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POESIE VARIE
IL PRIGIONIERO DI CHILLON29
POEMA ROMANTICO
– DI LORD BYRON —
I
I miei capelli sono grigi, ma non dagli anni; nè in una notte30 imbiancarono, come avvenne talvolta per súbita paura; curve ho le membra, ma non dalle fatiche; elle si contrassero in un vile riposo, dacchè furono preda della prigione, e a me toccò la sorte di coloro cui fu negato godere la bellezza della terra, e dell'aria. Ma io soffersi le catene, e stetti vicino alla morte per la fede del padre mio: e il padre mio periva alla tortura per massime, che non volle abbandonare, e per questo i suoi figli trovarono stanza nelle tenebre. Noi eravamo sette, ed ora sol uno rimane; sei giovani e un vecchio finivano come incominciarono, alteri della persecuzione. Uno sul fuoco, e due sul campo confermavano la fede loro col sangue, morendo come il padre moriva. Tre furono gittati in una carcere; e di questi io sono il misero avanzo.
II
Nelle antiche e profonde prigioni di Chillon sorgono sette colonne di gotica struttura, sette colonne grigie, e massiccie, e tetre di un raggio racchiuso, un raggio di Sole, che ha smarrita la via, e per una fessura delle grosse muraglie è caduto strisciando sull'umido pavimento a guisa della meteora sulla palude. È in ogni colonna un anello, e in ogni anello una catena; e quel ferro rode, – perchè il segno dei suoi denti rimane in queste membra, nè andrà via finchè io non abbia finito questo nuovo giorno ora penoso agli occhi miei, – i quali non hanno veduto così sorgere il Sole per anni, che io non posso numerare, perchè ho perduta la memoria di numero sì lungo e gravoso, fin da quando l'ultimo fratel mio di lenta morte moriva, ed io stetti vivo al suo fianco.
III
C'incatenarono alle colonne, – ed eravamo tre; – pure ognuno era solo: noi non potevamo muovere un passo, nè vederci l'un l'altro, se non a quella pallida e livida luce, che ci faceva nell'aspetto stranieri: e così insieme, benchè separati, colle mani in catene, e coll'affanno nel cuore, nella penuria dei puri elementi della terra, era un sollievo udirci favellare a vicenda, e l'uno volgersi a conforto dell'altro con una nuova speranza, o un'antica leggenda, o una canzone di eroico ardimento; ma queste cose ancora finalmente affreddavansi, e le nostre voci prendevano un suono terribile, – l'eco della prigione; – un suono stridente, non pieno, e libero come prima: – e sarà fantasia, ma quelle voci più non mi suonavano come nostre.
IV
Io era il maggiore dei tre fratelli, e doveva sostenerne il coraggio, e feci il mio meglio, e tutti fecero bene secondo la loro potenza. L'anima mia era commossa di dolore pel fratello più giovane; il padre lo amava sopra tutti, perocchè avesse la sembianza di sua madre, e gli occhi azzurri come il cielo. In verità era sventura a vedere quell'uccello in tal nido; – egli era bello come il giorno, – allorquando il giorno mi pareva bello come all'aquile giovanette, e liete di libertà; – era bello come un giorno polare figlio nevoso di un Sole, che non giunge al tramonto, se non dopo lunghissima durata di luce. Così egli era puro, e luminoso, e gaio nel suo spirito ingenuo; nè per altro piangeva fuorchè per l'altrui sciagure, e le sue lacrime scorrevano come ruscelli di montagna, quando ei non poteva alleggerire il dolore, che aborriva di veder sulla terra.
V
L'altro era similmente puro dell'anima, ma creato a combattere colla sua specie; forte del corpo, e di tal cuore, che saria stato in guerra contro il mondo tutto, e sarebbe morto gioioso tra i primi. Ma non era fatto per consumarsi nelle catene; e il suo spirito sveniva nel cigolio dei ferri, e io tacitamente lo vedeva mancare; e così per avventura faceva il mio spirito, ma io lo strinsi a dar animo a quelle reliquie di una cara famiglia. Egli era stato cacciatore dei monti, inseguendo il lupo, ed il cervo: per lui la prigione era un abisso, e il piede avvinto il supremo dei mali.
VI
Presso alle mura di Chillon giace il lago Lemano; mille piedi giù nel profondo le masse dell'acqua s'incontrano, e scorrono; tanto fu misurato dal bianco baluardo31 di Chillon, che intorno è recinto dall'onda: e il muro, e l'onda, ne hanno fatto una doppia prigione, – un sepolcro di vivi. La volta oscura dove eravamo, giace sotto la superficie del lago: noi lo sentivamo fremere di giorno e di notte sulle nostre teste; ed io nell'inverno ho inteso lo spruzzo delle acque bagnare le ferriate, quando i venti erano alti, e imperversavano pel cielo felice; ed allora la roccia tremava, ed io immoto accoglieva quell'urto, perchè avrei sorriso alla morte, che mi avesse fatto libero.
VII
Io dissi, che il mio secondo fratello si consumava; io dissi, che il suo cuore potente sveniva: il cibo gli venne a fastidio, e non ne prendeva; non già che fosse mal dilicato, perchè noi eravamo avvezzi al pasto del cacciatore, nè il cibo ci dava pensiere. Il latte dalla capra montana fu scambiato con acqua dello stagno; e il pane era quel pane, che le lacrime dello schiavo bagnano da mille e mille anni, dopochè l'uomo per la prima volta chiuse i suoi simili come bruti in una prigione di ferro. Ma a noi, o a lui, che importava del pasto? Ciò non gli affliggeva il cuore, o le membra: l'anima del mio fratello aveva tempre siffatte, che in un palazzo sarebbe affreddata, se gli avessero negato di respirare liberamente sull'erta della montagna dirupata. Ma perchè differire il vero? – egli moriva. Io il vidi, ma non potei sorreggergli il capo, non potei stringergli la mano, nè quando moriva, nè quando fu morto, benchè a tutta forza mi dibattessi per rompere le mie catene. Egli morì; – e fu sciolto dai ferri, e gli scavarono angusta la fossa entro la fredda terra della nostra caverna. Io chiesi loro come una grazia, che ponessero il corpo da quella parte dove il giorno poteva splendere: – era un pensiere di follia, ma quel pensiere allora mi turbava il cervello, quasichè ancora nella morte il libero petto del fratel mio non potesse quietare in quella prigione. Oh! avessi risparmiata la mia vana preghiera! – Risero freddamente, e lo deposero laddove a lor piacque; e l'arida terra stette sopra colui, che amammo di tanto amore, e sopra la terra stettero le sue vuote catene, degno monumento di quell'omicidio.
VIII
Ma il fiore dei miei fratelli, il più diletto dopo la sua ora natale, che nel bel volto ritraeva l'immagine di sua madre, il tenero amore di tutta la sua schiatta, il pensiere più caro del martire suo padre, – l'ultima cura mia, – colui, onde io cercai tenere la vita, perchè egli vivesse allor meno misero, e libero un giorno, – colui, che per virtù di natura, o ispirato, pur sostenne franco il suo spirito, – quel fiore fu percosso, e di giorno in giorno appassiva sullo stelo. O Dio! come è tremendo a veder l'anima umana sciogliere il volo, sotto qualunque forma si parla! – Io ho veduto dipartirsi l'anima nel sangue; io l'ho veduta sui marosi dell'oceano contendere con un moto di convulsione disperata; io ho veduto l'infermo sul letto dell'agonia nel delirio del peccato, e della paura: ma le angoscie del mio fratello non erano miste a simili orrori; – il suo era un dolore lento, e sicuro. – Egli veniva meno, ma tranquillo, e mansueto; si consumava soavemente, e senza pianto, e pur con immensa tenerezza, – e si addolorava per coloro, che lasciavasi addietro. Egli aveva prima una guancia florida sì, da prendere a scherno la tomba; – una guancia da cui sparvero a mano a mano i colori, come un raggio dell'iride, che si dilegua; – egli aveva un occhio così vivo di luce da rischiararne quasi la carcere; pur non disse parola di lamento, non diè gemito sopra la sua morte immatura, non parlò un momento dei giorni più felici, non mostrò la più lieve delle speranze per suscitare almeno le mie, – perchè io era caduto in fondo al silenzio, io mi perdeva in questa perdita estrema, la maggiore di tutte. Il fratel mio sopprimeva il sospiro di una natura vicina a mancare; e via via più sommesso traendolo, venne al punto, che io tesi l'orecchio, e non ascoltai più nulla: frenetico di spavento, chiamai a gran voce, e conobbi, che più non vi era speranza; ma il mio timore non voleva quell'avviso, e dando una scossa fortissima ruppi le mie catene e precipitai verso il mio fratello… – era morto. Io solo viveva, io solo respirava l'alito maledetto di una prigione. In questo luogo fatale erasi spezzato l'ultimo, – l'unico, – il più caro legame fra me, e l'eterno abisso, – l'unico legame, che tuttavia mi stringesse alla mia schiatta cadente. I due miei fratelli avevano omai cessato di vivere: ed uno giaceva sulla terra, e l'altro sotto. Io presi quella mano immobile tanto; – ahimè! la mia non era meno fredda. Io non aveva vigore di muovermi, o di fare il minimo sforzo; ma io sentiva di aver sempre una vita, – sentimento di frenesia, quando sappiamo, che anime a noi care più non avranno una vita. Non so perchè non potessi morire: – non aveva speranza terrena, tranne la fede; e questa mi vietò, che io mi dessi colle mie mani la morte.
IX
Quello che allora e dipoi avvenisse di me, io nol so bene, e nol seppi giammai. Dapprima venne la perdita della luce, e dell'aria; quindi delle tenebre ancora. Io non aveva pensiere, nè sentimento, – nulla: – stetti una pietra fra le pietre; e mal sapendo quel ch'io immaginassi, era come l'arida rupe fra le nebbie, – perchè tutto era vuoto, freddo, ed oscuro: non era nè notte, nè giorno, neppure la luce della prigione odiosa tanto agli occhi miei gravi: era un vuoto, che assorbiva lo spazio; e qualche cosa di fisso, ma senza luogo. Non v'erano stelle, nè terra, nè tempo, nè legge, nè vicenda, nè bene, nè male: ma silenzio; e un respiro insensibile, nè di vita, nè di morte; un mare di ozio stagnante, oscuro, illimitato, muto, ed immobile.
X
Una luce mi balenò sulla mente: – era il canto di un uccello: – cessò, – e poi venne di nuovo; – il canto più dolce, che orecchie umane intendessero: ed io ringraziava, ascoltando, finchè i miei occhi in ogni parte si volgessero per la lieta sorpresa; ma in quell'istante non poterono scorgere come io fossi il figlio della sventura. Poi a grado a grado i miei sensi tornarono sull'usate traccie; ed io come per l'innanzi mi vidi attorno le mura della prigione, e il raggio di Sole, che vi penetrava furtivo; ma sulla fessura, donde quel raggio veniva, era posato l'uccello, tutto gaio, e dimestico, più che se fosse stato sull'albero; – un amabile uccello dall'ale azzurre; e il suo canto diceva mille cose, – e sembrava, che le dicesse tutte per me; io non aveva veduto in passato il suo simile, nè più lo vedrò. Pareva, che come a me gli mancasse un compagno; ma non era per metà così desolato: era venuto ad amarmi, nel punto che non viveva più nessuno per amarmi, – e consolandomi dalla fessura della mia prigione mi aveva ricondotto al sentimento, e al pensiere. Io non so, s'ei fosse libero di poco tempo, o se avesse rotta la sua gabbia per posare sulla mia: – ma ben sapendo, o diletto uccello, cosa sia schiavitù, non te la posso desiderare. – Era forse un angelo, che in forma d'alato mi visitava dal Paradiso? – perchè, (perdonimi il cielo questo pensiere,) mentre egli mi sforzava al pianto, e al sorriso, io pensai qualche volta, che fosse l'anima del fratel mio discesa a vedermi: ma finalmente l'uccello volossene via, ed era un mortale; – ben me ne accôrsi, perchè altrimenti così non sarebbe volato via, nè due volte mi avrebbe lasciato così solitario; – solitario, come un cadavere nel suo lenzuolo funereo; – solitario, come una nube in un giorno di Sole, mentre il resto del cielo è sereno; – un punto oscuro nell'atmosfera, che non ha motivo di apparire, mentre azzurro è il firmamento, e gaia la terra.
XI
Nel mio destino venne una vicenda: i miei custodi si fecero pietosi, nè io so perchè, – talmente erano avvezzi allo spettacolo del dolore; ma così fu, e la mia catena giacque spezzata, e mi venne concesso passeggiare lungo la mia cella da una banda, e dall'altra, e su, e giù, e per traverso, e in fine da ogni lato, e intorno ad una ad una delle colonne, ritornando sempre là donde io cominciava, e nel passeggiare schivando solo le tombe fraterne, dove non cresceva cespuglio; perchè se io pensava, che sbadatamente il mio piede avesse profanato l'umile letto del loro riposo, grave mi si affannava il respiro, e il cuore mancandomi mi cadeva ammalato.
XII
Io feci nel muro una scala, non già per fuggire, perchè io aveva sepolto tutti coloro, che mi amavano in forma umana; e quindi la terra intera non mi sarebbe apparsa, che una prigione più vasta. Io non aveva figlio, nè padre, nè parente, nè compagno nella mia miseria. Io pensai a questo, e ne fui lieto, dacchè il pensiere de' miei congiunti mi aveva travolto in follia. Ma io era curioso di salire alle mie ferriate, e di piegare un'altra volta sull'alte montagne la quiete d'uno sguardo innamorato.
XIII
Io le vidi; – erano le stesse, nè cangiate come il mio corpo: vidi sulla cima i loro mille anni di neve, – e di sotto a loro il lago largo, e lunghissimo, e il Rodano azzurro nella sua pienezza; intesi i torrenti sgorgando saltare su per le roccie, e sui rotti arbusti; vidi la lontana città dalle bianche mura, e vele più bianche, che giù correvano veloci; e allora v'era un'isoletta32, che mi rideva in faccia, l'unica, che fosse alla vista; – un'isoletta verde, e non sembrava più larga, che il pavimento del carcere mio. Ma sopra vi erano tre alberi alti, e vi spirava la brezza della montagna, e vicine le scorrevano le acque, e vi crescevano giovani fiori, gentili al fiato, e al colore. Nuotavano i pesci presso le mura del castello, e tutti mi parevano allegri: l'aquila correva sull'alto dei venti, nè mi parve corresse mai sì veloce come allora, che faceva sembiante di volare alla mia volta; e allora nuove lacrime mi tornarono negli occhi, ed io mi sentiva commosso, nè avrei voluto aver lasciata la mia recente catena: e quando io scesi al basso, la tenebra della mia dimora mi cadde sullo spirito come un peso gravissimo: era come una fossa scavata di fresco, che si chiuda sopra colui, che tentammo salvare; e pure il mio sguardo, oppresso di troppo, quasi aveva bisogno di un siffatto riposo.
XIV
I giorni, i mesi, e gli anni passano; – io non li numerai, nè vi posi mente: non aveva speranza di sollevare i miei occhi, e sgombrarli della tetra loro caligine. Finalmente uomini vennero a farmi libero; ma non ne chiesi la ragione, nè mi curai dove andare: per me era tutt'uno, starmi sciolto, o nei ferri; – io aveva imparato ad amare la disperazione. E così quando vennero a sciogliere i miei legami, quelle orride mura erano per me diventate un eremitaggio; – erano per me tutto il mio, e nel cuore quasi sentiva come se quegli uomini fossero venuti a strapparmi un'altra volta dalla mia casa paterna. Io mi era fatto amico al ragno, osservandolo attento nelle triste sue reti, e aveva veduto il sorcio trescare al lume della luna: e perchè avrei dovuto sentire meno di loro? Eravamo tutti abitanti di un luogo medesimo, ed io monarca d'ogni razza aveva potenza di uccidere; – pur, cosa strana a narrarsi, noi avevamo imparato a vivere in pace. Perfino le mie stesse catene, ed io, eravamo diventati amici, – talmente una lunga comunanza tende a farci quel che noi siamo; – io dunque ricuperai la mia libertà con un sospiro.
– 183033 —
PROMETEO
– DI LORD BYRON —
Titano! tu con gli occhi immortali vedesti nella trista loro realtà gli affanni umani, come cose che mal si trascuravano dagli Dei; ma qual era il premio della tua pietà? Un soffrire tacito, intenso; la rupe, l'avvoltoio, e la catena; – tutto il dolore che possono sentire i superbi, tutta l'agonia che non rivelano mai, – quel senso soffocato d'angoscia, che non parla fuorchè nella sua solitudine, e teme geloso, che il cielo non abbia un orecchio per ascoltare, nè vuol sospirare finchè la sua voce non sia rimasta senz'eco.
Titano! a te fu data la lotta tra il soffrire e il volere, cose che tormentano in quella parte che non può morire. E il cielo inesorabile, e la sorda tirannia del Fato, il principio dominatore dell'odio, che per suo trastullo crea le cose che può annientare, ti rifiutarono la sorte del morire: – un miserabile dono fu tuo l'eternità, e tu l'hai ben sopportato. – Tutto ciò che il Tonante strappò da te, fu solo la minaccia che gli lanciasti contro negli spasimi della tortura. Ben tu leggesti nel Fato, ma per placarlo non volesti ridirglielo; e nel tuo silenzio fu la sua sentenza, e nella sua anima un inutile pentimento, e una paura così mal dissimulata, che i fulmini gli tremavano nella destra.
Il tuo celeste delitto fu l'essere umano, e sminuire coi tuoi precetti la somma delle umane miserie, e afforzare l'uomo della sua propria mente; ma tradito come fosti dall'alto, pure dalla tua tranquilla energia, dalla tua pazienza, e dalla repulsa del tuo spirito impenetrabile, che Cielo e Terra non poterono scuotere, ereditammo una potente lezione: Tu sei simbolo e segno al mortale del suo destino, e della sua forza; l'uomo, come te, in parte è divino, torbido rivo d'una pura sorgente, e l'uomo in parte può prevedere il suo funesto destino, le sue sventure, la sua resistenza, e un'esistenza mesta, solitaria; al che il suo spirito può opporre sè stesso, scudo a tutti i mali, – e un saldo volere, e un senso profondo, che valga a scoprire, concentrata anche nei tormenti, la sua ricompensa; che trionfi dovunque osa, ed aspira, e converta la morte in vittoria.
– 183834 —
VI FU UN TEMPO
– DI LORD BYRON —
Vi fu un tempo, che non importa rammentare, perchè non sarà dimenticato mai, quando tutti i nostri sentimenti erano li stessi, come l'anima mia è stata sempre per te.
E da quell'ora in che la tua lingua confessò la prima volta un amore uguale al mio, sebbene molti dolori abbiano lacerato il mio cuore, dolori sconosciuti, e non sentiti dal tuo;
Pure nessun dolore, nessuno, l'ha trafitto così profondamente come questo, il pensare che tutto quell'amore è svanito rapido e fugace come i tuoi baci infedeli, rapido e fugace nel tuo petto soltanto.
Eppure il mio cuore trovò un qualche sollievo, quando, non ha molto, udì sonare dalle tue labbra in accenti, una volta immaginati veri, la rimembranza dei giorni che furono.
Sì, mia diletta e crudele signora, tu non amerai più un'altra volta; ma per me è dolcezza ineffabile il sapere, che ti rimanga una memoria di quell'amore.
Questo è un glorioso pensiere per me, nè l'anima mia andrà più tanto contristata; – qualunque tu sia, o sarai, tu fosti una volta caramente, unicamente, mia.
– 183835 —
E TU PIANGERAI QUAND'IO SARÒ MORTO
– DI LORD BYRON —
E tu piangerai quand'io sarò morto, o dolce mia Donna? Oh! ripeti quelle parole, – ma non le dire, se ti dolgono; io non vorrei dare un affanno al tuo seno.
È mesto il mio cuore, e le mie speranze sono svanite, e il sangue mi scorre freddo nelle vene, – e quando io morrò, tu sola verrai a sospirare sul luogo dove riposo.
Eppure parmi che un raggio di pace rompa traverso la nube delle mie angoscie; – e per un tratto i miei dolori si fermano, conoscendo che il tuo cuore ha sentito per me.
O Donna! benedetta la lacrima versata per uno, che non può piangere; quelle goccie preziose sono doppiamente care a colui, che non può bagnare d'una stilla i suoi occhi.
Una volta il mio cuore, o dolce mia Donna, era caldo di teneri sensi come il tuo; ma ora perfino la bellezza ha cessato d'incantare un infelice creato a gemere.
Piangerai tu dunque quand'io sarò morto, o dolce mia Donna? Oh! ripeti quelle parole, – ma non le dire, se ti dolgono, perchè non vorrei dare un affanno al tuo seno.
– 183836 —
LE TENEBRE
– DI LORD BYRON —
Mi feci un sogno, che non era tutto sogno. Il Sole luminoso era spento, e le stelle erravano buie nell'eterno spazio senza raggi e senza sentiero, e la terra ghiacciata oscillava cieca e nereggiante per l'aria senza Luna; venne il mattino, e passò; rivenne, e non portò il giorno. E gli uomini dimenticavano le passioni nella paura di tanta desolazione, e tutti i cuori erano agghiacciati nell'egoismo d'una preghiera alla luce, e vivevano tutti raccolti ai focolari, e i troni, i palazzi dei re coronati, le capanne, e le abitazioni di tutte le cose che hanno un ricovero, erano abbruciate per farne fanali; le città furono consunte, e gli uomini si strinsero intorno alle case divampanti per guardarsi in faccia l'un l'altro l'ultima volta. Felici coloro, che dimoravano sotto l'occhio e la face sublime dei vulcani! Una tremenda speranza era tutto ciò che il mondo conteneva; le foreste furono incendiate, e d'ora in ora cadevano, e sparivano, – e i tronchi si estinguevano crepitando, – e tutto era nero. Le fronti umane a quella luce disperante vestivano un aspetto non terreno, quando la fiamma guizzando ci batteva sopra; alcuni si prostravano, e si celavano gli occhi, e piangevano; altri restavano col mento appoggiato sulle mani chiuse, e ridevano; ed altri correvano su e giù, alimentando di legna le tetre cataste, e con matta inquietudine guardavano uno stupido cielo, manto funerale d'un mondo defunto, e quindi si giacevano nella polvere maledicendo, e digrignavano i denti, ed urlavano. Gli uccelli di rapina stridevano, e volavano a terra esterrefatti, battendo inutilmente le ali; le fiere le più salvatiche vennero tremanti e mansuete; le vipere serpendo si avvinghiavano fra le moltitudini, e sibilavano, ma non pungevano; – esse furono uccise per cibo. E la guerra, che per un momento stette sospesa, si saziò nuovamente; – un pasto fu compro col sangue, e ciascuno sedè cupamente da parte, pascendosi nella oscurità. Non vi era più amore; – tutta la terra non era che un pensiere, e quel pensiere era morte immediata, ingloriosa; e gli spasimi della fame corrodevano le viscere a tutti, – gli uomini morivano, e le loro ossa stavano insepolte come la loro carne. Gli affamati mangiavano gli affamati, e i cani stessi assalsero i loro padroni, tutti fuori che uno. Questo fu fedele ad un cadavere, e tenne a bada gli uccelli, le fiere e gli uomini, finchè la fame non gli ebbe distrutti, o il cadere d'un altro cadavere non solleticò le loro vuote mascelle; ma il cane non cercò cibo, bensì con pietoso e continuo ululato, e con un grido acuto, desolante, lambendo la mano, che più non rispondeva con una carezza, morì. Le moltitudini a grado a grado perirono tutte; solo sopravvissero due uomini d'una sterminata città, ed erano nemici. S'incontrarono accanto alle ceneri morienti d'un santuario, dove un mucchio di cose sacre era stato radunato ad uso profano. Colle loro fredde mani di scheletro raccolsero insieme quelle poche ceneri, e coll'esile fiato vi destarono un momento di vita, e levarono una fiamma, che era uno scherno. Come si fece un poco più chiaro, alzarono gli occhi, e si guardarono in faccia; videro, diedero un urlo, e morirono; – morirono della loro scambievole bruttezza, mal conoscendo chi fosse colui sulla fronte del quale la fame aveva scritto – demonio. – Il mondo era vuoto; popolato dianzi e potente, adesso era un cumulo senza stagioni, senza erbe, senza piante, senza uomo, senza vita, – un cumulo di morte, un caos di dura creta. I fiumi, i laghi, l'Oceano, tutto taceva, e nulla moveasi nelle silenziose loro caverne; navi senza marinari giacevano putrefacendosi sul mare, e gli alberi cascavano a pezzi, e cadendo dormivano sull'abisso senza flutto; – le onde erano morte, le maree erano nella tomba, la Luna loro signora era spirata prima, i venti erano mancati nell'aere stagnante, e perite le nubi; le tenebre non avevano bisogno di loro, – le tenebre erano l'universo.
– 183837 —
Quest'uomo grande, – poichè gli dànno diritto a tal nome la forza dell'anima, e il cuore ingenuo, e i nobili intendimenti, e la sapienza dei consigli, e il contegno animoso, e la dottrina moltiplice, e lo spirito arguto, – questo uomo grande susciterà la maraviglia di chi può esser tuttora commosso da una virtù eroica, e spirerà sempre la più viva riconoscenza nel cuore dei Ginevrini, che amano Ginevra. Bonnivard fu in ogni evento uno de' suoi più saldi sostegni, e per assicurare la libertà della nostra Repubblica non temè di perdere spesso la sua; nè curò il suo riposo, e dispregiò le sue ricchezze, nulla lasciando per convalidare la felicità di un paese, che volle onorare scegliendolo a patria; e da quell'ora l'amò come il più caldo de' suoi cittadini, e stette alla sua difesa colla intrepidezza di un eroe, e ne scrisse la storia colla ingenuità del filosofo, e coll'ardore del patriotta.
Nel cominciamento della sua storia dice, che dopo aver principiato a leggere quella delle altre nazioni sentivasi trasportato dal suo genio alle repubbliche, e sempre ne sostenne la causa: – e questo genio di libertà certamente gli fece adottare a patria Ginevra.
Bonnivard tuttavia giovane si dichiarò altamente difensore di Ginevra contro al Duca di Savoia, ed al Vescovo. Nel 1519 Bonnivard fu martire della patria. Il Duca di Savoia essendo entrato in Ginevra con 500 uomini, Bonnivard ne temeva il risentimento; però volle ritirarsi a Friburgo, onde schivarne gli effetti; ma tradito da due suoi seguaci fu condotto per comando del Principe a Grolee, dove rimase prigioniero due anni. Bonnivard era infelice nei suoi viaggi; e poichè le sue sventure non avevano punto affreddato l'amor suo per Ginevra, però era un nemico formidabile sempre a coloro che la minacciavano, e per conseguenza Bonnivard doveva esser la mira dei loro colpi. Nel 1530 i ladri lo incontravano sul Jura, e dopo averlo svaligiato lo posero nelle mani al Duca di Savoia. Quel principe lo fece chiudere nel castello di Chillon, dove rimase senza esser giudicato fino al 1536, e allora fu liberato da quei di Berna fattisi padroni del paese di Vaud.
Uscito di schiavitù ebbe il conforto di trovare Ginevra libera. La Repubblica fu pronta ad attestargli la sua riconoscenza rimeritandolo dei mali sofferti. Nel mese di Giugno 1536 ella lo accolse cittadino, e gli diè la casa un tempo abitata dal vicario generale, e gli assegnò 200 scudi d'oro finchè dimorasse in Ginevra, e l'anno 1537 fu ammesso nel Consiglio dei Dugento.
Bonnivard non cessò mai d'esser utile; e dopo aver faticato a render Ginevra libera, gli riuscì a renderla tollerante, conducendo il Consiglio a concedere agli ecclesiastici, e ai contadini, tempo bastevole onde esaminare le proposte, che loro facevansi; e il conseguì con la sua dolcezza.
Bonnivard fu letterato, e i suoi manoscritti provano come avesse ben letto i classici latini, e come fosse profondo nella teologia e nella storia. Quest'uomo grande amava le scienze, e credeva potessero fare la gloria di Ginevra; quindi nulla trascurò perchè le scienze avessero sede in questa città nascente. Nel 1551 donava al pubblico la sua biblioteca, e quei libri formano parte delle belle e rare edizioni del Secolo XV, le quali si veggono nella nostra raccolta. Finalmente l'anno medesimo questo buon cittadino istituiva la Repubblica erede del suo, a condizione di impiegare quei beni per mantenere il Collegio, che si avvisavano fondare. Pare, che Bonnivard morisse nel 1570, ma nol possimo accertare, dacchè nella Necrologia v'è una lacuna dal mese di Luglio 1570 fino al 1571».
Quando io ebbi scritto questo poema non mi era nota così minutamente la storia di Bonnivard; altrimenti avrei cercato di nobilitare il soggetto, tentando a celebrare il suo coraggio, e le sue virtù. Le poche notizie della sua vita mi furono date da un cittadino cortese di quella Repubblica, altero sempre della memoria di un uomo degno di vivere nei tempi migliori dell'antica libertà».