Kitabı oku: «Il peccato di Loreta», sayfa 7
I soliti brontoloni del Caffè della Posta, ebbero un bello stillarsi i cervelli per esercitare anche in questo caso la loro parte di denigratori sistematici. Essi di meglio non seppero trovare, se non l'affermazione che dopo tutto il professore non faceva certo un grande sacrificio col cedere quella sua "vecchia baracca" dove, in mancanza d'inquilini, ballavano da gran tempo i topi. Però queste buone lane dovettero smettere per forza anche coteste asserzioni, quando s'avvidero com'esse facevano manifestamente ai pugni col vero. Per l'autunno seguente quella ch'essi chiamavano la "vecchia baracca" era bella e pronta per accogliere i piccoli allievi. La casina, ridipinta a nuovo e convenientemente ridotta alla novella destinazione, aveva un aspetto pieno di gaiezza. Due belle sale spaziose e chiare s'aprivano sopra un piccolo giardino; e sulla facciata bianca a grosse lettere nere spiccava la scritta ancor fresca di colore: "Asilo infantile municipale."
Il professore e sua moglie a quei preparativi prendevano il massimo interesse. Loreta, ricordevole sempre del tempo passato come maestra in istituti di quel genere, si compiaceva di cooperare anche da parte sua con qualche consiglio. E fu lei stessa che, attendendosi la maestra già nominata dal Municipio, provvide volontariamente di persona a parecchie minute disposizioni inerenti all'apprestamento dell'asilo.
E mentre il Sant'Angelo, un po' tra gli studî, un po' con tali cure, vedeva trascorrere tranquille le sue giornate, un altro e grandissimo motivo di consolazione gli era offerto dall'incontro insperato che la sua opera sulle Zecche friulane veniva trovando. L'editore aveva fatto le cose a modo: il volume, stampato con molta diligenza e con copioso corredo di tavole, era riuscito magnifico e nel corso di pochi mesi aveva raggiunto una diffusione superiore di assai a quanto avvenga di solito per una monografia d'interesse più che altro provinciale. Un cenno di calorosa lode, che il Friedlaender ne fece nella Archeologische Zeitung di Stoccarda, ebbe per effetto che molti eruditi della Germania se ne interessarono. I maggiori Musei d'antichità d'Italia e dell'estero ne commisero degli esemplari. E il Valussi, in una brillante sua appendice nel Giornale di Udine, citando cotesti fatti, conchiudeva a giusto titolo coll'asserzione avere il Sant'Angelo compiuta un'opera che onorava veramente la scienza italiana.
Il modesto erudito, che intorno a quel lavoro aveva speso tanti anni di pazienti e costose indagini, esultava a questi elogi. Ma non è a descriversi la gioia intensa ch'egli provò quando un bel giorno, chiamato cortesemente dal prefetto della provincia in Udine, ebbe da lui la comunicazione che il ministro dell'istruzione pubblica, riconosciuta la sua benemerenza, aveva chiesto per lui la croce di cavaliere.
Raccontando a sua moglie e all'amico Mangilli l'emozione da lui provata a quella inattesa notizia, il buon professore affermava candidamente la sua contentezza. Nè, parlandone con altri, velò in modo alcuno cotesto suo sentimento.
–Sarebbe una stupida ipocrisia se volessi ostentare indifferenza. La croce che il mio re mi manda sarà per me il ricordo più caro del lavoro a cui ho dedicato tanti pensieri.
E con una allegrezza da bambino, con quella semplicità cara e nobile, che era in lui tanto bella, scherzava con Loreta.
–Vedrai che figurona farà adesso al dì dello Statuto il tuo povero vecchio con la croce al petto! Quel giorno la barba bianca sfigurerà assai meno. E prè Zuan se mi vede… colla croce sul petto… figurati che occhiatacce!
E prè Zuan, senza aspettare che venisse il dì dello Statuto e che il professore gli passasse accanto colla sua brava decorazione, si rodeva già allora allegramente dalla bile. L'antica pretesa ad archeologo, a cui ostinavasi ancora il Morganti, a ore perse, tra la messa e il tresette, era stata la prima, la vera ragione dell'odio implacabile ch'egli covava contro il Sant'Angelo. Costretto cento volte a vedersi rinfacciati i madornali spropositi detti non solo, ma, quel ch'era peggio, stampati in qualche giornalucolo clericale della provincia: vistosi portar via dal professore per le sue collezioni parecchie anticaglie, su cui aveva posto l'occhio subodorando qualche buon commercio, ora le lodi della stampa e l'onorificenza che il Sant'Angelo aveva avuto, lo facevano addirittura uscir dalla pelle. Tanto, che incapace di contenere più a lungo il suo sdegno, se la pigliava con tutti: col governo, che regala a occhi chiusi titoli e croci al primo che capita; contro i "famosi liberaloni" che hanno ciò che vogliono; perfino contro il bravo Valussi, che almeno lui, giornalista vecchio ed onesto, avrebbe dovuto disdegnare di profondere a quel modo tante turibolate…
Il conte Nardin, che di tutte queste espettorazioni del prete ebbe notizia e che ormai provava un gusto matto-com'egli diceva-"a farlo ballare" pensò allora di prendere due piccioni ad una fava: dare una soddisfazione al Sant'Angelo e procurare all'altro un nuovo argomento di dispetto.
E per ottenere tale intento passò parola con alcuni membri del Municipio e con pochi altri fidati amici perchè nel giorno fissato per la inaugurazione dell'asilo, si improvvisasse una bella serenata al Sant'Angelo, con la banda comunale: sarebbe questa una dimostrazione di gratitudine per l'atto generoso da lui compiuto e in pari tempo un festeggiamento per la onorificenza da lui ricevuta.
La proposta del bravo conte fu accolta con grande trasporto. E tutto fu disposto assai bene senza che nulla ne trapelasse al festeggiato od alle persone a lui attinenti.
La sera di quella domenica in cui l'asilo fu inaugurato, a casa Sant'Angelo c'era un po' di festa. Intorno alla mensa, con pochi altri amici, sedeva il prè Letterio Prandina venuto da Udine a passare la giornata in campagna: sedeva il conte Nardin, che tratto tratto, facendo lo gnorri, gittava delle occhiate furtive fuor dal balcone, verso il paese, senza che alcuno sospettasse affatto a ciò ch'egli pensava.
E fu una sorpresa generale, proprio al momento in cui si sturavano certe vecchie bottiglie di moscato, l'udire lo scoppio di un'allegra musica a breve distanza dalla casa. Tutti balzarono in piedi e corsero alle finestre, curiosamente; e fu allora che si vide avanzarsi su per lo stradone in bell'ordine di marcia tutta la banda di Tricesimo, coi pennacchioni verdi alla bersagliera e un codazzo di gente dietro.
Quasi contemporaneamente entravano nella sala il sindaco ed altri cinque o sei signori del luogo; e al professore, che non capiva ancor nulla, spiegarono la ragione di quella improvvisata.
Inutile dire i ringraziamenti in cui il Sant'Angelo si profuse per quel pensiero gentilissimo. E inutile il descrivere l'allegria, con cui trascorse quella serata.
Bastarono i primi concenti della musica perchè da tutte le parti accorressero a frotte i contadini. E poichè il maestro, ritto in mezzo al circolo formato dalla sua banda nell'ampio cortile, attaccò sulla cornetta, ch'egli dirigendo suonava, una di quelle polche gioconde, che formano la delizia delle sagre paesane, si videro presto unirsi le coppie e principiare il ballo, animatissimo, caratteristico, colla calada, in cui i contadini del Friuli mettono una passione ed una grazia straordinaria.
Si ballò assai tardi, si fecero de' grandi evviva al Sant'Angelo, alla signora Loreta, a tutti, e si vuotarono due grossi barilotti del buon vinello asprognolo e leggiero, che i padroni di casa fecero portare nel mezzo del cortile affinchè ballerini e sonatori potessero di tratto in tratto rinfrescarsi la gola a ripigliar nuova lena per altre sonate ed altri balli.
Il Sant'Angelo fra tutti questi festeggiamenti era raggiante, non aveva più parole per ringraziare; stringeva le mani a tutti; voleva attribuire a tutti il merito della gentile affettuosa sorpresa.
E quando prè Letterio gli accennò con benevolenza a Loreta che affaccendatissima, rossa in viso, andava e veniva, intenta a far onore agli ospiti, il professore, volgendo verso di lei uno sguardo pieno di tenerezza:
–Sì, prè Letterio, – esclamò con accento profondamente sincero-non potrei essere più felice! È così grande la mia felicità, che quasi, ve lo giuro… ho paura!..
XII
Circa un anno dopo la festicciuola fatta al professore Sant'Angelo, una mattina che questi recavasi col suo cavallino alla volta di San Daniele, dove aveva a consultare alcuni codici di quella piccola ma preziosa biblioteca comunale, fu vivamente sorpreso allorchè passando dinanzi all'antico palazzo dei Morò-Casabianca vide insolitamente spalancati tutti i veroni e diverse persone, in animato andirivieni per il cortile e dinanzi agli stallaggi, affaccendatissime nel seguire gli ordini, che il fattore, in maniche di camicia e col cappellone di paglia indietro sulla nuca, veniva impartendo con grande importanza.
Il Sant'Angelo, colpito da codesto movimento così inconsueto, fermò un istante il carrozzino in mezzo alla strada e fe' un cenno al fattore con cui era in ottima conoscenza.
Questi, che subito lo vide, gridò ai contadini qualche altro ordine perchè non avessero a perder del tempo mentr'egli si assentava e, facendosi vento col cappellone che s'era tolto, venne premuroso a dare il buon giorno al professore.
–Novità grandi, signor professore, novità grandi!
–Lo vedo. Che è dunque avvenuto?
–Niente di meno che il palazzo ha cambiato padrone!
–Davvero?
–Una cosa improvvisa. Si figuri che non più tardi di iersera mi capita da Udine un ordine dell'amministratore, – sa bene, il dottor Gigi Franzolini, – che si metta tutto in assetto, che si dia aria alle sale, perchè tra domani e posdomani ha da capitare a veder il palazzo il nuovo proprietario.
–E chi è?
–Chi diamine lo sa! Quel benedetto dottor Gigi, lei lo conosce… Un angelo d'uomo, ma ci vogliono le tanaglie a tirargli di bocca le parole. Se scrive poi… peggio che peggio!
E il fattore, che di quella notizia era tutt'altro che edificato, non iscorgendo nell'annunciato mutamento se non una minaccia alla pacifica e quasi indipendente sua vita, attaccò a questo punto una serie di considerazioni, le quali, sebbene fondate su pure ipotesi, non avrebbero per certo potuto tornare più sfavorevoli al nuovo proprietario.
–Abbiate pazienza, caro Beppo, il diavolo non sarà forse tanto nero! Poi da oggi a domani non è un secolo da aspettare per cavarsi la curiosità!
–Ha un bel dire, lei! Ma colla pace che si aveva!.. Non vede che baccano c'è già adesso!
E il buon fattore, avvezzo alla tranquillità solenne del vecchio palazzo, gettava uno sguardo pieno di egoistico rimpianto verso le finestre tutte spalancate, presso alle quali scorgevansi tratto tratto la fattoressa e le sue ragazze intente a spolverare mobili e cortinaggi.
Il professore, comprendendo benissimo come il fattore, preso l'abbrivo, sarebbe andato chi sa fin dove con la litania degli omèi, stimò bene di tagliar corto con un saluto scherzoso, scotendo le redini sulla groppa del cavallino.
–Niente paura, niente, paura. A reviodisi, Beppo.
–Mandi, sior cavaliere.
Il Sant'Angelo, che de' fatti altrui s'interessava assai poco, non s'occupò più che tanto circa il nuovo proprietario del palazzo Morò-Casabianca e ne' giorni successivi, non avendo occasione di passare da quelle parti, neppure gli cadde in pensiero d'informarsi se l'atteso fosse arrivato.
Una mattina, verso la fine di quella settimana, mentre lavorava nello studio intorno a una collezione di cammei recentemente scoperti in Aquileia, udì ad un tratto entrare nel cortile una carrozza, in cui doveva essere della gente forastiera a giudicare dall'abbaiamento con cui l'accolse prè Zuan che dormiva come di consueto al sole presso la cancellata.
Il Sant'Angelo si levò subito, e fattosi alla finestra vide scendere da un legnetto, che il fattore del palazzo Morò-Casabianca guidava, un signore forastiero: alto della persona, magrissimo e pallido, vestito d'un abito completo di stoffa grigia, colle mani guantate. Vide poi la Vige uscir dalla cucina e avvicinarsi, chiamata da un gesto cortese, al forastiere, che sorridendo nello scorgerla farsi più rossa del fazzoletto di cambrì che aveva sul capo, trasse di tasca un elegante portafogli e toltone un biglietto di visita glielo porse, perchè lo portasse al padrone.
La contadina sbattendo con gran romore i suoi zoccoli di legno sui ciottoli del cortile e poi sul selciato del portone, fu in un lampo nello studio.
Il Sant'Angelo, che si era avviato ad incontrarla, prese il biglietto e gittatovi appena uno sguardo fe' un atto di profonda meraviglia. Il nome che aveva letto era questo: Conte Alvise Polverari-Nathan.
Con molta sollecitudine il professore mosse verso l'uscio, sul quale l'ospite in quel momento appariva.
–Il professore Sant'Angelo?
–Son io, signor conte, – rispose il Sant'Angelo inchinandosi profondamente.
–Ella vorrà perdonarmi, professore, se io mi permisi di venirla a disturbare. Il mio avvocato, il dottor Franzolini di Udine, mi ha parlato sì lungamente di lei, ieri, mentre mi accompagnava al palazzo Morò-Casabianca, di cui-non so se Ella lo sappia-io sono venuto ora in proprietà come erede di una mia zia paterna, la contessa Polverari-Nathan. Quando seppi com'Ella avesse il suo domicilio in queste campagne, ebbi subito il desiderio di poterle stringere la mano. Il suo nome, professore Sant'Angelo, mi è noto per più ragioni: amante com'io sono degli studi storici, non le farà meraviglia, ch'io la conosca per la sua bella fama di scienziato; poi, nella famiglia mia io ho imparato a conoscere il suo nome per tanti ricordi…
–Le son grato, signor conte, per la cortesia infinita delle sue parole. Ma più grato ancora per la gioia ch'Ella mi volle dare onorando la mia casa. Chi reca il nome venerato, ch'Ella porta, non può essere che l'ospite più caro e più desiderato dei Sant'Angelo! Non le posso dire la viva emozione ch'io provai ora nel leggere questo biglietto…
E deponendo il biglietto, che ancora teneva tra le mani, invitò il conte ad entrare ed a prendere posto.
Il forastiero, con modi assai disinvolti nella loro perfetta distinzione, si sedette sur una seggiola accanto al tavolo da lavoro.
–La ringrazio di queste parole, professore, che mi danno prova della sua bontà. Io comprendo che per gli antichi rapporti, onde furon vincolate le nostre famiglie-rapporti forti e sacri, di cui il tempo non può aver cancellata la memoria-il leggere il mio nome le abbia recato sorpresa. Tale sorpresa però deve essere stata ancor maggiore dopo le tante voci che son corse sul mio conto e di cui per fermo qualche eco le sarà giunta. Non è egli vero?
Il giovane ebbe un lieve sorriso nel fare cotesta domanda.
–Debbo confessarlo, – l'altro rispose. – È da lunghi anni che io non potei più avere, per quanto desiderate, precise notizie sul conto suo. Non è da stupirsene quando si pensi alla mia vita: sepolto sempre in queste campagne, segregato da tutti, tra i miei studî e la famiglia. Tuttavia avevo saputo del suo tramutamento all'estero, de' viaggi intrapresi in paesi lontani: indi, appena qualche voce assai vaga, che mi lasciò in piena incertezza sulla sua sorte.
–So quante cose si dissero in Europa sul conto mio e di quali avventurosi romanzi venni fatto l'eroe. Secondo alcuni avrei contratto uno splendido maritaggio a Valparaiso con la figlia di un ricchissimo armatore spagnuolo-e sarebbe stato meno male! – secondo altri avrei trovato la morte, una tragica morte, colto con alcuni arditi viaggiatori italiani, in un agguato di indigeni, sulle rive del fiume Darling in Australia. A dar vigore a coteste voci deve aver contribuito il nome di Nathan (appartenente anche a un illustre viaggiatore irlandese) che io dovetti aggiungere al mio nome di famiglia, per patto di adozione, allorchè mia zia, la contessa Maria-Luigia Polverari, rimasta vedova del barone Nathan di Londra, volle con questo mezzo generoso assicurarmi l'eredità del suo vistoso patrimonio. Se però le cose da romanzo narrate di me ebbero sì poco fondamento nella verità, le assicuro, professore, che la mia parte di avversità e di dolori l'ho avuta purtroppo anch'io… Sono ancor giovane, ma le giuro che ormai sono ben poche le illusioni che mi rimangono.
–Non dica questo. Quando si ha la sua età ed un nome come il suo, non è lecito parlare con tanta amarezza e con tanta sfiducia. Poi, – perdoni alla mia franchezza, – da quanto appresi finora da lei stesso…
Il professore ruppe a mezzo la frase con una delicata reticenza.
–Sì, comprendo ciò che Ella vuol dire! – il conte soggiunse subito. – La mia posizione è per fermo tale che da molti mi potrebbe essere invidiata. Sono ricco, ho un nome antico e illibato, potrei aspirare ancora a qualche brillante carriera. Ma, che vuole? Con tutte le mie ricchezze non posso essere felice. Si direbbe che un astro maligno mi abbia accompagnato per tutta la vita, dall'ora della mia nascita… sempre. Ella sa in quali momenti dolorosi per la mia casa io son nato!
All'evocazione di quel ricordo il professore sentì una stretta al cuore. Tutte le memorie che nell'anima sua duravano conservate con alta e pietosa religione filiale, si ridestarono in folla nel suo pensiero. Mai forse come in quell'istante egli ricordò con ardente commozione il nome del gentiluomo eroico e generoso che, sentendo con pari nobiltà l'amicizia e l'amor della patria, gli ebbe salvo un giorno, col sacrificio di sè stesso, il padre suo.
Incapace di trovar una parola che valesse a manifestare la intensità profonda del suo sentimento, il Sant'Angelo afferrò la destra del suo ospite e gliela strinse forte, tacitamente.
Il giovane mostrò d'aver compreso tutta la gentilezza ch'era in questo atto e come spinto da esso ad un confidente abbandono, proseguì subito con una malinconica e toccante serenità narrando i tristi particolari-in molta parte non ignoti al Sant'Angelo, – che avevano accompagnato la sua nascita e gli anni suoi infantili.
Sua madre, Laura, – una contessa Rezzonico di Vicenza-donna di fibra gracilissima e di temperamento eccezionalmente sensibile, erasi unita assai giovane in un matrimonio di puro amore al conte Gottardo Polverari. I medici, che nella salute di lei sempre malferma, – fatti esperti da sconfortanti prove del passato-avean già temuto di scorgere i segni di un fatale morbo gentilizio, sperarono bene da quell'unione. E per vero la salute della giovane sposa parve ritemprarsi nella felicità matrimoniale che la nascita di una bambina venne a rendere ancor più perfetta. Così trascorsero alcuni anni placidamente. Ma le gioie domestiche non bastarono a far obliare al conte Gottardo altri doveri ed altri affetti. Discendente da una vecchia famiglia, ricca di generose tradizioni patriottiche, doveva egli condividere i forti entusiasmi, che in quegli anni belli e fatali, destavano un concorde palpito di speranza in tutta la gioventù d'Italia. Animoso ed ardente gli parve dovere di rispondere egli pure alla gran voce della patria, di cooperare anch'egli all'intento comune. La sua sposa, conoscendo l'animo di lui, non l'avversò ne' suoi divisamenti; nè lo rattenne; ma, antivedendo i pericoli, ne' quali per l'indole sua ardimentosa si sarebbe avventurato, cominciò a soffrire tacitamente, oppressa da mille sinistri presentimenti, torturata da continue angoscie, superiori di troppo alla fragile sua fibra, specie in quel tempo, in cui essendo prossima a divenir madre per la seconda volta, avrebbe dovuto, come molto le era raccomandato, sfuggire ogni forte emozione.
I presentimenti di donna Laura non tardarono ad avere aspra conferma dai fatti. In una notte invernale il palazzo fu invaso dalla polizia: non ci fu angolo più riposto che gli agenti con rude fiscalità non avessero perquisito: poscia la povera donna, quasi pazza dallo spavento, s'era vista strappare a forza dalle braccia il suo sposo, il quale anche in quegli estremi momenti, pur sapendo di essere perduto, non venne meno nè per un atto nè con una parola alla fermezza nobilissima del suo carattere.
Fu sotto il peso di coteste terribili emozioni che la contessa, colpita da fierissima febbre, pochi giorni dopo l'arresto del consorte, si sgravò prematuramente di un bambino, che per la grande sua gracilità pareva votato alla morte: Alvise.
–Così io nacqui. Fu un miracolo della scienza e dell'amor materno che mi sottrasse alla morte. Ma se questa vittoria fu la consolazione di mia madre, lei, la povera donna, era ben lunge dall'aver coscienza dell'infausto dono che mi venne fatto col serbarmi alla vita. Erede di quel germe funesto, che mia madre portava seco dalla sua famiglia, il complesso delle circostanze da cui la mia nascita fu accompagnata non poteva che rendere più fatale il retaggio che mi era riserbato…
E indovinando da un gesto del professore l'intenzione che questi aveva di interromperlo pietosamente:
–No, no, – proseguì con dolcezza, – mi lasci dire, professore. Io non m'illusi mai, neppure quando taluno de' più insigni clinici, ch'io volli consultare ne' miei viaggi, tentò di ingannarmi con qualche frase benevolmente mendace. Poi… – in questo almeno ebbi la fortuna di rassomigliare a mio padre, – non fu certo l'idea della morte che turbò mai la serenità del mio spirito. Furono ben altre le ragioni che mi fecero trascorrere così poco lieta la mia giovinezza!
E con appassionato accento egli riepilogò la sua vita, fatta quasi interamente di dolori, non arrisa che da poche e fuggevoli gioie: tutta la sua vita, dal giorno in cui seppe la rassegnata morte del padre, da lui mai conosciuto, nelle carceri austriache di Theresienstadt, ai giorni luttuosissimi in cui vide successivamente spegnersi, vittime entrambe del medesimo inesorabile morbo, prima la sorella, pia e dolce fanciulla non anco ventenne, quindi poco appresso la madre.
–Allora mi diedi ai viaggi, cercai una distrazione nello studio, procurai di obliare tante traversie, avendo, in mezzo ad esse, un unico ma infinito conforto: l'affetto di una sorella di mio padre, da lunghi anni domiciliata in Inghilterra, la quale-vedova da poco del barone Nathan, già ambasciatore britannico in Austria e in Francia-ebbe per me cure e tenerezze veramente materne.
E qui, dopo un breve intervallo, ritrovò il sorriso melanconico di poco prima.
–Quante tristezze le ho narrate, professore. Peraltro me lo deve perdonare. Non so perchè, ma mentre io era venuto qui con tutt'altra intenzione, la sua presenza, le sue parole, la sua bontà, mi obbligarono quasi a queste mie confidenze. Che vuole? Si obbedisce spesso, anche senza volerlo, a certi moti dell'anima, i quali del resto non ingannano mai. Varcata appena la sua porta io mi sono sentito in una casa amica ed ospitale…
–Oh! questo sì! Ella non s'è ingannato, signor conte. È questa la casa sua… e se vorrà ritenerla tale sarà per me l'orgoglio maggiore e la gioia più cara.
–Grazie, glielo credo e gliene sono gratissimo. Quando venni qui da Venezia, ove mi recai per la cura de' bagni, avevo divisato di rimanervi per poche ore soltanto: il tempo di vedere questo possedimento di Morò-Casabianca, che mi venne dall'eredità di mia zia. Ma le confesso che ora ch'io vidi questo storico palazzo e queste belle campagne, ne restai così innamorato da non saper decidermi a partire.
–Morò-Casabianca le piacque?
–E come altrimenti? È un palazzo veramente signorile. La posizione ne è quanto mai pittoresca… Poi… le antichità che racchiude, le leggende che corrono…
–Sa già anche questo?
–Non vuole? Prima l'avvocato Franzolini… quindi il fattore… Ah, quest'ultimo una vera macchietta di chiacchierone, però tanto simpatico e intelligente! Anzi, appena arrivato, dichiarandosi incapace di spiegarmi lui ogni cosa, ha avuto un bellissimo pensiero, di cui proprio gli fui riconoscente.
–Quale?
–Quello di farmi trovare sul tavolo della mia stanza un suo opuscolo, professore, sul palazzo Morò-Casabianca: una monografìa perfetta, ch'io lessi con profondo interesse ed alla quale, glielo confesso, debbo in gran parte il mio desiderio di fermarmi qui per qualche tempo.
–Ecco, signor conte, una delle poche soddisfazioni che io dovrò a quel mio lavoretto. Però-a parte il mio amore per questi luoghi dove io son nato-è certo che Morò-Casabianca è d'un interesse storico veramente prezioso. Basterebbe la sala dei quadri…
–Stupenda da vero. Le due tele rappresentanti la battaglia di Bacile e la consacrazione del duomo di Venzone… Stile purissimo di scuola belliniana.
–Opere ch'io affermerei dovute ad uno de' migliori allievi di Pellegrino da San Daniele, quando non siano del maestro stesso…
Posto così sul terreno dell'arte, il professore parlò lungamente de' pregi dell'antico palazzo, delle sue origini, de' suoi oggetti artistici, della sua architettura, delle varie famiglie che ne ebbero la proprietà.
Il conte l'ascoltò con molta attenzione.
–Vede bene, professore, che dopo queste illustrazioni, avute dalla viva sua voce e venute da fonte così competente, io devo sentirmi ben lieto di essere ora in possesso di quel palazzo. E comprenderà come mi sia cresciuto il desiderio che già provavo di farvi una più lunga dimora. Ma fra le molte cose che a ciò mi invitano mi lasci ch'io le dica come sia primissima la speranza della sua compagnia.
–Ella mi confonde.
–Io le sarò ben riconoscente se mi vorrà dedicare qualche breve ritaglio del suo tempo. Di quante cose potremo parlare! Quanti ricordi potremo richiamare, insieme! E quanto conforto mi sarà di ripensare con lei ai fatti del passato! Me lo promette?
–Con tutto il mio cuore e con la più grande esultanza! E si strinsero amichevolmente, con reciproca espansione, le destre.
Ancora il conte Alvise, girando gli occhi curiosi intorno allo studio, s'interessò alle collezioni che vi erano adunate: parlò con enfasi della bella pace che colà regnava suadente al lieto raccoglimento degli studi: accennò al suo desiderio di poter prendere cognizione esatta delle molte antichità ivi raccolte e, fattosi reiterare la promessa che il professore si sarebbe recato presto al palazzo, promise di ritornare tra non molto alla villa.
–Io l'attenderò sempre con piacere, signor conte. E quando vorrà onorarmi la prossima volta, sarò lieto di presentarle anche la mia signora, che oggi-sa bene… giorno di mercato… – da brava massaia s'è recata a Udine a fare le sue spesucce.
–Ne sarò lieto veramente. E… a quanto prima.
–A quanto prima.
Così, affabilissimamente, come due amici di data già antica, il professore ed il conte si accommiatarono.
Il Sant'Angelo volle accompagnare l'ospite fino al carrozzino e poichè egli vi fu salito accanto al fattore Beppo, che in quel frattempo s'era rinfrescato il becco con un buon bicchierone di vino preparatogli dalla Vige sotto la pergola, rimase a lungo sulla spianata dinanzi alla casa finchè il veicolo si perdette tra il verde della campagna alla girata del colle.
Loreta non rientrò che mezz'ora più tardi.
Il professore, che la stava attendendo un po' impaziente, ebbe un senso di apprensione quando la vide scendere dal calesse. La signora, partita alla mattina d'ottimo umore, scherzando, con una ciera che parlava di salute, aveva ora pallidissimo il viso e mostravasi in preda ad una insolita agitazione.
Il Sant'Angelo notò tosto tale cambiamento e impressionato ne la richiese de' motivi.
–Che hai, Loreta, stai male? Mi sembri turbata.
–Sì, non so che cosa sia. Strada facendo, senza che me ne possa spiegare il motivo, fui assalita da un forte capogiro. Forse il sole… Ma non è nulla. Ora non me ne risento affatto.
Con uno sforzo sopra sè stessa Loreta volle mostrarsi indifferente. Parlò con diffusione al marito di vari interessi domestici, degli acquisti fatti in Udine; dell'incontro avuto con parecchi loro amici. Poi, quando la Vige venne ad avvertire che il pranzo era pronto, si pose a tavola, affettando un'ilarità che evidentemente non avea.
Ma non potè mangiare. Dopo poche cucchiaiate di zuppa dovette smettere.
–Non so che cos'abbia. Mi sento così nervosa. Guarda un po' dopo tanto tempo! Se questi miei benedetti nervi dovessero tornare a farne delle loro!
La sua voce tremava nel profferire questi scherzi. E il professore nell'intento di distrarla da coteste idee, cominciò a narrarle i fatti occorsi in quella giornata.
–Sai che ho ricevuto la visita del nuovo proprietario di Morò-Casabianca?
–Davvero? – ella chiese con accento che voleva apparire tranquillo.
–Sì, avrebbe voluto conoscerti. Si trattenne a lungo con me e promise di ritornare presto. Se sei rientrata per lo stradone di Tricesimo devi averlo incontrato, Partì di qua mezz'ora prima del tuo ritorno…
–Nel carrozzino del fattore Beppo?
–Appunto. Un giovanotto pallido, alto, assai magro, tutto vestito di grigio…
–Sì, lo incontrai infatti, al crocicchio di Leonacco, davanti alla villa dei Prampero…,
–Figurati la mia sorpresa. È il figlio dell'amico più caro, del salvatore del mio povero padre. Un gentiluomo veramente perfetto… il conte Alvise Polverari di Verona.
A questo nome Loreta parve colpita e un lieve tremito contrasse per un momento le sue labbra.
Ma fu meno d'un istante. Ella trovò subito una frase qualunque per continuare il dialogo. E il Sant'Angelo per lungo tempo si abbandonò, come il suo cuore voleva, a parlare con calda animazione de' molti ricordi, che in quella giornata, per l'arrivo dell'ospite inatteso, gli erano risorti così vivi nel pensiero.