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Kitabı oku: «Scritti editi e postumi», sayfa 16

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XXI

Signora A.***

Ho ricevuto con grato animo la sua del 28 Luglio, perchè un segno di ricordo da qualche anima buona mi fa sempre bene. Sento, che Recoaro non ha corrisposto alle sue aspettative, e già sapevo, che tutte le acque del mondo servono a poco; ma pensavo, che un giovamento qualunque le sarebbe venuto dal mutare aria, e dal veder cose nuove, e questo in ultimo si farà forse sentire.

Io sto anche peggio di quando ci vedemmo. Ciò non vuol dir nulla. Ho misurato tutto, e sono al mio posto.

È facile, che dimani, o posdimani, io parta per Roma, se non sorgono impedimenti. È viaggio affatto mercantile, trattandosi di assistere allo sviluppo di certi affari N. – Vedrò a ogni modo la città eterna, ma son fiacco, e scuorato, e punto disposto a ricevere in me lo spirito delle grandi memorie.

Un bacio a L.***, e mi creda suo affezionatissimo

Livorno, 4 Agosto 1841.

Carlo Bini.

XXII

A.***

················

Scriverò al Sig. G.*** quanto mi accenni dell'imbroglio B.*** E dalle meschine turpitudini degli umani interessi ascendendo alla solennità del dolore, ti dirò, che del tuo povero Nonno non ho saputo mai nulla. Io son qua dimenticato, come persona già andata al suo destino. Gli uomini badano ai fatti loro, e non li posso biasimare. Nondimeno, se mi fosse stato semplicemente annunziato, che il tuo Nonno era morto, io non mi sarei riscosso per questo, anzi avrei detto fra me: – era tempo che riposasse; – perchè era stanco, e aspettava, e spesso desiderava di riposare. Dico così, perchè egli spesso mi diceva così, e a quell'età non ci è interesse a mentire. Ora però, che tutto è finito, che la carne è morta e impassibile, e che lo spirito è in salvo, dico la verità, duolmi più di voi, che di lui; perchè la morte è come la bevanda amara; – passata la gola non è più altro. Spero però, che il tempo mitigherà il dolore, che la sua morte ha lasciato negli animi vostri, e che da ultimo resterà in voi sola e perenne la fragranza della sua dolce memoria. E credo fermamente, che non ci sia bisogno di pregare per lui, perchè il suo petto racchiudeva tutto quel fiore di bontà, che può germogliare su questa misera terra. E così io pregherò l'anima di quel giusto, perchè preghi Dio prima per voi e poi per me. Altro non posso fare. Addio.

Carrara, 21 Ottobre 1841.

Carlo.

XXIII

A.***

················

Ho finito di leggere da qualche giorno il discorso del Centofanti25, e mi dirai per qual modo devo rimandartelo. Questo discorso, che pure è di poca mole, mi ha lasciato un'impressione curiosa, – un'impressione di durata, come se avessi letto almeno due mesi, o un'opera di cinque, o sei grossi volumi. Non saprei distinguere, se ciò dipenda da mente che si disorgana, o se sia segno che il libro fa pensare. Sottosopra mi è piaciuto assai, e quantunque io non abbia coscienza tale di studi da giudicarlo intus et in cute, nondimeno mi è parso dettato con intendimenti di critica e di filosofia piuttosto nuovi in Italia. E vi sono tratto tratto pagine generose ed eloquenti, che non tanto onorano l'intelletto dello scrittore, quanto rivelano un bel cuore d'uomo. Mirabile è poi la forza di congettura e d'intuito, onde penetra nel buio di tempi quasi senza memoria, rifabbrica il passato, e dà senso, valore, e sembianza, a cose, che finora parevano vaneggiamenti e capricci. Basta, a me pare un bel lavoro, fatto di buona fede, all'antica. Credo però, che non sarà di lettura volgare, e il libro, sì per lo spirito, che per la fattura, è veramente aristocratico, come sono tutti i libri dove ci è altezza, e novità di teorie, dove c'è condensazione d'idee, e di stile. Aggiungi inoltre, che l'Italia è sempre innamorata del suo dolce far niente, sempre supina a bere l'oblio di tutte le cose, sempre ripugnante a ruminare il forte cibo della sapienza....

Livorno, 30 Aprile 1842.

Carlo.

XXIV

Signora A.***

Un Poeta in tutta l'estensione del termine, perchè muore anche di fame, chiede l'elemosina ai suoi amici. E quì sta l'imbroglio, – di trovare cioè gli amici d'un uomo, che muore di fame. – Ma butta in mare, e spera in Dio, dice il proverbio dei marinari. Il povero Poeta è N., che forse Ella avrà sentito nominare; uomo… cui la Natura fece molti doni di cuore e d'ingegno, senza dargli però un fiato, un atomo, di quel terribile giudizio che sa fare i fatti suoi. E però oggi si trova a stender la mano, e per giunta è malato di malattia della quale forse non guarirà mai. E però io lo raccomando alle di Lei carità; e se Ella e i suoi amici potranno far qualche cosa, io gliene saprò grado per conto del povero Poeta, e per conto mio, quantunque egli si sia indirizzato per chiedere aiuto a T.*** G.***, e questi poi si sia rivolto a me.

Intanto abbia pazienza del disturbo, e mi creda

2 Settembre 1842.

Suo Devotissimo
Carlo Bini.

XXV

Signora A.***

Ho sentito da M.***, che riguardo a N. Ella penserebbe di fare un foglio. Io veramente me la dico poco coi fogli, e credo, che in ogni caso, e specialmente in questo, la parola viva e sentita possa più assai che tutti i mezzi dell'arte. Ma poichè s'ha da scrivere, io stimo più espediente copiare tale e quale la lettera di N., che le rimetto qui acclusa. Sono poche righe, ma vere, e stringenti; e se queste non valgono, le mie e quelle di qualunque altro varranno anche meno. Ella pertanto, che è così buona, veda di persuadere quanti più può a firmare sotto la lettera del povero N., ma quello che importa è di far presto, anzi prestissimo, a riscuotere il danaro, e farglielo avere, perchè il bisogno ha furia, e conta le ore e i minuti. Spero che tra tutti faremo qualche cosa per questo disgraziato; ma quando poi non riuscissimo a buon porto ci vorrà pazienza, ed io scriverò direttamente a N., che i suoi buoni amici di Livorno hanno rigettato il suo appello, e confermano la sua sentenza di morte di fame.

Io tra qualche giorno dovrò partire per miei affari; e se questo negozio non fosse anche perfetto, allora lascerò le mie istruzioni a M.***, perchè tutto vada il meglio possibile.

Mi creda

Livorno, 5 Settembre 1843.

Suo Devotissimo
Carlo Bini.

XXVI

T.***

Ebbi per tempo la grata tua con quella del povero N., ed egli non poteva scegliere il miglior momento per morire di fame. A.*** mi ha detto, che non deve dar nulla, e per conseguenza non ha dato nulla. Ho fatto un appello ai poveri, e come ragion vuole mi hanno dimandato se avevo da dar loro qualche cosa; – ho chiesto ai ricchi, e mi hanno risposto peggio dei poveri. In somma è un affaraccio, e in tanti giorni ho raccolto forse sei o sette scudi. Non per questo mi fermerò, e spingerò le cose fin dove possono andare.

La mia salute non vale un quattrino, e la mia testa è un mucchio di rovine. Pure per veder di dare una mano al povero N., ho preso a tradurre dal Tedesco certi articoli intorno al Sismondi per convertirne il ricavato a pro del suddetto; e credi, che se avessi avuto un cento di scudi glieli avrei dati volentieri, piuttosto che soffrire una fatica così sanguinosa, una fatica che finisce di mandarmi in polvere il cervello.

Addio. Credimi

Livorno, 14 Settembre 1842.

Il tuo Affezionatissimo
Carlo.

XXVII

Gentilissima Signora A.***

Vengo a prender commiato da Lei, perchè certi affari mi cacciano fuori di casa. Vado via in cattivo arnese, e chi sa come ritornerò, o se resterò per la strada. Fiat voluntas Dei.

Saluterà pertanto G.***, e il Sig. P.***, al quale auguro una sollecita guarigione, e godrò al mio ritorno di trovarlo perfettamente rimesso in buona salute.

A Lei non dico nulla, se non che, quando avrà terminato tutte le faccende, si rammenti qualche volta di me. Andando a Lucca, come farò tra qualche giorno, farò i di lei saluti all'ottimo nostro B.***, e a quella buona creatura della Signora V.***

La questua per il povero N. finalmente è finita, e facendo un po' di tutto abbiamo raccapezzato sopra Lire 400, e ho incaricato P.***, perchè le mandi. Il merito principale di questo negozio per altro è da attribuirsi a X., che ideando la traduzione del Sismondi, e stampandola, e distribuendola con molte fatiche e disgusti ha messo insieme il nerbo vero di questo soccorso, perchè senza il Sismondi eravamo a poco più di cento Lire....

Se vuol conoscere il mio itinerario, eccolo: dimani a Pisa, dove starò tre o quattro giorni; poi a Lucca, quindi nella Provincia Lucchese, e di là a Massa e Carrara, che è la Mecca dei miei malaugurati pellegrinaggi.

Metto fine alle ciarle; mi creda suo affezionatissimo

Livorno, 12 Ottobre 1842.

Carlo Bini.

FRAMMENTI

Io sento, parlo, e scrivo, senza studio, come l'anima detta, ma io son sicuro oramai di quest'anima mia: – conosco fin dove può salire, fin dove può scendere: esiste in me una forza d'impulso, che mi spinge avanti gran tratto, ma poi si sviluppa prontissima una forza di resistenza, che mi rimette nei giusti limiti; e questo contrasto di forze diverse fra loro, sovente per me doloroso, è quello però che mi ha salvato finora da qualunque bassezza.

Non pensate; io soffro, ma son forte. Educato per 30 anni nello sconforto, la mia anima ormai sa comprimere il suo gemito immenso, – la mia testa porta fieramente il dolore, come un re la corona.

E i miei patimenti sono di tal sorta, che il volgo non li saprebbe intendere, o li deriderebbe. Ecco l'anima mia: – un anelito eterno all'amore puro, santo, ideale; – un cuore nato a sentire quanto di bello e di armonia Dio sparse nell'universo; – un intelletto severamente educato a comprendere il vero; – una coscienza dignitosa, e superba di sentirsi incontaminata; – e tutto questo messo a contrasto con una società misera, corrotta, incredula, e da me conosciuta nelle sue più riposte viscere. Questo è il segreto del mio dolore.

Non vi dia noia il mio gran talento. Egli è una povera cosa questo mio gran talento, ed io ne ho fatto sempre così poco conto, che non l'ho mai adoperato. La scienza le più volte è una fastosa impostura. Io ho vegliato lunghe notti sui volumi della sapienza antica e moderna, e li ho richiusi sospirando; – il velo del mistero era più fitto di prima. Oh! questo mio gran talento mi fa pietà. Forse volendo avrei potuto scrivere dei libri; ma questo a che buono? Il mio ingegno irritandosi nelle condizioni presenti si sarebbe scaldato a quel grado di valore, che genera il fulmine, – avrebbe maladetto, fulminato la razza umana. Ma il mondo non è contristato abbastanza?

Il mio carattere è forte, severo, passionato, – disprezza le forme esterne delle cose, – attende solo allo spirito; – non si contenta, che del vero, e aborre mortalmente la civetteria d'ogni specie. – Il mio carattere è al tempo stesso cavalleresco, – la Donna non ha nulla a temere da me, – il culto della Donna è per me santo, solenne; – e quando io non potessi più amarla, nè stimarla, saprei pur sempre compatirla sinceramente.

La mia fantasia percorse come ape a succhiare i fiorì più eletti della Bellezza, che la mano di Dio profuse sull'universo, e formò una creatura coll'ale d'angiolo, vestita dei ricchi colori del firmamento, coronata di stelle, armoniosa delle armonie, che suonano in cielo. Bella e cara creazione, che alla perfetta natura dei celesti univa quanto ha di simpatico, di buono, di grande, la natura mortale! Bella, perfetta, e cara creatura, anello intermedio fra il Cielo e la Terra, tipo d'un angiolo nuovo, che Dio deve aver rimirato con compiacenza, e accolto nell'eterna sua mente, per riprodurlo in un mondo migliore.

Le lagrime d'un angiolo lavano le colpe dei mortali, e fanno fiorire le rose del Paradiso nel fango di questo mondo.

Considerato tutto, gli uomini valgono assai meno delle Donne. Vantano senno, forza, e mille altre qualità, che poi all'occasione non hanno. Dove abbiamo noi la dolcezza, il coraggio, la celeste pazienza, che in certe epoche della vita fanno sublime la Donna?

La Donna sola intende pienamente la santa virtù del sacrifizio; – l'uomo non saprà mai amare come la Donna.

Quando la Donna ama veramente, sa e può amare come l'uomo non saprà mai. In questo la Donna è d'un tessuto assai più fine dell'uomo; – tutta l'anima sua è una melodia d'amore, dolce, profonda, perenne. La donna è un raggio creato da Dio per fare il chiaro fra l'ombre cupe, feroci, di questo mondo. Quando parlo così, però non intendo di tutte, – intendo della Donna pura, cara, gentile. Donna anima. Il volgo afferma, che la Donna dura meno in amare. Io non ci credo. La Donna non è stata anche compresa, che da pochi cuori intemerati, sublimi; e come creatura debole, inerme, è stata sempre oppressa, calunniata. E se la Donna talvolta dura meno in amare, è perchè l'uomo spesso riprende troppo presto gl'impeti della sua natura brutale, cessa troppo presto di meritare il suo amore.

Una Donna fragile, leggiera, spensierata, può mettere il delirio in un cuore potente, la confusione in un forte intelletto, fiaccare, ridurre in polvere una volontà di ferro; e tutto questo conseguirlo senza disagio, senza perdere un minuto di sonno, con quella stessa nonchalance con che si appunta una spilla.

Prima causa della pessima educazione delle Donne sono gli uomini, i quali non sanno o non vogliono mai dir loro la verità; – le adulano a torto e a diritto, tanto per sedurle; – poi quando son sazi, e si saziano presto, le lasciano infelici e corrotte senza rimedio. Succhiato l'arancio, gettano la scorza.

Le accuse continue che gli uomini fanno alle Donne, e le Donne agli uomini, sono piuttosto ridicole, che vere. Uomo e Donna non possono esistere isolati, – ambedue compongono un essere completo: ora la Natura non può aver creato un essere mezzo buono, mezzo cattivo. Quest'essere diviso in due parti non può comporsi, che d'elementi consimili, omogenei; – noi abbiamo pregi, difetti, e qualità comuni, – quindi l'obbligo di tollerare, di compatire, di giudicare con senso di carità.

Io non cerco nell'Amore piaceri caldi, inebbrianti, ma gioie modeste, asperse di una dolce malinconia. La malinconia è una cosa santa; è l'eco di un'armonia, che suona nei cieli; è un sentimento, che profuma l'Amore, e lo fa incorruttibile.

L'Amore profondo si fa sentire più da lontano che da vicino. Questa legge morale è connessa forse a quell'altra legge fisica, per la quale i grandi colossi acquistano proporzioni armoniche, e piacciono all'occhio a grande distanza, ed una forte musica riesce soave e deliziosa sentita ad una certa distanza.

Nelle cose d'affetto, meno che si pensa, meno che sì calcola, meno che si disegna, meglio è. – Sentire, e sempre sentire, ma senza prevenzione, alla buona, all'italiana d'una volta, – quest'è l'anima, l'essenza dell'Amore. L'Amore non ragiona, non fa di conto, non vede, – e per questo gli antichi lo dipinsero cieco.

A me piace più l'espressione calda, fanatica, baccante, dell'anima commossa, che il tono freddo, compassato, cattedratico, della ragione, – cosa tanto vantata, e così poco definita; cosa, che vale assai meno della sua riputazione, che tutti più o meno posseggono nei tempi ordinari, che tutti più o meno perdono nei tempi straordinari, come ognuno ha il polso regolare quando è sano, e l'ha troppo celere quando lo investe la febbre.

Io non mi fido dì quelli, che stringono la mano a tutti, che si chiamano amici di tutti; – il cuore umano non si può così spicciolare; non può, e non deve bastare a tutti; – ma può aversi, ma è necessario avere un amico, e all'uopo conviene fare per lui dei nobili sacrifizi.

Chi non presume troppo di sè deve lasciarsi portare dal fiotto degli avvenimenti, senza mormorare, senza bestemmiare, adorando un ordine di cose, che vede, che sente, ma non comprende.

Che diritto ha il verme di giudicare i fini e gli andamenti della Mente Eterna, che nell'immenso creato governa con egual bilancia il moto d'una stella, e il nascere, il crescere, il cadere, e il trasformarsi, d'un fiore fugace, d'un povero filo d'erba?

Non dee far maraviglia, se talvolta l'uomo generoso di cuore e d'intelletto assume una maschera, e cela le sue schiette sembianze; – la colpa è del mondo stupido e miscredente, nel quale è condannato a vivere.

I Tedeschi non fanno mai di quei libri facili, trasparenti, spumosi, oppio vero dell'anima: i Tedeschi fanno pensare, e tengono l'anima del Lettore in piedi da mattina a sera.

La felicità sarebbe facile a conseguirsi, se il mondo osservasse la legge di amore, d'armonia, d'attrazione, che Dio impresse nel creato; se permettesse che ogni anima gravitasse liberamente al suo centro.

Non è il cuore l'organo il più prezioso, quello che decide sempre i destini della vita? E le grandi opere, i grandi pensieri, non vengono tutti dal cuore? E le questioni le più solenni, che travagliano il genere umano, non sono tutte questioni di cuore? Nè potranno sciogliersi, che dal cuore, perchè la mente da secoli vi si affatica indarno.

Adoriamo il dolore. Le anime, che non sono tutte di terra, hanno per distintivo il dolore, – sentimento che le raffina continuamente, che le innalza sempre più verso il cielo, che svela loro l'esistenza di mondi non pensati, e non creduti dal volgo; sentimento, che in mezzo alle sue amarezze contiene certe voluttà sacre, indistinte, velate, baleno delle gioie che Dio riserba alle anime provate su questa terra. Adoriamo il dolore.

SECONDA PARTE.
TRADUZIONI

LA VITA E LE OPINIONI DI TRISTANO SHANDY

– DI LORENZO STERNE —

I

STORIA DI YORICK
 
Aguzza quì, Lettor, ben gli occhi al vero;
Che 'l velo è ora ben tanto sottile,
Certo, che 'l trapassar dentro è leggiero.
 
Dante, Purgatorio.

Yorick nominavasi il parroco, – ma devi notare, (come apparisce da notizie antichissime di famiglia scritte in pergamena, e ben conservate,) che tal nome era stato pronunziato appunto in quel modo per quasi… io stetti per dire 900 anni: ma perchè riferendo una verità improbabile, sebbene di natura sua fuor di quistione, non vorrei perderci di fede, mi appagherò soltanto del dire, che quel nome era stato pronunziato appunto in quel modo per non so che spazio di tempo; nè tanto oserei dire per la metà dei cognomi del regno, che nell'andar degli anni hanno sostenuto tante vicende quante coloro cui appartenevano. Daremo questo all'orgoglio, o alla vergogna delle persone che li portavano? A dirla schietta, io tenni conto dell'una e dell'altra causa, secondo che la tentazione operava. Ma egli è mal fatto: – un giorno verrà a mescolarci tutti così confusamente, che uomo non potrà levarsi a giurare, che l'avolo suo fece questo o quell'atto.

La famiglia di Yorick aveva riparato a questo male, prudentemente conservando a guisa di religione le memorie da me citate, le quali di più c'informano, che l'origine della famiglia fosse Danese, trapiantata in Inghilterra fino dai tempi di Horwendillus Re di Danimarca, e pare, che a quella corte un antenato donde M. Yorick discendeva dirittamente tenesse carica riguardevole; – solo aggiungono, che già da due secoli era stata abolita, come inutile affatto in quella e in ogni altra corte del mondo cristiano.

Spesso mi è passato per la mente, che la carica fosse quella di primo buffone del Re, – e lo Yorick nell'Hamlet del vostro Shakespeare, – che ha moltissimi drammi fondati nel vero, – era di certo lo stesso.

Io non ho tempo di svolgere la Storia Danese di Sasso Gramatico per saperne la verità, – ma se i miei hanno agio e facilità di procacciarsi quel libro, lo facciano di per se stessi. Ebbi però tempo ne' miei viaggi di Danimarca, e tanto bastommi, di provare la verità di una osservazione fatta da tale, che dimorò lungamente in quella contrada, cioè, – che la natura non era nè troppo larga, nè troppo avara, nei presenti d'ingegno e di capacità agli abitanti di quel paese; – ma, simile a madre discreta, era modestamente liberale verso tutti, osservando tanta eguaglianza di misura nel dispensare i suoi favori, che a fin di conto gli uni non la cedevano agli altri. Tu rinverrai pochi esempi in quel regno di mente elevata, – ma in tutte le classi del popolo una dovizia di buono, semplice, e domestico intendimento, – e ciascuno n'ha la sua parte, – e questa parmi cosa ben dritta.

Ma con noi le cose procedono ben di altro passo, e in questa faccenda tocchiamo il fondo, e la cima: – o voi siete un genio, o scommetto cinquanta contro uno, che voi siete, o Signore, uno stupido al di là dei confini, e una zucca da sale; – non già che manchino al tutto i gradini di mezzo, – noi non siamo irregolari di tanto; – ma gli estremi sono frequentissimi, e condotti ad altissimo punto in quest'isola instabile, dove la natura nelle sue doti e disposizioni di simil sorta è bizzarra, e fantastica in modo, che la fortuna stessa non è più di lei stravagante nel lascito dei suoi beni.

Tutto questo mi fece dubitar sempre della discendenza di Yorick, e da quanto mi ricordo di lui, e da tutte le notizie che ho potute raccogliere, pare che non avesse nelle vene neppure una goccia di sangue danese; – forse in 900 anni era tutto svaporato; – ma non voglio filosoficarci un momento: – sia che può, il fatto era questo; in vece di quella flemma ed esatta regolarità di sensi ed umori, che ti saresti aspettato in uno della sua origine, era all'incontro una composizione tanto mobile e sublimata, – una creatura tanto eteroclita nelle sue declinazioni, – e aveva in sè tanta vita e capriccio, e gaïté de coeur, come se fosse il figlio d'un cielo ardentissimo. Con tanta vela il povero Yorick non portava un'oncia di zavorra; – non era pratico in nulla del mondo, e a ventisei anni sapeva guidare in esso il suo corso come un'ingenua fanciulla di tredici; talchè al primo mettersi in mare, immagina pure, che il vento fresco de' suoi spiriti dieci volte al giorno lo facesse impigliare nelle sarte di alcun navilio: – e perchè navigando gli occorrevano più di sovente quei gravi e lenti all'andare, immagina pure, che con questi voleva la sventura che restassesi sempre intricato; e, se non m'inganno, in fondo dovevano avere un non so che di maligno, poichè Yorick per natura ripugnava invincibilmente alla gravità; – non dirò in certo modo alla gravità, – perchè, se bisognava, era Yorick, il più grave e il più serio di tutti i mortali, a giorni, e settimane intere, – ma era nemico alla di lei affettazione, e la guerreggiò apertamente, perchè copriva di mantello l'ignoranza, e la stoltezza, – e quante volte la incontrava per via, benchè difesa e protetta, di rado le usava mercede.

Forse ragionava strano, ma spesso dichiarava la gravità un pretto furfante, e pericoloso d'assai, – soggiugnea, – perchè scaltrito; e veracemente credeva, che ella avesse giuntate dei beni e del danaro più oneste persone in un anno, che i tagliaborse e i mariuoli non fecero in sette. Dicea, che l'indole aperta rivelata da un cuore allegro non facea male a nessuno, fuorchè a sè stessa, – mentre nella gravità vivea per anima il disegno, – e quindi l'inganno; – era una frode ben disposta a guadagnarsi nel mondo stima di senno, e di sapere oltre il merito, – e con buona pace di tutte le sue pretensioni non era migliore, ma sovente più trista, di ciò che l'ebbe definita non è gran tempo un bell'ingegno francese: «un misterioso portamento del corpo per velare i difetti della mente.» E dicea Yorick, con molta imprudenza, che quella definizione meritava di scriversi in lettere d'oro.

Ma era indipendente, e inesperto del mondo, e lasciavasi andare agli scherzi in qualunque argomento di discorso la prudenza avrebbe usato ritegno. Yorick non sentiva che una impressione, – e quella emergeva dalla natura del fatto, – e la traduceva in chiaro Inglese, senza perifrasi, e spesso senza risguardo alla persona, al tempo, o al luogo; – onde se rammentavano un atto meschino o codardo, non pensava un momento all'eroe, o al suo stato, o se potesse nuocergli appresso; – ma se l'atto era vile, senz'altro l'uomo era vile, – e così di séguito. E la sciagura voleva, che d'ordinario i suoi commenti finissero in un bon mot, o fossero via via ravvivati da qualche facezia, o festività di espressione, e questo cresceva l'indiscretezza di Yorick. Certo non le cercava, ma però non fuggiva le occasioni di dir quanto cadeva in acconcio, e senza rispetti; – così non n'ebbe in vita sua che troppi incitamenti a spandere il bell'umore, e le arguzie, e i motteggi, e le beffe, e non andò nulla perduto per mancanza di chi raccogliesse. Ora ne intenderete le conseguenze, e come Yorick avesse fine.

Coloro che danno e tolgono ad usura differiscono fra loro nella durata degl'interessi, quanto nella durata della memoria il beffatore e il beffato. E quì, secondo gli Scoliasti, il paragone cammina su tutte e quattro le gambe, che vuol dire una gamba o due di più, che non hanno alcuni dei migliori paragoni d'Omero; ed è, che l'uno piglia a prestito una somma, e l'altro suscita una risata a vostre spese, e più non ci pensano. Ma gl'interessi corrono tuttavia nell'uno, e nell'altro caso, – e i pagamenti, che se ne fanno periodici, o casuali, bastano a tener viva la memoria dell'affare, finchè l'ora trista non giunga, che il creditore sopravvenga improvviso a ciascuno, e, dimandando all'istante il capitale coll'usura sino a quel giorno, faccia sentir la gravezza del debito.

Il lettore conosce nell'intimo la umana natura, (a me non piace dubitarne,) e però gli basti che il mio eroe non potè seguitar quella corsa senza un lieve saggio di questi ricordi. E' s'era avviluppato sbadatamente in una gran rete di siffatti debituzzi, che dispregiava soverchio, – nè valeva nulla il consiglio d'un amico suo dolce chiamato Eugenio, – e stimava, che non avendoli contratti per malignanza, ma invece per onestà d'intenzione, e per mera allegria di spiriti, naturalmente verrebbero tutti cancellati.

Eugenio pensava di no, – e dicevagli spesso, che un giorno o l'altro sarebbe certamente chiamato ai conti; e sovente aggiugnea, col mestissimo accento di chi teme una sventura, – sino all'ultimo picciolo. – E Yorick al solito non curando sempre rispondeva: – oibò! – E se la questione si ventilava ne' campi alla fine rispondea con un salto, o uno scambietto: – ma se in un canto del socievole camino al reo facevano barricata una tavola, e due seggioloni a bracciuoli, tanto che non potesse fuggirsi d'un tratto, Eugenio continuava la sua lezione intorno alla discretezza in parole siffatte, ma un po' meglio acconciate.

– Credimi, Yorick mio, che la tua malaccorta piacevolezza o presto o tardi ti legherà in tanti nodi, che poi non varrà il senno a strigartene. In questi casi ho veduto sovente, che la persona derisa si considera sotto l'aspetto della persona ingiuriata con tutti i diritti che da quella situazione le spettano; – e se tu pure la vedi in quello aspetto, – e noveri gli amici, la famiglia, i congiunti, gli alleati, – e passi in rivista le molte reclute, che vanno alle sue bandiere pel sentimento del comune pericolo, non è calcolo esagerato a dire, che per ogni dieci motti ti sei guadagnato cento nemici, – e finchè non sei giunto a tale da sollevarti d'intorno alle orecchie uno sciame di vespe le quali mezzo ti pungano a morte, non andrai mai persuaso.

Dio mi guardi dal sospettare, che l'uomo da me stimato si muova alli scherzi per dispetto, o malignità d'intenzione; – so, e credo sinceramente, che sieno onesti, e detti a modo di sollazzo. Ma poni mente, amor mio, che gli stolti non possono distinguere, e i furfanti non vogliono: e tu non sai quanto importi provocar gli uni, o prendersi giuoco degli altri; e qualunque volta si uniscano a difesa scambievole, abbi per fede, amico mio, che ti guerreggieranno in maniera da fartene il cuore malato, e con pericolo ancora di vita.

La vendetta da qualche angolo segreto spargerà di te novelle d'infamia, – nè ripareranno l'innocenza del cuore, la integrità del costume; – le tue sostanze verranno a mancare, – e malignando sui mezzi che un dì ti procuravano, la tua riputazione darà sangue da tutte le parti; – la tua fede sarà posta in dubbio, – smentite le opere, – dimenticato l'ingegno, – e la dottrina tenuta a vile. A chiudere l'ultima scena della tragedia, la crudeltà, e la codardia, scellerati gemelli condotti a prezzo dalla malizia, e incitati nelle tenebre, prenderanno insieme la mira a tutte le tue debolezze, ed errori, – e gli ottimi di noi, amor mio, vi stanno soggetti; – e credimi, credimi, o Yorick, allorquando per lusingare un privato appetito si deliberi il sacrificio d'una creatura innocente, ed inerme, è facile di raccogliere stecchi per ogni macchia dove ella ha traviato, onde accendere un fuoco, – e bruciarvela sopra. —

Yorick intese il vaticinio dei suoi destini, e nell'atto con una lacrima furtiva, accompagnata da uno sguardo di promessa, dispose per l'avvenire di correre più misuratamente l'arringo. Ahi troppo tardi! Innanzi del presagio erasi collegata una forte alleanza dei suoi nemici, e l'assalto, giusta la predizione d'Eugenio, fu dato in un tratto, e con sì poca mercè dalla parte degli alleati, – e con sì poco sospetto in Yorick di quanto gli tramassero, – che quando quell'ingenuo avvisava ricevere il premio ai suoi meriti, omai l'avevano scosso alla radice; – cadde, e in quella guisa, che molti valentemente erano caduti prima di lui.

Ma Yorick combattè per un tempo con tutto il valore possibile, – finchè sopraffatto dal numero, e in ultimo affranto dalle calamità della guerra, ma più ancora dalla maniera codarda onde facevasi, gittò la spada, e in vista fece animo sino agli estremi, ma credono tutti che l'uccidesse il cordoglio. E quanto segue piegava Eugenio alla medesima opinione.

Poche ore avanti che Yorick esalasse l'anima, Eugenio entrò nella stanza per vederlo l'ultima volta, e dargli l'ultimo addio. Nel tirar le cortine gli domandò come stesse; – e Yorick guardandolo in faccia gli strinse la mano, – e ringraziandolo dei molti segni di amore a lui dimostrati aggiunse, che, se il fato li faceva incontrare nell'avvenire, lo avrebbe più e più sempre ringraziato; e disse, che di lì a brevi ore sarebbesi involato in eterno ai suoi nemici. – Spero di no, – rispondeva Eugenio col più tenero accento di voce, che uomo parlasse giammai, e le lacrime gli scendevano giù per le guance, – spero di no, Yorick mio. – Yorick rispondeva elevando lo sguardo, e premendogli gentilmente la mano, – e nulla più: – ma questo dirompeva il cuore di Eugenio. – Su via, Yorick, – riprese quest'ultimo asciugandosi gli occhi, e facendosi cuore, – confortati, amor mio, nè li spiriti e la fortezza ti abbandonino al maggior uopo; – chi sa mai quanto possano operare per te i rimedi, e la potenza di Dio? – Yorick si pose una mano sul cuore, e crollò un tal poco la testa. – Per la parte mia, – continuava Eugenio, e piangeva amaramente in mezzo alla parola, – per la parte mia non so come da te dividermi, e di buon grado lusingherei le mie speranze, – seguitava rallegrando la voce, – che di te avanzerà tanto da farne un vescovo, e io vivrò tanto da vederlo. – Io ti prego, – favellò Yorick, levandosi alla meglio di capo il berretto da notte colla manca, perchè la destra avea sempre stretta da quella d'Eugenio, – io ti prego a guardarmi un poco la testa. – Non vi scerno cosa che l'offenda, – rispondeva l'amico suo. – Ahimè! io vo' che tu sappi adunque, – riprese Yorick, – ch'ella è sì mal concia e sformata dai colpi che i miei nemici le dettero così villanamente all'oscuro, che potrei dire con Sancio Panza: – «se mi riavessi, e dal cielo mi cadessero sul capo le mitre spesse come la gragnuola, neppure una gli potria convenire.» —

25.Sull'indole e le vicende della Letteratura Greca, Discorso di Silvestro Centofanti. – Firenze 1841.
Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
04 ağustos 2017
Hacim:
360 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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