Kitabı oku: «Scritti editi e postumi», sayfa 20
IL FUNERALE DEL POVERO
– DI ROBERTO SOUTHEY —
Che! neppur uno, che mandi un pietoso sospiro! neppur uno, che fuggendo un momento alle scene sociali, e alle delizie della vita, coll'occhio pregno di dolore versi una lacrima, e si fermi sul morto! Povero infelice reietto! io piangerò per te, io piangerò per la deserta umanità! Sì, io piangerò, non già perchè tu sia venuto ai severi riposi della tomba silenziosa; chè almeno lo squallido Bisogno, e la cupa velenosa Cura, demoni che corrodono il cuore, mai non entreranno laggiù. Io gemo sopra i mali che tu provasti nella vita, quando nel lungo pellegrinaggio del mondo compiesti la tua giornata senza amore e senza amici, solo accompagnato dalla povertà e dagli affanni. La tua gioventù trascorse nell'ignoranza e nella fatica, e la tua vecchiaia fu arida, assiderata. Fu duro il tuo Fato, perchè, mentre ti condannava al dolore, ti negava la sapienza di sopportarne l'amarezza; e spogliando prima la tua mente di tutta la sua forza, ti gettava abietto del pensiero, e vittima della miseria, a ramingare fra i tuoi simili nell'ampio deserto del mondo. Dormi in pace, povero reietto! La furia invernale più non investe acerba il tuo corpo indifeso. I tuoi mali sono passati, – tu riposi nel sepolcro; – io mi fermo, e medito sui giorni avvenire.
183838
ODE SULLA SEPOLTURA DI SIR GIOVANNI MOORE
– DI CARLO WOLFE —
Non fu sentito un tamburo, nè una nota funerea, mentre col suo corpo ci affrettavamo ai terrapieni; nè un soldato fece lo sparo dell'addio sulla fossa dove seppellivamo il nostro eroe.
Noi lo seppellimmo nell'alto della notte smuovendo le glebe colle nostre baionette, alla luce nebbiosa d'un incerto raggio di Luna, e al cupo chiarore d'una lanterna.
Nè lo racchiuse l'inutile cassa, nè lo ravvolse il lenzuolo, o il manto funerario; ma giaceva simile ad un guerriero, che si riposi tutto avviluppato nel suo marziale mantello.
Poche, e brevi furono le preci, che dicemmo senza proferire una parola di dolore; ma guardammo fisamente la faccia del morto, pensando con amarezza al dimani.
Mentre gli componevamo l'angusto suo letto, e gli appianavamo il suo solitario guanciale, pensammo, che il nemico e lo straniero passerebbero sulla sua testa, e noi saremmo lontani sull'onda!
Irreverenti parleranno dello spirito dipartito dicendogli villania sulle fredde sue ceneri; ma egli non curerà di nulla, se lo lasciano dormire nella fossa, che gli ha scavato un Britanno.
Ed eravamo al mezzo della solenne opera nostra, quando l'orologio ci annunziò l'ora della ritirata, e dal cannone lontano, spesseggiante, sentimmo che il nemico aveva cominciato l'assalto.
Lentamente, e mestamente noi lo calammo giù nella fossa dal campo della sua fama fresca e sanguinosa; non incidemmo una linea, non alzammo una pietra; ma lo lasciammo solo con la sua gloria.
– 183839 —
LAMENTO DI MARIA REGINA DI SCOZIA
ALL'AVVICINARSI DELLA PRIMAVERA
– DI ROBERTO BURNS —
Ora la natura appende ad ogni albero fiorito il suo verde manto, e stende sull'erboso prato le sue lenzuola di bianche margherite; ora il Sole rallegra le cristalline correnti, e fa lieto l'azzurro dei cieli; ma nulla può rallegrare la povera creatura, che vive stretta in un carcere.
Ora la lodoletta sorta sull'ali rugiadose desta il gaio mattino, e il merlo a mezzogiorno sulla sua frasca fa risuonare gli echi del bosco; il malverso cantando in molte note invita a dormire il giorno sonnacchioso, e tutti esultano d'amore e di libertà, senza affanni e senza catene.
Ora fiorisce il giglio sui margini, e la primarosa giù pei declivi, e nelle valli germoglia la spinalba, e bianca latte è la prugnola, e l'infimo tra i cervi della bella terra di Scozia può aggirarsi a sua posta fra tutte queste dolcezze; – ma io sola, la Regina di Scozia, debbo giacermi in una dura prigione.
Io fui regina del bel paese di Francia, dove sono stata felice; leggiera leggiera io mi levava al mattino, e gioiosa mi coricava la sera; – e sono Sovrana di Scozia, e molti sono colà i traditori; pure io son qui cinta di catene straniere, e d'interminabili angoscie.
E tu, o falsa donna, mia sorella, e nemica, – una truce vendetta affilerà una spada, che andrà traverso all'anima tua; – tu non conoscesti mai la creatura piangente nel seno della madre, nè il balsamo che cade sulle ferite del dolore dall'occhio compassionevole della donna.
Figlio mio, figlio mio! più cortesi stelle splendano sulla tua fortuna, e possano abbellire il tuo regno quei piaceri, che mai non vollero balenare sul mio. Dio ti salvi dai nemici di tua madre, o converta a te i loro cuori; e dove tu incontri un amico di tua madre, oh! per amore di me ricordati di lui!
Ah! presto presto i Soli dell'estate più non accendano per me il mattino, ed i venti dell'autunno più non agitino per me le fronde ingiallite, e nell'angusto albergo della morte imperversi l'inverno intorno di me, e gli estremi fiori onde s'orna la primavera fioriscano sulla mia pacifica tomba!
– 1838 —
LA VITA E LA MORTE
– DI VITALIS —
Alla mattina io stetti sull'alto della montagna bella dei fiori di maggio, e vidi il sorgere del giorno lieto d'oro, e di porpora, e gridai: – o Vita come sei bella!
Era già l'ora, che il Sole sorgeva, e gli uccelli cominciavano sui rami a cantare: e l'ora, e l'armonia, mi destarono in petto vaghezza di canto, e un ardore di passioni sublimi.
E in quel punto il mio spirito si mosse al desiderio di stendere il volo lontano dalla sua dimora, si mosse al desiderio di errare come il Sole di piaggia in piaggia creatore dei fiori, e della luce.
Alla sera io stetti sull'alto della montagna, e rapito nelle preci devote vidi il sorgere della notte lieta d'argento, e di porpora, e gridai: – o Morte come sei bella!
E quando il venticello della sera venne gentile col suo fiato di balsamo, sembrommi allora, che la natura mi baciasse le guancie, e teneramente sospirasse il mio nome.
Io vidi la larghezza del cielo diffusa intorno all'universo; e gli astri venivano al cielo come fanciulli: allora le gesta degli uomini mi parvero piccole; non conobbi di grande, che il nome dell'Infinito.
Oh! come sfuma il sorriso, che veste le gioie, e le speranze terrene, allorchè nel petto al Poeta gli eterni pensieri sorgono come in cielo le stelle!
– 183840 —
LA CANZONE DELLA SERA DELLO STRANIERO
– DI WERNER —
Io scendo dalla montagna, e la valle riposa, e il mare romoreggia; io vado ramingando tacito e malinconico, e un sospiro sempre dimanda: – dove?
Il Sole qui mi par freddo, e i fiori appassiti, e vecchia la vita; e l'idioma che gli uomini parlano, uno strepito discorde: – io sono dappertutto straniero.
Dove sei, o mia terra diletta, cercata, presentita, e non mai conosciuta? o mia terra così bella, e verde di speranza? o terra dove le mie rose fioriscono?
Dove erano le mie visioni, dove i miei morti riposano? la terra che parla il mio linguaggio, ed ha tutto ciò che mi manca?
Io vado ramingando tacito e malinconico, e sempre un sospiro dimanda: – dove? – E l'aure riportano indietro il sospiro, che dice: – dove tu non sei, là fiorisce la felicità.
– 183841 —
SCENA QUARTA DEL TERZO ATTO
NELLA MARIA STUARDA
– DI SCHILLER —
Elisabetta
Come si chiama il luogo?
Dudley, Conte di Leicester
Il castello di Fotheringay.
Elisabetta
Rimandate a Londra il séguito della nostra caccia; il popolo si accalca troppo per le strade, – e noi cerchiamo un ricovero in questo parco tranquillo.
(Talbot allontana il séguito. Ella fissa gli occhi in Maria seguitando a parlare con Pauleto).
Il mio buon popolo mi ama soverchiamente. Smoderati, idolatrici, sono i segni della sua gioia; – così si onora un Dio, non un mortale.
Maria
(la quale in questo frattempo si era appoggiata mezzo svenuta sulla nutrice, ora si alza, e i suoi occhi incontrano lo sguardo teso di Elisabetta. Essa ne raccapriccia, e si abbandona di nuovo sul seno della nutrice).
O Dio! da quei lineamenti il cuore non parla.
Elisabetta
Chi è la Signora?
(Silenzio universale).
Leicester
Tu sei a Fotheringay, o Regina.
Elisabetta
(si mostra sorpresa e stupefatta, volgendo un'occhiata cupa a Leicester).
Chi mi fece un tal tratto? Lord Leicester!
Leicester
La cosa è fatta, o regina; ed or che il cielo avviò i tuoi passi a questa volta, lascia che la magnanimità e la compassione trionfino.
Talbot, Conte di Shrewsbury
Consenti, donna reale, a piegare il tuo sguardo sull'infelice, che si curva alla tua presenza.
(Maria si raccoglie, e vuole andare incontro a Elisabetta, ma si ferma a mezzo rabbrividendo tutta; i suoi gesti esprimono una violentissima agitazione).
Elisabetta
Come, Milordi? Chi fu dunque colui, che mi annunziava un inchino profondo? Io trovo invece una superba in nessuna guisa domata dall'infortunio.
Maria
E sia così. Anche a questo io vo' sottomettermi. Va, fuggi, invalido orgoglio di un'anima generosa! Io dimenticherò chi sono, e quel che soffersi, e mi getterò ai piedi di colei, che mi travolse in questa ignominia.
(Si volta verso la regina).
Sorella, il cielo ha deciso per voi! – La fronte vostra fortunata è cinta della vittoria; – io adoro il Dio, che tanto vi sublimava.
(Le cade ai piedi).
Ma siate ben anche voi magnanima, o sorella! Non mi lasciate giacere piena di avvilimento! Stendete la vostra mano, porgetemi la destra reale per sollevarmi dalla profonda caduta!
Elisabetta
(ritraendosi).
Lady Maria, voi siete al vostro luogo, e ringraziando lodo la bontà del mio Dio, che non abbia voluto prostrarmi ai piedi vostri come or voi siete ai miei.
Maria
(con affetto crescente).
Pensate alle rivoluzioni delle cose umane! Vivono Dei, che fanno vendetta della superbia; e venerate, temete questi terribili Dei, che mi atterrano ai piedi vostri! Per rispetto di questi stranieri spettatori, in me onorate voi stessa! Non profanate, non vergognate il sangue dei Tudor, che nelle mie scorre come nelle vostre vene. Dio del cielo! non state là dura, inaccessibile, come lo scoglio che il naufrago contende invano di afferrare. Tutto, la mia vita, la mia sorte, pendono dalla forza delle mie parole, delle mie lacrime; scioglietemi il cuore onde io commuova il vostro! Se voi mi guardate con quel guardo ghiacciato, dal ribrezzo il cuore mi si serra, la corrente del pianto ristagna, e un freddo orrore m'incatena le preghiere nel petto.
Elisabetta
(fredda e severa).
Che avete a dirmi, Lady Stuarda? Voi desideraste parlarmi. Ecco, io mi scordo la regina, la tanto gravemente offesa regina, per adempiere l'ufficio pietoso di sorella, e concedervi il conforto della mia presenza. Io séguito l'istinto di un animo grande, e mi espongo ad un biasimo ben meritato scendendo tanto in fondo… poichè voi ben sapete, che un tempo voleste farmi ammazzare.
Maria
Donde darò principio, e con quale artificio disporrò le mie parole, perchè vi si appiglino al cuore, ma non vi offendano? O Dio, invigorisci la mia eloquenza, levandole ogni spina, che potesse pungere! Ma tuttavia io non posso parlare a mio pro, senza gravemente accusarvi; e nol vorrei. Voi mi avete trattata come non è giusto, dacchè io sono regina non altrimenti che voi, e voi mi avete tenuta come prigione. Io venni a voi come supplice, e voi in me violando le sante leggi della ospitalità, e il santo diritto delle genti, mi chiudeste fra le mura di un carcere; – gli amici e i servi crudelmente mi furono a forza tolti; – abbandonata in una ignobile miseria; – tradotta dinnanzi a un vituperevole tribunale. – Ma non più di questo! Un eterno oblio cuopra le durezze da me patite. Vedete! Io voglio chiamar tutto questo un destino; voi non siete rea, nè io il sono; – un cattivo spirito si levò dall'inferno per infiammare nei nostri cuori l'odio, che già disunì la nostra tenera giovanezza. L'odio crebbe con noi, e tristi uomini aggiunsero soffio alla malaugurata fiamma. Stolidi fanatici la non chiesta mano armarono di spada e di stiletto. – Destino maledetto dei re è che rissando squarcino il mondo coll'odio, e scatenino tutte le furie della discordia. Ora di mezzo a noi non è più bocca straniera.
(Le si avvicina fiduciosa, e con aria carezzevole).
Noi stiamo adesso a fronte l'una dell'altra. Or favellate, o sorella! Nominate la mia colpa; – io voglio sodisfarvi pienamente di tutto. Ah! se voi mi aveste dato ascolto in quel tempo, che io tanto bramosamente cercava vedervi! Le cose non sarebbero trascorse tant'oltre, nè in questo tristo luogo ora succederebbe un doloroso e sciagurato incontro.
Elisabetta
La mia buona stella mi salvò dal mettermi in seno la vipera. Non incolpate il destino, ma il vostro cuore tenebroso, e la feroce ambizione della casa vostra. Nessuna cosa nemica era accaduta fra noi, quando il vostro zio, l'orgoglioso prete feudale, che la mano audace stende a tutte le corone, m'indisse la guerra, vi allucinò a pigliare le mie armi, a farvi proprio il mio titolo regale, a scender meco in un agone di morte e di vita. Che non mi sollevò contro costui? La lingua dei sacerdoti, – la spada dei popoli, – tremende armi di una religiosa frenesia; fino qui nella sede pacifica del mio regno soffiò le fiamme della ribellione; ma Dio è con me, e il vanitoso prete non tiene il campo. – Il colpo alla mia testa fu vibrato, e cade la vostra!
Maria
Io sto nelle mani di Dio. Voi non eccederete così sanguinosa la vostra potenza…
Elisabetta
Chi me lo impedirà? Il zio vostro diè a tutti i re del mondo l'esempio del come si faccia pace coi proprii nemici. La festa di S. Bartolomeo sia la mia scuola! Cos'è a me il vincolo del sangue, il diritto delle genti? La Chiesa scioglie ogni legame di dovere, – consacra la rotta fede, e il regicidio; – adesso io pratico quello che insegnano i preti vostri. Dite! qual pegno mi assicura di voi, quand'io magnanima sciogliessi le vostre catene? In qual castello custodirò la fede vostra, che le chiavi di S. Pietro non possano aprirlo? La forza unicamente assecura; – colla razza delle vipere non v'è alleanza.
Maria
Ahi! son questi i vostri neri funesti sospetti! Voi mi teneste sempre in conto come di nemica, e di straniera. Se voi mi aveste dichiarata erede vostra come a me si appartiene, gratitudine e amore vi avrebbero mantenuta in me una leale amica e parente.
Elisabetta
Al di fuori, Lady Stuarda, sono le amicizie vostre; casa vostra è il Papismo, vostri fratelli i frati. – Voi dichiarare erede, voi! Viluppo di tradimenti! – Affinchè in vita mia il mio popolo corrompeste, ed insidiosa Armida traeste nelle reti sottili dei vostri vezzi la nobile gioventù del mio regno; – affinchè tutto si voltasse dalla parte del nuovo Sole nascente, e io…
Maria
Regnate in pace! Io rinunzio ogni titolo su questo regno. Ah! le ali del mio spirito son tronche; – la grandezza più non mi tira: – voi l'avete ottenuta; – io non sono che l'ombra di Maria. La generosa anima si è spenta nel lungo vilipendio del carcere. – Voi avete fatto l'estremo contro di me, mi avete distrutta sul fiore. Or fate fine, o sorella! Parlate la parola per cui siete venuta; nè io vorrò creder mai, che voi veniste per irridere barbaramente la vostra vittima. Parlate questa parola! Ditemi: – voi siete libera, o Maria! Avete provata la mia potenza, adesso imparate ad onorare la mia magnanimità. – Ditelo, ed io riceverò la vita, la libertà, come un dono delle vostre mani. Una parola rende tutto non avvenuto. Io l'aspetto. Oh! non mi fate più a lungo struggere di desiderio. Guai a voi, se non finite con questa parola! Imperciocchè se voi or non partite da me benefica, generosa, come una Divinità, – sorella! non per tutta questa ricca Isola, non per tutte le terre che il mar circonda, vorrei stare dinnanzi a voi come voi state dinnanzi a me!
Elisabetta
Vi date alfine per vinta? Abbandonate le frodi vostre? Non vi son più assassini pronti a ferire? non vorrà più nessuno avventuriere cimentare per voi la trista cavalleria? Sì, tutto è finito. Lady Maria; – voi non sedurrete più nessuno contro di me. Il mondo ha ben altre cure: a nessuno talenta diventare il vostro – quarto marito; dacchè voi uccideste i vostri amanti al pari dei vostri mariti.
Maria
(con impeto).
Sorella! sorella! O Dio! Dio! dàmmi moderazione!
Elisabetta
(la guarda lungamente con occhio di superbo disprezzo).
Questa è pertanto la leggiadria, Lord Leicester, che nessuno impunemente rimira, cui nessuna altra donna ardisce paragonarsi! Certo! è gloria da conseguirsi con poco! Per esser la bellezza comune altro non costa che farsi a tutti comune!
Maria
Questo è troppo!
Elisabetta
(con riso beffardo)
Ora voi mostrate l'aspetto vostro sincero; fin qui non fu che una maschera.
Maria
(accesa di collera, ma con nobile decoro).
Io ho fallato umanamente, e da giovane; il potere mi traviò, nè l'ho taciuto, o nascosto, ma con reale franchezza ho dispregiato le false apparenze. Il mondo sa il peggio di me, ed io posso dire d'esser migliore della mia reputazione. Guai a voi, se un tempo leverete dalle vostre azioni quel manto di onore, onde voi splendidamente coprite le fiere voglie di una segreta libidine! Da vostra madre non aveste in retaggio l'onestà; e tutti sanno per via di quali virtù Anna Bolena ascendeva sul palco.
Shrewsbury
(entrando di mezzo alle due regine).
O Dio del cielo! a questo doveasi giugnere! Lady Maria, è questa forse moderatezza, sottomissione?
Maria
Moderatezza! io ho sofferto quanto l'uomo può soffrire. Esci, o rassegnazione, dal cuore d'agnello! vola in cielo, tollerante pazienza! rompi i tuoi legami, esci dalla tua spelonca, o rancore così a lungo racchiuso! – e tu, che all'irritato basilisco desti lo sguardo omicida, tu ponmi sulla lingua l'avvelenata freccia!42
Shrewsbury
Oh! ella è fuor di senno! Perdonate in lei il furore, la potente irritazione!
(Elisabetta, muta di collera, lancia occhiate furiose sopra Maria).
Leicester
(nella più veemente agitazione tenta di menar via Elisabetta).
Non dare orecchio alla forsennata! Fuori, fuori di questo luogo malaugurato!
Maria
Il trono d'Inghilterra è da una bastarda profanato: – il nobile Popolo Brittanno è da una scaltrita giocolatrice ingannato. Se il Dritto regnasse, or voi sareste nella polvere dinnanzi a me, perchè io sono la vostra regina.
(Elisabetta parte rapidamente; i Lordi la seguitano nella più alta confusione).
– 18…? —
SISMONDO DE SISMONDI
SISMONDO DE SISMONDI
– DI ALFREDO REUMONT —
L'Italia più d'ogni altro paese ha sempre attratto ed occupato di sè i forestieri; nè intendo per questo ch'ella se n'abbia a rallegrare; poichè cosa abbia fruttato questa forza d'attrazione, osservata sotto l'aspetto politico, noi lo vediamo ogni giorno con gli occhi nostri senza bisogno di svolgere le pagine dei suoi annali, e sotto l'aspetto letterario ce lo dimostrano quelle infinite sozzure, le quali anno per anno riboccano dai torchi di Francia, d'Inghilterra, e sopratutto d'Alemagna, il perchè fu detto ingegnosamente l'Italia essere stata mai sempre oltraggiata in antico dalle armi, e adesso dalle penne dei Barbari che la visitano. – Ma per fortuna, e come ragion vuole, non sono mancati mai a quando a quando uomini ragguardevoli, che facessero questa terra soggetto dei loro studi, e massimamente nel genere storico gl'Italiani vanno debitori d'assai ai forestieri. E per non dire dei più antichi, e di quei tanti che trattarono la Storia delle Arti, Roscoe, Hallam, Shepherd, Perceval, Ginguené, Daru, Fauriel, Artaud, il Duca de Luynes, Lebret, Bouterweck, Voigt, Schlosser, Savigny, Raumer, Hurter, Rancke, Witte, Leo, Gervinus, Barlhold, Höfler, C. Meyer, Rudelbach, Gaye, Papencordt, Dönniges, ed altri molti, hanno pagato un ricco tributo di devozione e di affetto al bel paese ove il sì suona. Ma più di tutti è da nominarsi il Sismondi, e per quanto egli si occupasse seriamente d'altri popoli ancora, e d'altri paesi, il suo cuore appartenne all'Italia, e agli Italiani, e s'immedesimò nella gloria e nella grandezza di lei, e partecipò caldamente ai suoi avversi destini, considerando quella terra come sua patria, e come amici e fratelli i suoi abitatori.
Gio. Carlo Leonardo Sismondo De Sismondi, nacque a Ginevra il 9 maggio 1773. Egli apparteneva a famiglia di origine Toscana, e nel Canto XXXIII dell'Inferno di Dante, Ugolino della Gherardesca insieme ai Gualandi e ai Lanfranchi rammenta i Sismondi tra le grandi casate di Pisa. Al principio del Secolo XVI questa famiglia cambiò l'Italia colla Francia, e dipoi colla Svizzera francese. Egli non aveva anche bene 20 anni, che la Rivoluzione lo cacciò co' suoi in Inghilterra, e ritornato lo multò di pecunia e di prigione, poi lo ricacciò di nuovo, ma questa volta in Toscana, dove sulle prime, e durante la conquista francese, ebbe a sostenere più e diverse vicende. Per la qual cosa nel proemio agli Studi sull'Economia politica si esprime per tal modo: «Per lo spazio di 16 anni io sono stato iteratamente il giuoco delle rivoluzioni, che la lotta cominciata nell'ottantanove suscitò in ogni parte del corpo sociale. Ho sofferto nella persona e negli averi, e ho riguardato da vicino le passioni del popolo mescolandomi a quelle, e così ogni studio e meditazione di cui fossi capace ho congiunto a quella esperienza che mi diedero gli avvenimenti, dei quali talvolta mio malgrado fui testimone».
Sulla riva destra dell'Arno tra Firenze e Lucca giace una grande vallata per dove scorre la Nievole, che le dà il nome, in alcuni luoghi paludosa e malsana, ma più in antico, perchè nelle battaglie di quei vicini stati fino ai tempi del gran Castruccio interi eserciti su quel suolo perivano, ed oggi assai meno, perchè il male in gran parte fu rimediato. La valle però nel complesso è oltremodo fertile, e coltivata accuratamente a guisa d'immenso giardino, traversata da una fila di colline ricche di viti, e a settentrione difesa dalle selvose e pittoresche montagne di Pistoia. Chi poi da Pistoia movendo scende giù per le forre di Serravalle alle salutifere e frequentate sorgenti di Montecatini, e di là si reca alla deliziosa Pescia capoluogo della valle, comprende appieno la bellezza di questo paese, di cui il Sismondi ritrasse con sì liete immagini l'agricoltura, e gli uomini. A Pescia pertanto dimorò lungo tempo il Sismondi, rattenendolo ancora i legami di famiglia, perchè la sua sorella Sara si maritò con un gentiluomo assai riputato del luogo, Antonio Cosimo Forti, il di cui figlio Francesco, giovane di bellissimo ingegno, e giureconsulto profondo, fu rapito troppo presto alle scienze; e quivi più tardi egli si comperò un possesso, e in ultimo vi passò molte ore felici nel 1836, e 37. E fu nella sua lunga dimora in Toscana, che gli si destò nell'animo l'idea di scrivere la Storia d'Italia del Medio-Evo; e con quella diligenza e tenacità proprie di colui, che dalle indagini severe del soggetto aveva inferito e misurato la grandezza e le difficoltà dell'impresa si consacrò a quegli studii, che dovevano abilitarlo all'esecuzione del suo disegno. E circa il 1800 principiarono le sue ricerche, e otto anni dopo comparve la prima parte della Storia delle Repubbliche Italiane del Medio-Evo. Tornato a Ginevra continuò i suoi studii, tenne lezioni di Storia politica e letteraria in un cerchio d'uomini e di donne, prese molta parte nel governo e negli affari, fece lunghi viaggi nella sua patria, in Inghilterra, in Alemagna, e visitò da capo l'Italia, di cui apprese a conoscere ogni luogo, di cui prediligeva gli abitatori, e dove trovò tante e siffatte accoglienze, e cortesie, e ricambi d'amore, che dovevano a forza far buono al suo cuore. E i segni d'amicizia e di reverenza, che gli erano fatti colà, soleva pregiare più altamente di quelli, che in egual misura gli erano fatti altrove. Perfino nell'ultima dolorosa infermità, un cancro dello stomaco, ove più o meno sofferse due anni di séguito, lo teneva preso incessantemente il pensiero, compiuta la Storia dei Francesi, di tornarsene a Pescia, e quivi colla sua moglie inglese, alla quale già attempato si era stretto in felice matrimonio, chiudere la vita in mezzo ai suoi nepoti superstiti. E di fatti alla fine del passato Maggio scriveva ad un Fiorentino suo amico, che come prima potesse intendeva venire in Toscana, e aver già mandato una parte dei suoi libri. Ma egli morì il 25 Giugno a Chêne sua villa presso Ginevra.
Le opere letterarie del Sismondi, frutto d'una vita ben travagliata, hanno fatto il suo nome immortale, e per quanti obietti in genere o in ispecie possano farsi alle sue grandi opere, conviene pur sempre annoverarlo tra i più notabili Storici del Secolo XIX. Nè questo è il luogo di passarle per esteso in esame, tanto più che poco o assai sono state tutte ad una ad una riviste; ma ben possiamo riunirle, e delinearne il carattere generale, ora che lo Scrittore è sparito, e in sua vece ci stanno dinnanzi aperti i suoi scritti. Ed apriremo la serie colla prima grand'opera, la Storia delle Repubbliche Italiane del Medio-Evo. Lodovico Antonio Muratori fu il primo, che la massa immane di notizie custodite nelle cronache e nelle storie raccolse e ordinò nei suoi Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1500, che poscia continuò sino al 1749. E nessuno era più acconcio di lui a quel lavoro, poichè la pubblicazione della gran raccolta degli Scrittori delle Cose Italiche lo aveva messo dentro alla perfetta cognizione d'infiniti documenti storici di quella fatta, e così ebbe campo, esercitando il suo acume, il suo spirito d'ordine, ed una instancabile diligenza, di procacciarsi una dottrina smisurata. Però questi Annali non sono propriamente una storia ben elaborata; raccontano anno per anno quello che accadde, mettendo sulla scena una dopo l'altra terre e città, senza che l'uomo acquisti un'idea netta dello sviluppo organico, che si opera nella vita sociale; i fatti soli stanno là, e il più che si pone mente è alle guerre, e agli avvenimenti esterni, senza rilevare i cambiamenti nelle costituzioni, le quali per tal modo riesce arduo spiegare, se non impossibile. – Lo stile è quello d'una narrazione affollata, disadorna, e spesso mancante troppo di dignità. Nondimeno questi Annali sono l'aiuto il più efficace per ritrovarsi nel labirinto delle storie delle città italiane, ma leggerli per intiero, o volervi imparare la Storia, non sarebbe sì agevole. Dal Muratori al Sismondi gl'Italiani fecero poco per la loro storia universale. Le Rivoluzioni d'Italia del Denina, uscite la prima volta nel 1769, sono un libro assai letto, ma fatto piuttosto per la comune dei lettori, che per i dotti; scritto però con spirito e vivacità, e per questo ristampato sovente, e per le mani di tutti, sebbene gli uomini oggi pretendano più assai dalle storie, e molti punti di quel libro non reggano di fronte alla critica. Queste due opere sono le uniche, che trattino a mia saputa la storia d'Italia fino ai tempi più recenti. Dopo il libro del Denina non venne cosa che meriti discorso, e l'opera molto studiata del Tedesco Lebret fu appena conosciuta di quà dall'Alpi. – Ora poi, che la prima Storia del Medio-Evo Italiano completa e ben fatta uscisse dalla mente d'uno straniero, nessuno l'avrebbe aspettato. Ben è vero, che ella fu scritta sotto cielo italiano, anzi in Toscana, il centro vero della Civiltà Italica, il foco dove convergono i raggi della gloria dei secoli di mezzo, il paese che meglio d'ogni altro chiarisce gli eventi e gli effetti che ne uscirono, dove meglio che altrove allo spirito d'indagine vengono offerti aiuti, lumi e conforti. La prima parte delle Repubbliche Italiane apparve nel 1807, e or sono due anni uscì la terza edizione in Parigi, senza contare le ristampe del Belgio, e le traduzioni italiane, e tedesche. Dalla formazione dei liberi stati, dalla lotta dei Municipi colla supremazia imperiale, dal trionfo dei primi, e dall'infiacchimento dell'ultima, questa Storia arriva sino all'epoca di Carlo V, nella quale l'Italia parte obbediva agli stranieri, come il regno delle due Sicilie, e il Ducato di Milano, parte a Signori nazionali, alcuni dei quali portavano il titolo di vassalli dell'Impero, alcuni del Papa, e altri ambedue questi titoli, ma in sostanza governavano assai liberamente, come i Duchi di Savoia, Mantova, Ferrara, Massa, Urbino, e via discorrendo; e delle Repubbliche rimaste in piedi, Venezia benchè d'assai indebolita manteneva sempre una grande potenza, Genova faticosamente si destreggiava tra Francia e l'Impero, Lucca e Siena esistevano per grazia speciale, e la seconda per poco, mentre Firenze, dopo tre anni di sforzi magnanimi per rompere le catene in cui l'avevano messa i suoi cittadini, periva per sempre. E così il Sismondi imprese a descrivere l'epoca la più importante, la più viva, la più operosa della storia d'Italia, dedicandosi a questa impresa con tal calore da mettere in evidenza quanta parte prendesse nel fato di quei popoli, e con quella costanza di proposito, e dignità di coscienza, che a così alto grado l'innalzano come scrittore. Studiò colla più grande applicazione, e adoperò tutti i materiali che potè avere, nè gli rimase sconosciuta cronaca importante, o storia che valesse. Ma per quanto io sappia non fece ricerche di archivi, e si servì affatto di cose stampate. Le materie pertanto così radunate dispose in bell'ordine, e compose l'opera. Lo stile è scorrevole e chiaro, e si trova nel Sismondi quel singolare dono che hanno i Francesi della lucidità e precisione, senza potergli apporre la taccia di superficialità, di che sovente furono biasimati gli scrittori di quella nazione, massime i più antichi, giacchè molto diverso mostrasi l'operare di parecchi tra i moderni. E un benefico calore di sentimento spira per tutta l'opera, e i grandi avvenimenti sono dipinti con verità, e aggruppati con arte, e i personaggi hanno vita e movimento. Non di rado la narrazione si leva ad una certa grandiosità, e procede con andamento conveniente al soggetto, a vicenda concitato e tranquillo, e prende quell'ampiezza di spazio opportuna al giusto sviluppo dei caratteri, e alla retta estimazione delle circostanze. Ma l'opera non è di certo senza difetti, e molto potremmo opporre all'esattezza dei fatti, e la critica storica non è maneggiata con quell'acutezza, che in tanta e così disparata vastità di materie sarebbe stato necessario. Non è chi non senta, che l'Autore non ha studiato gli archivi, cosa per vero dire quasi impossibile nella composizione d'un libro, che abbraccia tanti stati, e tanti secoli, – e molte cose, che narra il Sismondi sulla fede di antichi scrittori, e in parte contemporanei, colla scoperta di documenti e d'altri testimoni hanno già presa diversa fisionomia e valore, e la vanno prendendo ogni giorno, nè può essere altrimenti col progredire delle ricerche e della scienza. La quantità dei fatti registrati nei ricordi municipali, il rimescolarsi continuo delle storie di tante città e famiglie, ne rendono spesso faticosa la lettura, e ne scemano l'effetto; e in una Storia avviluppata, inestricabile, com'è l'italiana, è fuor di modo difficile serbar le misure, e impedire, che tratto tratto non occorra una lista di nomi, e un nudo scheletro di avvenimenti e di affari, che mal corrispondono al concetto del lettore. Una delle parti più deboli dell'opera è lo sviluppo delle costituzioni repubblicane, e delle modificazioni che col tempo subirono, e qui non ci sono solamente lagune, ma molte cose che addirittura non reggono. – Le cognizioni del Sismondi intorno alla storia dei governi e del diritto, e intorno alla legislazione degli statuti, per quanto s'industriasse, erano scarse, nè bastavano all'uopo; e il modo onde espone l'ordinarsi delle città, cioè come si componessero delle amiche istituzioni romane, massime del Decurionato, delle costituzioni ecclesiastiche, delle immunità ed autorità dei vescovi nelle loro sedi, delle istituzioni Germaniche, e principalmente del magistrato degli Scabini, – il modo onde espone il nascimento delle leghe dei Comuni, che rappresentarono una parte così importante, la fondazione dei feudi e la posizione della nobiltà libera e della feudale, e le vicende della proprietà, che così essenzialmente si connettono alla forma politica delle nazioni, – questo modo, dico, lascia immensamente da desiderare, nessuno facendosi immagine giusta di siffatte cose, e trovandosi come smarrito in regione mezzo incognita. E così il difetto di precisione e di lucidezza nel rappresentare le condizioni di quei tempi più antichi ha dovuto esercitare per forza un cattivo influsso sul modo di ritrarre e distinguere i successivi.
Questo canto, di cui s'ignorò per qualche tempo l'origine, fu successivamente da alcuni attribuito a Lord Byron; ma poi si accertò esserne autore Carlo Wolfe, spento anch'egli sul fiore degli anni, e delle speranze. – Sir Giovanni Moore soccombè nella battaglia di Coruna sostenuta il 16 Gennaio 1808 dagl'Inglesi contro le truppe francesi, che invadevano allora la Spagna.
Il Ferrario traduce: «E tu, cui l'incantato basilisco diede lo sguardo di morte, poni sulla mia bocca l'avvelenata saetta». – Vedi Teatro scelto di Schiller, trad. da P. Ferrario; vol. II, pag. 125, – Mil. 1819.