverchia pietà, e disse al Canaccini: – datti pace: io vo' riparare alla tua cattiva fortuna, e avrai da capo un altro pagliaio. – E il Canaccini allora piangeva di un altro pianto: – erano le lacrime della riconoscenza, e ringraziavano con più amore, che i detti non avrebbero fatto. E gli astanti acclamavano benedicendo all'onesto Pannocchia, e pregandogli riposati i giorni della vecchiaia, ed eterno il premio dell'altra vita. E il Pannocchia tornossene a casa ringiovanito nella gioia dell'opera buona. Le cose nostre riandavano sul passo di prima, e la gente cominciava a dimenticare il passato, perchè da parecchi giorni niente di nuovo turbava la sua quiete ordinaria, allorchè nel mezzo di una notte i quattro pagliai del Pannocchia andarono in fiamme. E bisognò lasciar fare alle fiamme, perchè ogni studio del volerle spegnere tornò inutile. Ora all'uomo dabbene non rimaneva che la provvidenza di Dio, e non chiedeva nulla a nessuno. Ma gl'innocenti e giocondi suoi costumi avevano un luogo nell'amore di chiunque il conosceva, e l'azione, che ebbe fatta di fresco, aveva risuscitato più vivo quell'amore. Per lo che alla mattina dipoi ebbe invito da molti, perchè andasse da loro a provvedersi di paglia conforme gli bisognava, e molti gliene recavano a casa le carra piene. E il Pannocchia vinto dal prorompere di tanto comune affetto, guardava il cielo, e gli amici, e non diceva di più. E quei ben nati contadini compievano con sì bella gara la carità, che al Pannocchia venne rifatto ogni danno, ed essi trovarono un rimerito nell'interno riposo del cuore, che altrove avrebbero indarno sperato. E coloro che ebbero in sorte di non nascere al ribrezzo dell'invidia, nè si addolorano a sapere, che l'anima talvolta balena nella beltà di un sorriso divino, quando intesero del fatto, restarono compunti di tenerezza.

Non mancherà di certo chi volga in riso l'avvenimento, e il mal garbo onde io l'ho narrato. Quanto al mal garbo hanno ragione, e ridano pure a mio conto, ma per altro non è così del rimanente. Niuna specie di fatti merita tenersi a vile: ogni fatto è una linea dell'anima umana, e ritrarli tutti candidamente è ottimo consiglio, ed unico mezzo a conoscere la natura dell'uomo. Tacere le nequizie sarebbe stoltezza, perchè ci sono, e fanno il fondo del quadro; tacere le poche bontà sarebbe stoltezza e mal talento, perchè ci sono, e consolano di qualche raggio la tenebra, e per loro avviene, che l'umana creazione non sorge da ogni lato spregevole dinnanzi al pensiere. Chi si muove al bene per istinto è rarissimo; quindi va tentato ogni modo di eccitamento. Io non so se il mondo debbe andare come va; ad ogni patto nè la speranza, nè la prova di migliorarci, vanno lasciate; e quantunque il male sia congiunto come un bisogno al sistema dell'universo nondimeno converrebbe dimostrare il bene come interesse, da che nel male godono pochi astuti, e le masse gemono. Adunque ogni modo di eccitamento va tentato; e però onorare di pubblica lode le domestiche virtù è opera di sapienza civile, perchè l'onore è potente lusinga, e splende in maniera, che pochi vivono senza mandare un desiderio alla sua luce.

NECROLOGIE

TACITO MARTINI

– 183920
A TACITO MARTINI
CHE MORÌ
LACRIMATO E BENEDETTO DA TUTTI
PERCHÈ VISSE
GIUSTO E BENEFICO CITTADINO
I SUOI AMICI
Le coeur est tout.
Rousseau.

Dopo avere confortata l'agonia dell'amico che muore, dopo averlo pianto, e accompagnato alla fossa, è conveniente dire alcune parole di lui, onde la ricordanza delle sue bontà giovi in qualche modo ai superstiti, o almeno sia soddisfatto un debito di giustizia verso l'estinto.

Nascere in alto, o in mezzo agli agi della fortuna, è un getto di dadi, e non dipende da noi. Ma rilevarsi dal fondo, e collocarsi in un certo grado senza battere le scorciatoie, senza farsi scalino del prossimo per salire, acquistandosi invece la stima, e la benevolenza d'ognuno, è merito intrinseco e raro dell'uomo. Toccare però questo segno è arduo più, che altri non crede; bisogna prima lungamente combattere; bisogna esercitare, fortificare la volontà, metterla in armonia coi calcoli di una giusta ragione, coi moti generosi del cuore; bisogna spesso violare l'istinto, e ridurre l'uomo morale a sistema rigido e completo.

Tutto questo conviene per ogni verso a Tacito Martini. La sua vita è stata corta, e composta di poche linee, ma tutte linee rette, e convergenti ad un centro, tutte connesse ad un principio d'alta moralità, che diede forma e sostanza ad ogni sua azione.

Non appena fu entrato nell'adolescenza, quando il raziocinio e il sentimento svolgendosi più rapidi cominciano a ricevere più immediato l'attrito delle cose del mondo, che, giovanetto com'era, sentì d'intorno a sè l'aere meno che tepido; e convertendo subito l'animo suo alle sorti poco felici della famiglia, si destò in lui una certa alterezza, un certo sdegno dello stato abietto, e immeritato, un desiderio, un bisogno potentissimo di mutare il destino suo, e quello de' suoi, e fermò nella mente il disegno di farlo, e lo fece, logorandovi tutte le sue potenze, e anticipandosi forse la morte. Avvertito però da un intimo senso, che l'uomo, segnatamente sui principii, non ha in chi fidare, e deve aiutarsi da sè, si volse a scoprire le forze, che in lui aveva riposte la natura, per eccitarle ed accrescerle, per dar loro forma, ed applicazione sociale, e farsene istrumento a ciò che meditava di conseguire.

In questo concetto agitandosi, e crescendo in lui più sempre l'impulso che lo inchinava alle scienze mediche, e soprattutto alla chirurgia, dispose secondarlo fermamente e con ogni mezzo, e non compiuti peranche i 13 anni prese a frequentare ogni giorno lo Spedale, dove cominciò le pratiche chirurgiche con tanta diligenza e amore dell'arte, che prima ancora di recarsi a Pisa si trovò in atto di fare operazioni più che mediocri.

A 18 anni si condusse in Pisa agli Studi, e là le dure esperienze della vita lo provarono in guisa, che valsero in breve a compiere e determinare immutabile la sua morale fisonomia. Visse i primi due anni con forse una Lira il giorno; e al terzo anno ottenuto un posto del Sardi, sgravò subito i suoi della tenue moneta che gli assegnavano, pensò a mantenersi in tutto e per tutto, a comprarsi libri, a supplire le spese degli esami, e d'ogni altro occorrevole; fece risparmi, e questi rimesse via via alla famiglia. – Ora chi si faccia a considerare come la gioventù penda naturalmente all'ozio, alle mollezze, e ai diporti; come in quell'età il sangue e le passioni fremano procellose, e come l'errore abbia prestigi, e seduzioni potenti più del dovere, bisognerà che ammiri per forza il giovane Tacito, se rimase sobrio, intemerato e studioso, in mezzo a tante e siffatte tentazioni. E quando si consideri che l'alito impuro del bisogno non l'attinse nelle parti più nobili dell'anima, e che il cuore serbò fresco e generoso fino all'estremo palpito, comprenderemo di che salda tempra fosse composta l'indole sua. Perchè il bisogno è nemico capitale dei buoni pensieri, e delle buone opere, e patito nei primordi della vita generalmente squaglia il carattere umano, o lo petrifica.

Se noi volessimo spiegare intera la breve, ma ricca trama dell'esistenza di Tacito, ci sarebbe agevole percorrere per esteso le dimensioni d'un elogio, o d'una biografia; ma favellando di lui fu nostro proposito, e ci sembrò che bastasse, accennare soltanto, come egli fosse buono ed utile cittadino per virtù propria, e come il mezzo e il fine corrispondessero perfettamente al principio da lui stabilito nelle più difficili condizioni; per la qual cosa aggiungeremo più pochi tratti, parendoci, che il dilungarci troppo di soverchio avrebbe aria di fasto, e offenderebbe di certo quello spirito gentile, che gelosamente studiò di coprire col silenzio quanto di lodevole usciva da lui.

Conseguite il Martini nell'epoche consuete la laurea, e la matricola in Medicina e in Chirurgia, tornò in patria, e subito diede opera a farsi conoscere. E tanto gli valsero lo studio indefesso, i modi schietti e soavi, e l'onesto desiderio, che l'agitava ardentissimo, che di lì a poco acquistò credito, fiducia, e favore universale. Venne in séguito creato Chirurgo dei Lazzeretti, e primo Chirurgo di turno negli Spedali; ebbe clientela vastissima d'ogni maniera di persone, e i guadagni gli crebbero fra mano, maggiori forse che non aveva sperato. Quindi potè ristorare la fortuna abbattuta della famiglia, quindi potè scorrere a suo talento quella larga vena di carità, che i cieli gli avevano infusa nel cuore.

Praticò l'arte con plauso, e con decoro, e segnatamente in Chirurgia ebbe lode frequente di operatore felice. Ma il medico in lui non aveva cancellato l'uomo; l'abitudine di veder soffrire e morire non aveva spenta in lui la mobilissima sensibilità di una natura squisitamente pietosa. Al letto dell'infermo era medico, ed uomo; finchè occorreva, apprestava alacremente i soccorsi dell'arte; ma quando la Scienza si fermava impotente davanti alla furia del male, che precipitava al suo fine, Tacito adoprava i soccorsi della parola e dello spirito, circondava di cure delicate e di sante consolazioni il malato, l'animava, l'aiutava al terribile varco. Ufficio sacro e gravissimo del medico è questo, porgere all'estrema miseria l'unico rimedio che resta, il conforto.

Non fu nè avido, nè avaro; eccedeva invece nelle qualità contrarie. Chiamato appena, visitava prontissimo il povero, con amore lo curava, lo sovveniva di consiglio, e, meglio ancora, gli lasciava la moneta perchè supplisse al bisogno. Dagli amici non voleva mercede delle sue fatiche, ed ostinatamente rifiutò il legato d'un piano di casa, che un suo cliente presso al morire voleva ad ogni patto lasciargli.

Ma le opere di beneficenza furono la sua voluttà suprema, il respiro dell'anima sua. Beneficò nobilmente e senza ambizione, con quel pudore, che impedisce o medica l'offesa, che suole spesso recare il benefizio. Aperse al profugo la casa, all'indigente la borsa, e dava volontieri, senza farsi ripetere la richiesta. Giovava con ogni sorta d'uffici l'amico, e chiunque potendo. Assisteva molti dei suoi parenti largamente, continuamente; e mortagli una sorella, accoglieva nella propria famiglia il marito, e cinque figliuoli. Per uno di questi spendeva 80 Lire il mese solo a farlo educare. Senza essersi creato una famiglia sua propria, aveva viscere e istinto di padre.

Nè gli mancarono i disinganni, come avviene a chi vive praticamente tra gli uomini; ma intento sempre ad un segno non torse mai un momento dalla traccia segnata ab antico; la fede non gli venne mai meno, perchè sapeva distinguere tra l'umanità, e l'individuo, tra il principio eterno universale, e il fatto transitorio e parziale.

Amò gli uomini, e la Patria Italiana, e fu caldissimo di quanto riferivasi all'onore e alla gloria di lei. Amò singolarmente la città dove nacque, e non sorse in essa uomo che promettesse bene di sè, cui non cercasse diventare amico, cui non cercasse all'uopo giovare coi mezzi suoi, e con quelli d'altrui, adoperando quella felice influenza che sapeva esercitare sugli animi. Partecipò agli istituti, a tutte le cose utili ed onorevoli, che nacquero tra noi, e non fu per lui se maggiormente non prosperarono.

Fu in quanto a sè modestissimo, e quando faceva il bene non voleva lode, o ringraziamento. Gli piaceva esser buono, le apparenze fastidiva. Ebbe coraggio, e indipendenza d'opinione, qualità, che non gli fecero nemici, perchè sapevasi valere in lui l'amore sincero della verità, non i secondi fini. Rigidissimo nei principi cardinali sui quali posa veramente la morale, fu tollerante, e facile nel resto. Modi ebbe aperti e soavi, onesta ilarità di volto e di spirito, e dal complesso della sua persona partivano getti di vivissima simpatia. Non patì d'invidia, o d'ipocrisia, nè gli furono notati vizi, o difetti capitali. Difetti avrà avuto senz'altro, perchè il carattere umano consiste d'ombre e di lumi, ma leggerissimi, ma tali, che nel consorzio sociale non apparivano infesti, e male di certo non ne venne a nessuno. Fatto è che morì lodato dai buoni, e lodato dai cattivi, e i morti come sapete non si adulano, specialmente quando non si lasciano dietro lo splendore della gloria, o la famiglia potente. Ma questo è pregio veramente mirabile della bontà, svellere il plauso anche dalla bocca dei tristi.

E la bontà di Tacito faceva forza nella mente di chiunque la contemplava. Non era quella bontà facile, passiva, o volgare, che invade i confini della stupidezza, – più che altro necessità di organismo. Era la bontà intelligente e operosa, la bontà del libero arbitrio, perchè Tacito aveva anima, passioni, ed energia di temperamento, aveva strumenti da volgere al bene, o al male volendo.

La malattia, che da ultimo lo spense, gli si ordiva da gran tempo lentissima nelle viscere. E quando i sintomi di quella si rivelarono insistenti, e innegabili, non si trattenne in vane lusinghe, misurò la grandezza del pericolo, comprese che i suoi giorni erano numerati, e lo disse imperterrito a tutti, e a sè stesso. Accettò il calice amaro della passione, e lo bevve pacatamente fino all'ultima stilla, raccogliendo l'animo invece, e facendolo più grande alla minacciante sciagura. E consecrandosi più che mai a quell'idea che l'aveva sempre predominato, non ricusò fatica nè occasione, andava fuori visibilmente malato, non curava riposo, non cercava aggiungere un filo alla trama della sua povera esistenza; una furia, un impeto lo portava; faceva sforzi che mal si potrebbero spiegare, dove non sapessimo che la volontà umana eccitata da un alto proponimento può far miracoli. Ma se lo spirito era pronto, la carne era inferma; e le forze più e più sempre prostrandosi gli convenne in fine mettersi a letto, e morire.

Gli ultimi giorni di Tacito furono solenni, e quieti della pace del giusto. Disposte con senno ed equità le cose sue, aspettava placidamente la morte e l'invocava talvolta più che altro per togliere alla famiglia desolata uno spettacolo d'immenso dolore. Era, come da sano, affabile e cortese con gli amici, che lo circondavano numerosi; era provido, discreto, e amoroso co' suoi, che gli trepidarono attorno; dissimulava gli spasimi atrocissimi, e ratteneva lo sfogo della soffrente natura, perchè non si attristassero maggiormente. Cosa mesta e dignitosa era a vederlo così morire senza orgoglio, e senza viltà. Non si smentì un istante, parlò sempre parole gravi e affettuose, riconciliò antichi dissapori, pensò a tutto, e a tutti; – in quegli estremi la sua anima fiammeggiava più lucida che mai. E poichè l'ostinata agonia pervenne al suo termine fatale, morì virilmente rassegnato, sicuro della sua buona coscienza, affidato d'una speranza immortale.

Così fu conchiusa troppo per tempo una vita utile ed onorata. Povero Tacito! quando noi rammentiamo la tua presenza, e il tuo spirito cortese, e vediamo il rammarico, che lasciasti di te universale, e pensiamo all'angoscia ineffabile della madre tua destinata di 72 anni a sotterrare il figlio a lei più diletto, una profonda pietà ci stringe del caso miserevole; ma se pensiamo poi alle ambagi tormentose del secolo, e alle illusioni che di giorno in giorno spariscono, e alle cure che più e più sempre si addensano, e alla vecchiezza, che si avanza fredda, squallida, e inutile, noi non osiamo più mormorare, se a Dio piacque recidere il fiore prima che appassisse. Riposa in pace. A quest'ora nessuno saprebbe dove venire a piangere sulle tue ceneri, perchè tu non volesti distinzione di sepoltura, e le tue ossa giacciono nel Camposanto comune, confuse con quelle del popolo dal quale nascesti. La fama non farà suonare il tuo nome, perchè il mondo non ha storia per le virtù tranquille e innocenti del cittadino da bene. Ma se la tua vita di continuo sacrifizio fu semplice, e inavvertita quasi agli occhi del mondo, speriamo sarà comparsa splendida e meritoria agli occhi dell'Eterno. E quanti schiettamente ti amarono, e ti ebbero in pregio, daranno a te sovente un pensiero e una lacrima, e ridiranno ai figli come vivesti, e come moristi, e la tua memoria resterà, giova crederlo, santa ed onorata tradizione domestica.

19.Dall'Indicatore Livornese, N.º 35.
  Quest'articolo, ommessi pochi periodi in principio ed in fine, fu ristampato, per distribuirne le copie al Popolo di Salviano il 22 di Gennaio di quest'anno, giorno dei Funerali nella Chiesa di quella Pieve, e della tumulazione nel contiguo Cimitero delle spoglie di Carlo Bini esumate a Carrara. Poche e semplici parole, che qui riportiamo, precedevano il Racconto, che in quella circostanza, e in quel luogo, ne parve più opportuno d'ogni funebre elogio. – Il libricciuolo fu poi riprodotto pei tipi di Ersilio Vignozzi in Livorno, e a Firenze nella Rosa di Maggio, Anno III.
†AL POPOLODELLA PIEVE DI S. MARTINOIN SALVIANO  Il Racconto che segue, e che ora si ristampa per Voi, fu scritto nel 1829, da un Giovane Livornese, dotato di un cuore e di un ingegno, che raramente s'incontrano ai nostri tempi. Fu scritto colla buona intenzione di onorare la Virtù e la Carità veramente Cristiana, della quale si videro in quell'anno bellissimi esempi fra Voi. E fra Voi forse nessuno ha letto mai questo Racconto. Il quale fu stampato in quel tempo in un Giornale intitolato L'INDICATORE LIVORNESE, che era fatto principalmente pei Letterati, e che non ebbe lunga vita, quantunque ci avessero mano uomini, che fanno onore al nostro paese.
  Uno di quelli ora è morto. Ed è appunto quel Giovane di cui vi parlava; quel Giovane, che si tratteneva col cuore in festa a discorrere sui bellissimi fatti esposti nel suo Racconto, perchè Egli stesso era virtuoso e buono davvero. Egli non predicava per vanità la Virtù, ma la praticava con retti principii, e con sentimenti di benevolenza sincera e di Carità verso tutti. E in tutti l'amava e la riveriva, e più volentieri nella povera gente, che certuni disprezzano, e la quale Egli era solito di chiamare – ricca di bontà e di pazienza più che altri non crede.
  Carlo Bini, (questo era il suo nome), ora è morto. – Nella città di Carrara, dove era andato per affari di suo Padre, passò da questa a miglior vita il 12 dello scorso Novembre. E le sue ossa, trasportate per un pietoso sentimento d'amore a Livorno, riposeranno ora nella quiete delle vostre campagne, presso quelle dei vostri Parenti, presso la Chiesa ove inalzate al Signore le vostre preghiere.
  Rammentare le nobili azioni e gli uomini onorati e dabbene, per imitarli, è dovere di tutti. La lapida che sarà posta alla memoria di Carlo Bini sia dunque riguardata da Voi come un ricordo d'amore e di Virtù, e onorata con sentimento di gratitudine affettuosa. Leggete questo libretto ai vostri figli, conservatelo religiosamente nelle vostre famiglie, e nelle preghiere pe' vostri Morti rammentatevi ancora di quell'anima buona.
  Livorno, 22 Gennaio 1843.
20.Livorno, Tipografia Sardi, 1839. Seconda edizione, – nella Viola del Pensiero, Anno II.
Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
04 ağustos 2017
Hacim:
360 s. 1 illüstrasyon
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