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Kitabı oku: «Scritti editi e postumi», sayfa 12

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GUGLIELMO AVENAS

– 184221
La vita al fine, e il dì loda la sera.
Petrarca.

Galantuomo e PERSONA DI GARBO sono vocaboli di origine aristocratica, ma in principio non ebbero valore morale, e furono tra i tanti segni, che distinguevano la razza fine dalla ignobile. A quei tempi il vassallo e il popolano non potevano chiamarsi galantuomini, nè persone di garbo; e non è molto riscontrai questo fatto. Un Duca Napoletano narrandomi come in certo luogo fosse stato trattato con leggerissima differenza, e forse al livello degli altri, che non erano Duchi, chiudeva il discorso così: in quel luogo il galantuomo non è rispettato. Io feci atto al Duca come per dirgli: pur troppo! e pensai tra me, che, come uomo di secolo XIX, il Duca era almeno 200 anni addietro, e parlava una lingua morta; ma come Duca de la vieille souche era nel suo elemento, e aveva ragione.

Galantuomo in séguito trasmigrando dall'uso privilegiato di una casta all'uso comune vestì senso diverso, ma sempre assai limitato, e significò, e significa ancora l'Uomo puntuale a pagare.

Oggi però il vocabolo ha fatto la più grande ascensione possibile, e galantuomo s'intende propriamente colui, che senza fasto nè seconde intenzioni adempie tutti i doveri dell'Uomo, e del Cittadino.

Il ritratto d'un galantuomo è più difficile forse d'ogni altro. Voi non avete quasi mai la statura grandiosa, il portamento solenne, le parti angolose, il colorito avventato, ed i contrasti da scuotere i sensi, e la fibra di chi guarda. Invece avete una estrema regolarità di contorni, castigatezza di forme, colori tranquilli, conseguíti per via di gradazioni infinite, e tutte soavi; avete un perfetto equilibrio di quantità, e di qualità; avete ogni cosa al suo posto, avete l'ordine morale nella sua più semplice e più giusta espressione.

In somma voi non potete farne una figura di spolvero. – Già un galantuomo non trova mai il vento fresco della fortuna, che lo porti per aria, e fornisce a piedi il suo terrestre pellegrinaggio; e così non avendo un cocchiere, che gridi in pubblico – bada alla vita, – nessuno si volta a vederlo, nessuno conosce il suo nome, nè dove stia di casa. È provato, che una pariglia di buoni cavalli si fa largo, e attira gli sguardi meglio di una pariglia di buone azioni.

Un galantuomo non può mai ferir dritto allo scopo, perchè ha sempre delle distrazioni col pudore, e colla coscienza. – Un galantuomo generalmente ha disgrazia al giuoco, e in amore.

Un galantuomo facendo e dicendo cose, che i più non fanno, e non dicono, offende la moda, e la moda lo consegna al braccio del ridicolo.

Quindi a fare il galantuomo ci vuol coraggio, e pazienza. Ma la maggiore difficoltà per farne il ritratto è che se ne vede di rado l'Originale, e così, mancando l'occasione frequente di copiare dal vero, non è dato acquistare quella franchezza e valentia, che l'eccellenza dell'Arte richiede.

Noi pertanto atterriti da tanti ostacoli disegneremo alla meglio un profilo.

Dovendo fare l'inventario delle parti, che compongono un galantuomo, la prima di tutte a presentarsi è la fisonomia, parte essenziale, che merita studio e considerazione. La fisonomia, è il prodotto dell'uomo interiore, – lo spirito modella la materia. Scrutate chiunque con occhio diligente e inflessibile, e dopo più o meno prove avrete resultati quasi infallibili, penetrerete la maschera la più ingegnosa, la meglio incarnata e immedesimata col volto umano. Questa scienza, che val quanto un'altra, perchè consiste tutta di osservazioni e di confronti, è stata chiamata vana e temeraria come l'astrologia. Ma gli uomini talvolta sanno pur troppo quel che si dicono; – gli uomini la più parte hanno interesse a non essere indagati.

Quì nel caso nostro la facciata era di buono stile.

Dopo avere attentamente esaminata quella testa di parti larghe e virili, l'effetto dell'insieme era un senso di conforto, come quello che tu provi incontrando una giornata tepida e luminosa nel verno. A veder quella testa uno si sentiva invitato a metter giù le armi, che l'uomo è solito portare viaggio facendo in questo mondo; uno sentiva le dolcezze inconsuete della sicurezza, dell'abbandono e del riposo.

La facciata era di buono stile, e l'interno corrispondeva in ogni sua proporzione; e per amore di brevità dirò, che i molti e svariati lineamenti dell'animo suo si riassumevano finalmente in due tratti, o potenze, che sporgevano eminenti, e gli davano espressione distinta. Egli ebbe queste due potenze dalla Natura, e le corresse e ritemprò alla scuola dell'esperienza, la quale i buoni rende migliori, e i cattivi maggiormente intristisce.

Una era la potenza di sopportare, e l'altra quella di compatire; due virtù uniche forse ad aver titolo legittimo a tanto nome, e certamente indispensabili nel consorzio sociale; poichè sopportare in sè stesso con dignità le traversie e le amarezze, onde si riempie la vita, è segno di forza; e compatire, non in senso sterile e inerte, ma in senso attivo e benefico, compatire gli errori, le colpe, e le sventure nel prossimo, è segno di amore, e ambedue sono i cardini sui quali gira l'umana bontà.

In somma a veder quella testa non si poteva sbagliare, e quella fronte pensierosa, ma di pensieri sereni, non gridava – addietro, – come quasi tutte gridano, ma portava scritto a caratteri scintillanti – entrate. –

Chi ha sofferto veramente di cuore, e ha provato come il mondo abbia le mani troppo ruvide, anche quando intende di medicare, colui solo sa quanto faccia buono trovare un asilo siffatto, quando l'anima è smarrita dal dubbio, o lacerata dal dolore, o assiderata dal bisogno.

E il dubbio, e il dolore, e il bisogno, trovarono in Lui onesta accoglienza, e sollievo pronto, e cordiale.

Il povero segnatamente andava a colpo sicuro, nè riportava indietro il – non ne ho spiccioli, o l' – andate a lavorare, – monete di conio moderno, ma di lega inferiore assai all'antico – Dio vi consoli, – perchè questo almeno conteneva un'ombra d'affetto, e se non dava nulla alla bocca, dava qualche cosa al cuore, e il cuore anch'esso ha bisogno di qualche cosa.

Ma prendiamo il punto di luce più giusto, – vediamo l'uomo in azione.

Egli fu Negoziante. La parola Negoziante tiene un piccolo spazio, ma in quello spazio entra una folla di cose infinite a ridirsi. Negoziante è colui che traffica la roba sua, e l'altrui, ma più spesso quest'ultima sola. Passare per la roba degli altri è uno stretto pericoloso, e non farvi naufragio o avaria è un bel fare. Se tutti nascessimo fasciati d'un bel patrimonio, la parte di galantuomo sarebbe facile, ma non avrebbe merito. Il merito sta nel combattere e vincere, specialmente quando i mezzi della difesa non sono proporzionati a quelli dell'offesa. Già il sistema di proprietà non è passato finora nella mente degli uomini a stato di convinzione, e il tuo e il mio sono così complicati, e confusi tra loro, che spesso ti avviene, anche non volendo, di prendere in iscambio l'uno per l'altro. Oltre di che voi avete dalla vostra la coscienza sola, la quale non istà sempre bene di voce, ma come può bada a suggerirvi – non rubate, – mentre dalla parte avversa avete il bisogno, l'istinto, l'occasione, e le mani. Il bisogno è bestia, che non intende ragione; l'istinto disgraziatamente porta per in giù; quello che faccia l'occasione, ve lo dica il proverbio, che corre per la bocca d'ognuno; e le mani, guardate la struttura delle mani, e le vedrete flessibilissime configurarsi a gancio ogni momento, e le vedrete create destinate apposta a prendere tutte le cose, inclusive il fuoco.

Facciamo alto un minuto, o Signori. Un Negoziante che per 76 anni è rimasto fermo sul suo è una parentesi nella storia del Commercio, – è il re dei galantuomini, – e merita una corona di punti ammirativi.

E torniamo a vedere l'uomo in azione. Un padre e una madre morivano, e lasciavano a Lui, all'Amico, quattro figli di tenerissima età, destinandolo tutore. Oggimai il progresso e le leggi hanno provveduto in guisa, che se un pupillo ha qualche cosa nell'uscire di minorità la ritrova, e un tutore di garbo oggi, basta volerlo, si trova dappertutto, e subito; – è un vestito bell'e fatto.

Ma quarant'anni addietro il tutore nasceva sotto il pianeta di Saturno; e un tutore che non divorasse i suoi pupilli era una cosa inaudita, un mostro, una cosa da farsi vedere.

Egli amministrava pertanto severamente, e restituiva ai pupilli un patrimonio accresciuto.

Ma la bontà profonda dell'indole sua operò in Lui quello, che la Natura non può consentire se non per miracolo; quello, che un padre e una madre morendo non osavano, nè potevano sperare, cioè, che l'amico e il tutore si convertissero sostanzialmente in Padre affettuoso, e continuo. E fatto Padre non pensò solamente alla roba, e alla educazione ordinaria degli orfani, ma accolse questi figli dell'anima sua, e li difese, e li diresse a princìpi sani, e a vita onorata, ammaestrandoli coll'insegnamento efficacissimo dell'esempio, e diffuse sulla loro giovane esistenza le cure, e il tepore, che i padri e le madri diffondono sulla prole. E così quegli Orfani non sentirono l'aria fredda dell'indifferenza, ed Egli provò le gioie e gli affanni della paternità.

Io l'ho veduto non è gran tempo questo vecchio venerabile nella morte d'uno dei suoi pupilli, – ho veduto il suo dolore, dolore senza lacrime, e senza parole, – che di quando in quando alzava gli occhi al cielo, – unico appello e refugio delle anime afflitte profondamente.

E cosa merita un uomo siffatto? l'uomo, che per i figli non suoi ha saputo sublimare il cuore, e crearvi dentro l'intelligenza, l'amore, e il dolore di padre? – Il premio vero della virtù è in un mondo migliore, e intanto un uomo siffatto tra noi merita una corona dei più bei fiori, che germoglino sulla terra, – una corona di benedizioni.

Egli ebbe nome GUGLIELMO AVENAS. Nacque in Nizza, e visse lungamente in Livorno, dove morì il 21 Gennaio 1842. Morì come muoiono i giusti, senza terrori, e senza rammarichi, colla coscienza sicura del fatto suo, e coll'anima verso Dio.

I Fratelli Pachò mossero queste poche parole per onorare la memoria del tutore dilettissimo, e soddisfare in parte all'amore, alla riconoscenza, e al desiderio, che di sè ha lasciato vivissimo quest'uomo dabbene.

Voi tutti poi pregate per lui, onde egli preghi per noi in quel luogo dov'è un Giudice solo, una legge sola, e una verità sola, dove non è anticamera, che trattenga, o disperda le suppliche dei poveri mortali.

ISCRIZIONI E POESIA

I

LA SERA DEL IV GENNAIO MDCCCXXXVIII
ELENA BISCARDI
ADDORMENTANDOSI NEL SIGNORE
COMPIEVA IL DESTINO ASSEGNATO
A CHI NASCE CON TROPPO CUORE
DI AMARE SOFFRIRE E MORIRE IMMATURAMENTE
BENEDITE LA SUA MEMORIA
E QUELL'ANIMA SOAVISSIMA
INTERCEDA DA DIO
ALMENO LA PAZIENZA
AL DOLORE DISPERATO DEI SUOI

II

MORTA LA NOTTE DEL IX DECEMBRE MDCCCXXXVIII
QUI FINALMENTE RIPOSA
ADELE PERFETTI NATA DEWIT
EBBE
INDOLE SCHIETTA AFFETTUOSA
CUORE GENTILE MELANCONICO
VITA BREVE INFELICE
E SPIRÒ GEMENDO DI ABBANDONARE
APPENA NATA LA SUA FIGLIUOLETTA
IL MARITO I FRATELLI E LA MADRE QUASI MORIENTE
CON MOLTE LACRIME
QUESTA MEMORIA DI AMORE E DI DOLORE
PONEVANO

III

INGEGNO ARGUTO MOLTIPLICE
BONTÀ SINCERA DI CUORE
POTENZA GENEROSA DI AFFETTI
MODI GRATI SOAVI
E IL SORRISO DELLA FORTUNA
TUTTO FU POLVERE
LA NOTTE DEL XX GENNAIO MDCCCXXXIX
MENTRE PIÙ BELLI GLI GERMOGLIAVANO I FIORI
DELLA VITA E DELLA SPERANZA
GIOVANNI PALLI ERA IL NOME
E NON COMPIÈ VENTOTTO ANNI
UN PENSIERE E UNA LAGRIMA
DATE AL SEPOLCRO DELL'UOMO
CHE MORENDO LASCIAVA
AI PARENTI AGLI AMICI
UNA SANTA EREDITÀ
DI AMORE E DI DOLORE

IV

QUI GIACE UNA POVERA MADRE
DOROTEA PALLI
CHE PIANGENDO SEMPRE IL SUO PERDUTO EUGENIO
E PER VENTURA IGNORANDO LA MORTE
DELL'ALTRO SUO DILETTO GIOVANNI
SPIRATO UN MESE PRIMA DI LEI
MORIVA IL XX FEBBRAIO MDCCCXXXIX
CONSUMATA LENTAMENTE DA UN DOLOR SOLO
CHE DURÒ TRE ANNI
COMMISERANDO IL CASO FATALE
CHE IN SÌ BREVE TEMPO
RICONGIUNSE IN QUESTO LUOGO
LE OSSA DELLA MADRE E DEI FIGLI
BENEDITE ALLA LORO MEMORIA
E PREGATE PACE

L'ANNIVERSARIO DELLA NASCITA

– 1833 —
 
Un altr'anno di vita è già spento,
E tremando lo conta il pensiero;
Del passato non resta un momento,
Il futuro è velato di nero;
Il passato è un romore trascorso,
Un ricordo dolente, un rimorso.
 
 
Come nudo sepolcro s'innalza
Nella mente deserta il passato,
Dove il meglio dell'anima incalza
Ogni giorno la spinta del Fato,
Dove tacita giace e sepolta
La Virtù, che fioriva una volta.
 
 
O miei giovani giorni, che invano
Mi passaste sul capo, tornate
Al desio, che vi tende la mano;
La speranza con voi riportate;
La Speranza per l'anima è il Sole,
Quando l'alma caduta si duole.
 
 
O miei giovani giorni, leggieri
Ritornate sull'orme già fatte;
Rinfrescate coi primi pensieri
Queste rughe, che il cuore ha contratte;
Ritornate, o miei giorni ridenti,
E al partirvi movete più lenti.
 
 
Io non vissi, – in un soffio la curva
Divorai della vita dell'alma;
Un destino, un demonio m'incurva
Anzi tempo alla stupida calma
Della tomba; – potente è la voce,
Che una morte m'impone precoce.
 
 
O miei giovani giorni, io dispersi
Un tesoro che Dio non ridona,
Che non può ridonare; – io sommersi
Della vita la gaia corona
Nell'oblio; – questo serto, ch'or piango,
Sparpagliai neghittoso nel fango.
 
 
Io non vissi, e son vecchio: – e qual orma
Nel sentier d'una grande passione
Ho stampato? E di gloria qual forma
Mi sorrise? – e la santa missione
Adempia, che Natura ci grida,
Che il dolore di un secolo affida?
 
 
E il dolore, che cuopre con l'ale
Tutto un secol, me pure percosse;
E il dolore fa grande il mortale;
E se un'alma dal fango si scosse,
Le convenne di farsi più pura
Nel battesimo della sventura.
 
 
E il dolor mi fe' grande? – Mi geme
Da gran tempo un lamento nel petto,
Ma è una tacita stilla; e non freme,
Non prorompe in faville d'affetto,
Non risuona in terribili accenti
Come tromba che scuota i giacenti.
 
 
Ma qual ira fatale riarse
La freschezza dell'alma sì presto?
Perchè il riso sì ratto scomparse?
E perchè sulla fronte un sì mesto
Velo stese la cura sì amara,
Come il manto che cuopre la bara?
 
 
Fanciulletto alla scuola del mondo
Venni; – e il mondo una coppa funesta
Mi accostava alle labbra; – un profondo
Sorso bevvi, – e una morte fu questa: –
Ahi! letale del mondo è la scienza!
È la morte del cuor l'esperienza!
 
 
L'avvoltoio del dubbio mi rose
Ogni fibra vitale, ogni forza;
Mi recise le candide rose
Della speme, e il suo fiato, che ammorza
Ogni tinta più vaga e serena,
Come sangue mi corse ogni vena.
 
 
Io ricinsi d'un funebre velo,
Vel tramato a tristissima scuola,
La magnifica faccia del cielo
Che allo spirito è sì calda parola,
Quando vive lo spirito immerso
Nel calor di un amore universo.
 
 
Io non vidi nel mondo, che un moto
Alternato di vita e di morte;
Un destino di ferro, che ignoto
Tutto stringe in ignote ritorte;
Esclamai: – muore l'alma! – e al desire
Chiusi l'ale, e negai l'avvenire.
 
 
E guatando la Storia, – un volume
Dove scrive col sangue il Delitto,
Dove scorre qual onda in un fiume
Delle schiatte il veloce tragitto, –
Uno spazio guatai di dolore,
Dove geme chi nasce e chi muore.
 
 
E la gloria un'immagine muta
A me parve, – una stella cadente, –
Una voce fra breve perduta
Nell'immenso silenzio del niente:
– A che muoversi? –  io dissi; e mi tacqui,
E in un ozio codardo mi giacqui.
 
 
E rimasi nel vuoto; – e la vita
Mi pesò come un grave martiro;
E se amai, fu passione smarrita
Nel deserto, – un solingo sospiro
Fu l'amor; – nelle tenebre incerto
Brancolai bestemmiando il deserto.
 
 
Ho voluto il deserto, – e di pietra
Mi son fatto un guanciale, – e la fossa
Ho scavato al mio cuor; – nè s'arretra
L'alma omai dal cammin dove ha mossa
L'orma; – indarno la innalzo alle sfere,
Nelle tenebre è morto il pensiere.
 
 
E la Patria? – Una Patria mi resta,
Ma prostrata così, che non spira
Altra vita nel cor della mesta
Che un dolor muto, cupo; – e rimira,
Nuova Niobe impietrita dal duolo,
Ogn'istante cadere un figliuolo.
 
 
Perchè vivi tu dunque? Un acciaro,
Un veleno non hai? Perchè tremi
A spezzare quel calice amaro?
Che ti fai del letargo in che gemi?
Perchè vivi? Un incanto t'ha vinto?
– Io nol so; – forse vivo d'istinto. –
 
 
La mia pallida pallida stella
È al tramonto d'un triste viaggio;
Chi le infonde una vita novella?
Chi le rende l'allegro suo raggio?
A quest'anima morta chi dice:
– Su, rinasci, novella Fenice? –
 
 
O miei giovani giorni, potete
Rimontar la corrente? – Venite,
Anche nudi di gioia, – adducete
Solo il pianto; – è una gioia più mite;
E se il cielo un'ammenda ha pensato
Al dolore, la lacrima ha dato.
 
 
Ma un altr'anno di vita è già spento,
E tremando lo conta il pensiero;
Del passato non torna un momento,
Il futuro è velato di nero;
Il passato è un rumore trascorso.
Un ricordo dolente, un rimorso.
 
 
Qual fragranza dal fiore degli anni
Ho spremuto? – Il mio cielo natio
L'agitava con tepidi vanni,
Gli vestiva dell'iride il brio,
Lo drizzava gentile all'amore,
Educava alla Patria quel fiore.
 
 
Ma quel fiore mal crebbe; e le foglie,
E l'umor gli corrose un veleno;
Dissipate le pallide spoglie
Son fuggite dei venti nel seno;
La rugiada d'un placido cielo
Più non bagna che un arido stelo.
 

L'IMMORTALITA'

– 1842 —
 
È il pensier della morte uno sgomento,
Dove lo spirto s'inabissa, e il cuore;
Il cielo empie d'un funebre lamento,
Oscura il Sole, e inaridisce il fiore.
 
 
Lo sguardo informa, e suona nell'accento,
Uccide ogni speranza, ed ogni amore;
Misura unico il tempo, e in un momento
Un secolo concentra di dolore.
 
 
E l'agonia dell'anima immortale,
Finchè strascica inerte la catena
Del mortal fango tra le torte vie.
 
 
Ma s'illumina, e sorge, e batte l'ale,
Angiol di Dio, se in lui penetra appena
Uno spiraglio dell'eterno die.
 

NAPOLEONE

FRAMMENTI22
– 18…? —
 
E tu cadesti, o re; ma sul tuo fato
Il silenzio non giace, onde l'umana
Plebe è coperta;
E la storia del tuo nome solenne
Coi secoli si muove.
 
 
Eri di donna
Nato, e spirto caduco in te si chiuse
Come nel volgo dei mortali, o l'alta
Armonia delle sfere alla tua creta
Trasfuse alito eterno?
Sento, che il mondo ancor geme dell'orma
Delle tue piante; – ahi! dunque in sulla terra
Non ti guidò l'amore…
 
 
Chi misurarti
Col pensiere vorrà, se il tuo fantasma
Ratto venne, e disparve, alle atterrite
Genti mostrando
Mille faccie di tenebre e di luce?
Quand'io mi sporgo sulla tua grandezza,
Mi coglie la vertigine. Chi sei,
O crëatura del mistero? Il mondo
Forse nol saprà mai. Nume, o demonio,
Ti chiameranno incerti; – e il tuo concetto
Forse l'inferno racchiudeva, e il cielo.
 
 
Il fiore
Della vita per te crebbe solingo
E nero, ed aura nol nodria feconda,
E amor non lo guardò.
 
 
Nell'ora
Dei mesti sensi, – quando cade il Sole,
E sopra la natura si diffonde
Addolorato come il guardo estremo
D'un amico, che muor, – piangesti mai?
 
 
Il vïator, che tenta le tempeste
Dell'antico Oceáno, andrà tremante
All'Isola romita, ove il tuo Genio
Impotente si giacque, o sventurato.
E la mente commossa andrà cercando
Per l'ombre della morte il tuo fantasma,
Che scongiurato apparirà. Funesta
Luce balenerà sulle tremende
Sorti dell'uomo, e gemerà..
 
 
E se mai le ridenti illusïoni
Ti rinfrescavan di fiori la fronte,
Il dolor li appassiva;
E la tua fronte, pallida, atterrita,
Trono severo d'un pensier di morte,
Cadeva a terra.
 
 
L'Aquila gloriosa,
Del cenno tuo terribile ministra,
Che tra gli artigli un dì portava il mondo,
Or s'è conversa in avvoltoio, e nido
Fa nel tuo cuore.
 
 
Lungo le deserte
Rive dell'Oceáno il mio pensiere
Scorge l'anima tua, che insegue l'ombra
D'una potenza, che passò. Delirio
Supremo d'una mente imperatrice
È il tuo delirio. A che nel dì fatale
Non ti ascondesti nel sepolcro?
 
 
Nei silenzi della notte, quando
La vision dello spirito è più chiara,
Gemi profondo, e chiudi gli occhi, e d'ambe
Le man serri gli orecchi. Oh! che intendesti?
O minacciosi vedesti agitarsi
I milioni delle anime sprecate
Nelle tue cento inutili vittorie?
Fulminato è il Titano; una ruina
Vasta cuopre un impero, e l'atterrito
Sguardo delle nazioni al ciel dimanda
E alla terra dov'è la man, che tanta
Forza prostrò. – Non fu mano creata:
Dio ti percosse..
 
 
Quanta passione ti salì nel cuore
Il dì che la Fortuna ti gridava:
– Non sei più re, Napoleon? –  quel grido
Ti corse tutta l'anima eccitando
Le note più solenni del dolore.
E fu dolor, che un'anima infinita
Appena conteneva, – e a tanto peso
Non so come reggesti; – e la Follia
Forse dell'ala ti strisciò la mente,
Ma tu nascesti forte, e la superba
Testa portò il dolor come portava
Un giorno la corona.
 
 
Il Guerriero morì, nè il capo stanco
Morendo abbandonò sopra gli allori,
Nè il sospiro mischiò dell'agonia
Col sospiro dei forti. Entro al silenzio
Della natura si disperse il Grande.
E solingo spirava ai giorni antichi
Catone, allor che un fato iniquo
E una virtù, che il mondo oggi sconosce,
Di terra in terra travolgean ramingo
L'ultimo dei Romani.
Sulle arene di Libia inospitali
Venne traendo l'anima indomata;
E poichè fremer si sentì da tergo
Di Cesare il delitto e la fortuna,
Chiamò la morte, e intemerato un ferro
Si ascose nelle viscere.
Libertà d'un santo
Amplesso a lui cinse lo spirto, e insieme
Nei cieli si confusero.
 
 
E la Sventura
Parte scontò del tuo delitto, o forte,
E velò d'una lacrima il soverchio
Raggio della tua gloria: – e forse un giorno
Pellegrini verremo alla tua tomba,
Dove or siede custode la vendetta
Dei regi che tremarono, e un sospiro
Alle deserte ceneri contende.
E la Sventura eterna ha sulla terra
Una religïone, – e nel sepolcro
L'uomo non va, se prima non l'adora.
E la Dea più tremendo sacrificio
A te chiese, che agli altri; – il pianto chiese
E il servaggio dei popoli, – e tu desti
La servitù col pianto; – ed eri allora
Sacerdote e non vittima, e calcasti
La crëatura come pavimento;
E confitta per sempre la fortuna
Credesti aver sotto le piante, – e forte
Eri fra tutti i forti, e la tua spada
Simile al raggio del Pianeta eterno
Girò sull'universo. Ancor la terra
Lo scalpito rammenta del cavallo
Che ti portava alle vittorie, – e vinti
Fur tutti, – anche la patria.
 
 
Più non avesti freno
Dacchè vedesti i popoli agitati
Giuoco della tua destra; – e un riso amaro
Dei mortali ti prese, – e il firmamento
Forse afferravi col pensier profondo,
Pensier, dove fremea l'onnipotenza.
 
 
A mezzo il corso
Cadesti; e quando il tuo pensiero anelo
Si affacciava al futuro, era un'immensa
Di tenebre pianura l'avvenire.
 
 
Un'eterna
Religïone adunque ha la Sventura
Dai mortali adorata, – e un sacrificio
Più che agli altri tremendo a te chiedea,
E ti rapì la folgore di mano
Onde al suo truce simulacro un mondo
Immolavi, e la forza ti fugava
Dal braccio onde squassasti un dì la vita
Delle nazioni. Uomo tornasti, e tutta
Sentisti l'umiltà di nostre sorti.
 
21.Livorno, Tipografia Sardi, 1842. Seconda edizione. – nella Rosa di Maggio, 1843.
22.Questi frammenti, quali noi li presentiamo ai Lettori, furono dall'Autore offerti in dono a un Amico suo dilettissimo. Forse egli intendeva da prima ordinare nel contesto di un componimento i concetti e le immagini, che venne in essi notando; ma nol fece poi mai.
Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
04 ağustos 2017
Hacim:
360 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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