Kitabı oku: «Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III», sayfa 7
Avevano Buonaparte, ed i legati Veneziani, ai quali, come abbiam narrato, erano state ampliate le commissioni, in Milano le preste novelle degli accidenti di Venezia, specialmente della rinunzia fatta nel giorno dodici dai patrizi, e della dissoluzione dell'antico governo aristocratico. Evidente cosa era, che avendo cessato di sussistere chi aveva dato il mandato, non vi era più luogo nè a negoziati, nè a conclusione di trattato. Ciò non di meno le pratiche si continuarono, dal canto dei Veneziani, perchè pareva loro, che una solenne asseverazione di Buonaparte di voler confermare la repubblica non potesse essere senza qualche effetto, dal canto del generale, perchè paresse del tutto volontaria, anzi richiesta la occupazione di Venezia.
Adunque con questi due diversi fini si stipulava da ambe le parti il giorno sedici maggio in Milano un trattato di pace e d'amicizia, tra la repubblica Francese e la Veneziana; cessassero tra di loro tutte le offese; rinunziasse da parte sua il gran consiglio al suo diritto di sovranità, ordinasse l'annullazione dell'aristocrazìa ereditaria, riconoscesse la sovranità dello stato consistere nell'universalità dei cittadini: a tutte queste cose consentisse con patto che il nuovo governo guarentisse il debito pubblico, il vivere dei patrizi poveri, le provvisioni a vita: la repubblica Francese concedesse, siccome ne era stata richiesta, una schiera di soldati a Venezia, acciocchè vi conservasse intero l'ordine e la tranquillità, vi tutelasse le persone e le proprietà, procurasse la esecuzione delle prime risoluzioni del governo nuovo; questi soldati partissero da Venezia, tostochè il nuovo governo dichiarasse non averne più bisogno; le altre truppe Francesi sgombrassero gli altri territori Veneti, tostochè la pace del continente fosse conclusa: si facesse sollecitamente il processo agl'inquisitori di stato, ed al comandante del Lido; la repubblica Francese perdonasse ad ogni altro Veneziano. Questi erano i capitoli mostrabili: i segreti contenevano altri effetti importanti: si accorderebbero le due repubbliche pel cambio di territorj, la Veneziana pagasse alla Francese tre milioni di tornesi, somministrasse una valuta di altrettanti in arnesi di marinerìa, le desse tre navi di fila con due fregate fornite di tutto punto, consegnasse a' commissari a ciò destinati venti quadri, e cinquecento manoscritti a scelta del generalissimo: la repubblica Francese s'interponesse a pace comune tra la Veneziana, e la reggenza di Algeri.
Di tale forma furono i capitoli del trattato concluso in Milano tra Buonaparte, e i Veneziani. A loro fu aggiunto quest'altro, e ciò se ancora resta luogo alla maraviglia, farà certamente maravigliare il lettore, che le due parti ratificassero nel più breve spazio il trattato. Il ratificarono intatti i municipali di Venezia, persuadendosi, non si vede come, nè perchè, che tutta l'autorità della repubblica, e del maggior consiglio in loro fosse investita. Negava Buonaparte la ratificazione, allegando, essere da parte dei mandatari Veneziani cessato il mandato, perchè era estinto il mandatore, il che era vero. Ma siccome già sapeva, quando stipulava, che era spento il mandatore, fu il suo stipulare fraude, per fare che i Veneziani ammettessero in Venezia i suoi soldati. Ma questi già essendo entrati, e l'antico governo, col quale l'Austria aveva congiunzione di amicizia, già essendo spento, il che era l'importanza del tutto, ei rifiutò la ratifica per non legarsi a niuna obbligazione col nuovo.
LIBRO UNDECIMO
SOMMARIO
Insidie contro Genova. Grave sedizione in questa città per opera dei novatori. I carbonari, ed altra parte del popolo insorgono contro i novatori, e gli vincono. Sdegno, e risposte funeste di Buonaparte: manda generali, e soldati per intimorir il governo col fine di obbligarlo a cambiare l'antica forma dello stato. Si fa la mutazione: legati Genovesi vanno a trovar Buonaparte per accordare con lui il modo del nuovo reggimento. Si crea un governo temporaneo. Umori, e sette in Genova. Constituzione foggiata a modo di quella di Francia. Mala contentezza dei popoli: terribile sommossa nel Bisagno, e nella Polcevera. Condizioni del Piemonte. Il re fa nuove dimostrazioni d'amicizia verso la Francia. Astute insinuazioni, e progetti d'ordinazione politica dell'Italia fatti dall'ambasciador Piemontese a Parigi. Trattato di alleanza tra il re, e la repubblica Francese. Moti sediziosi, e supplizi in Piemonte: morte lagrimevole di Carlo Tenivelli, storico insigne: sue lodi.
La forza aveva insidiato Venezia; le chimere di una libertà fallace le diedero il tracollo. La medesima forza, e le chimere medesime usando Buonaparte contro Genova, la tirava ancor essa all'ultimo eccidio. Vedevano, e sentivano il governo, ed il generale di Francia, che a voler diminuire l'autorità dell'Austria in Italia, era necessario il cambiare i governi antichi in nuovi; perchè giudicavano, che i primi avrebbero consuonato con Austria, i secondi con Francia. Tale necessità diveniva agli occhi loro tanto maggiore, quanto più, fatta l'Austria padrona dello stato Veneto, aveva modo d'ingerirsi, e di travagliare più efficacemente l'Italia. Poi a qualunque modo era sorto l'uso di sovvertir gli stati parte per capriccio, parte per ischerno, e parte anche, credo, per modo di trattenimento. Per tutte queste ragioni, non ancora terminata, ma già prossima a terminarsi la tragedia di Venezia, scriveva Buonaparte a Faipoult, ministro di Francia a Genova, ed operatore attivo dei disegni del generale, che la rovina di Venezia doveva partorire necessariamente la rovina dell'aristocrazìa di Genova; ma che ancora non era tempo di scoprirsi, usando in questo, secondo il suo solito, la natura della volpe prima di quella del lione. Sapeva, che il governo Genovese non avrebbe gagliardamente contrastato, quantunque in lui fosse più vigore, che in quello di Venezia, sì perchè alcuni fra i senatori erano abbacinati dai fantasmi dei tempi, e sì perchè nel ceto medio era molta opinione contraria, credendo molti, che la democrazìa fosse da anteporsi all'aristocrazìa, come se i modi di reggimento politico indotti in Italia a quei tempi fossero democratici. Aggiungevansi i capitali Genovesi investiti in gran parte in Francia, ed i traffichi tra Francia e Genova frequentissimi, cose molto tenere, e capaci a far calare i Genovesi ad un primo romore d'armi. Infine pei passi frequenti delle genti di Francia sulle riviere, erano sorte in esse le opinioni nuove. Savona titubava e per questo, e per le antiche emolazioni. Alcune fortezze, e molti siti del Genovesato erano in mano dei Buonapartiani. Nè a questo contenti il direttorio, e Buonaparte, avevano operato, che Rusca e Serrurier appoco appoco, e sotto altri colori le schiere loro accostassero a Genova, e che l'ammiraglio Brueys comparisse con navi grosse e sottili nelle acque delle riviere.
Genova pericolava; ma molte erano le insidie interne. Spargevansi artifiziosamente voci, che la Francia voleva dare la riviera di ponente al re di Sardegna, e si affermava, che una tale calamità solo si poteva allontanare con ridurre il governo a forma più consimile a quella di Francia. Queste voci Faipoult, magnificando la fede della sua repubblica, e quasi sdegnandosi, asseverava essere false e calunniose. Buonaparte ed egli richiedevano nuovi presti di parecchi milioni alla signorìa, consumata ed odiosa ai popoli, se gli concedesse, accusata d'inimicizia verso Francia, se gli negasse. Il farla vile fu anche parte dell'insidia; perchè un consiglio militare Francese adunatosi nella sede stessa della repubblica processava, e condannava al bando da tutti i territorj di Genova il marchese Agostino Spinola, come reo delle turbazioni sorte contro i Francesi nei feudi imperiali. Non era più sovranità dove un tribunale forestiero dannava un cittadino: mancava col buon concetto la forza dello stato. Nè l'opera dei novatori di dentro si trascurava. A questi erano capi alcuni Genovesi, alcuni forestieri. Fra i primi osservabile era massimamente lo speziale Morando, uomo precipitoso, e di estremi pensieri, e che credeva che ogni cosa fosse lecita per arrivare a quella libertà ch'ei si figurava in mente. Fra i secondi più vivo e più operativo si mostrava un Vitaliani da Napoli, il quale, sebbene non tanto veemente fosse, quanto Morando, era non pertanto assai più di lui pericoloso, perchè aveva facile favella alla Napolitana, efficacia a persuadere maravigliosa, bel porgere, e bella persona, ed era entrante molto e manieroso. Forestiero si mescolava nelle cose Genovesi a dissoluzione della repubblica, e con patente d'impiegato dell'ambascerìa di Francia tendeva agguati ad una potenza, a cui la Francia protestava amicizia. Erano costoro favoriti da Faipoult più nascostamente per la sua qualità pubblica, da Saliceti a questi fini venuto a Genova, più apertamente. Vociferava Saliceti, doversi, poichè l'aristocrazia di Venezia si era spenta, spegnere anche quella di Genova. I novatori sicuri omai dell'esito, s'adunavano, s'indettavano, s'accordavano, s'apprestavano; più il termine s'avvicinava, e più palesemente operavano. Incitamenti continui andavano dall'ambasciata di Francia a Morando, e solo si aspettava che Venezia fosse perita del tutto per far perir Genova. Avvertito il governo, creava inquisitori di stato con ampia facoltà, e per opera loro carcerava Vitaliani. Se ne risentiva gravemente Faipoult, richiedeva la sua indennità, come di Francese. Per tal modo non solamente si voleva che si macchinasse, ma ancora, che si macchinasse impunemente. La signorìa essendo sforzata, rimetteva il Napolitano in libertà. Vitaliani e Morando con somma attività si adoperavano. A loro si faceva compagno un Filippo Doria o per ambizione, o per opinione. Tutto era contaminato, l'esca apprestata, le occasioni si aspettavano. I giornali di Milano, comandando ciò, o permettendo Buonaparte, continuamente straziavano l'aristocrazìa Genovese, e con infiammate parole provocavano i popoli contro di lei. Di tanta mole era per chi tanto poteva, il distruggere la piccola repubblica di Genova. Si pruovava nell'estremo caso ad insorgere, gl'inquisitori di stato facevano carcerare due dei più audaci e temerari novatori, sperando, che il timore potesse frenare quella gente incitatrice. Fu indarno, poichè tanto favore l'ajutava dentro e fuori. Questa fu scintilla a suscitare ad incendio il fuoco che covava. Non così tosto giungeva ai congiurati la novella della carcerazione dei compagni, che furiosamente dato all'armi o proprie, od a questo fine apprestate in casa Morando ed avendo Morando medesimo con Vitaliani e con Filippo Doria a guida, facevano improvvisamente, era il giorno ventuno di maggio, un tumulto terribile. Si rallegrava Faipoult, che la rivoluzione nascesse in Genova per opera dei Genovesi, perchè in quella rivoluzione ei voleva ben essere, ma non parere. Essere, scriveva a Buonaparte, creato un filo a poter muovere facilmente i collegi, i consigli, e ad operare la riforma inevitabile di Genova più o meno prestamente, secondochè meglio o come a Buonaparte si convenisse, o per modo che il mondo vedesse, che la Francia, non ingerentesi nella constituzione politica di un popolo amico ed independente, non vi aveva posto mano che come protettrice della quiete di questo popolo stesso, e per allontanare da lui tutte le disgrazie di una rivoluzione. Venuti da Faipoult due legati del senato, Gian Luca Durazzo, e Francesco Cataneo, il pregavano, che facesse dimostrazione di non secondare i novatori, ed operasse, che la frenesìa dei giornali Milanesi contro Genova cessasse. Dava loro la volta sotto sulla prima richiesta, speranza per la seconda. Si metteva poscia sull'esortargli a riformare essi medesimi lo stato, ed a biasimargli dei tridui e delle novene, come di dimostrazioni dirette ad odio dei Francesi: cercava infine di temporeggiare, perchè gli accidenti di Venezia finissero. I congiurati con ischiamazzi orribili, e con grida spaventose, cantando a tratto tratto la marsigliese (fu questa una canzone con musica molto espressiva, che incitò potentemente in quell'età gli spiriti ad opere straordinarie) s'incamminavano al palazzo ducale. Aggiungevansi per istrada, come suole avvenire, nuovi congiurati, e fra il popolo i più tristi, e chi più ambiva il sangue o il sacco. A tanto romore si adunava una calca incredibile fra quelle strette vie di Genova; serravansi a furia le botteghe; i buoni fuggivano, od erano tratti dalla tempesta. La folla tumultuosa giunta al palazzo, dov'era raccolto il senato, con minacciose grida addomandava i carcerati. Rispondevano con molta costanza i padri, a buona ragione sostenersi, si farebbe giustizia, fra breve paleserebbero al popolo l'intento loro. I sollevati avrebbero voluto sforzare il palazzo; il vietavano le guardie; si rimanevano, perchè in quel primo impeto non avevano nè armi sufficienti, nè accordo, nè numero che bastasse. Traevano alle case del ministro di Francia, sperando che gli ajuterebbe. Gli confortava dicendo, s'interporrebbe, e le dimande loro al senato esporrebbe. Fatti più sicuri cambiavano il furore in allegrezza, e sparsi per le piazze, e nei ritrovi sì pubblici che privati, facevano grandi festeggiamenti. La sera, sforzato il teatro, vi commettevano remore, anche con oltraggi dei pacifici cittadini. Riscaldati dal vino e dalle cose fatte, passavano la notte, che era una delle estreme della loro antica e veneranda patria, fra l'allegrezza dei piaceri presenti, e la cupidigia dei tumulti avvenire.
Sorgeva ai ventidue l'alba, che doveva addurre a Genova un giorno funestissimo. Prorompevano dai ritrovi loro i congiurati, e ad ogni momento, e ad ogni passo ingrossandosi per l'accostamento di nuovi compagni, facevano una turba assai numerosa. S'aggiungevano ai Genovesi non pochi Lombardi, venuti ancor essi all'alito delle rivoluzioni; nè mancavano Francesi, ancorchè fossero in minor numero. Inalberavano, perchè non mancasse ai fatti anche il segno della ribellione, sui cappelli chi la nappa Lombarda, e chi la Francese, ambedue tricolorite, questa col turchino, quella col verde. Gridavano, viva il popolo, viva la libertà. S'avviavano al palazzo di Faipoult, dove ammassati diventavano più terribili per impeto, e per numero. Il senato senza difesa pel caso improvviso, si era perduto d'animo, ed aspettava, invece di operare.
Il popolo fedele al principe non si muoveva, perchè sorpreso a quell'accidente insolito non aveva ancor ripreso gli spiriti, e forse non credeva, che i sollevati volessero trascorrere agli estremi. Andando loro il moto a seconda, ardivano cose maggiori, ed orrende. Traevano alle prigioni della mal paga, sentina infame d'indebitati e di falliti, e rotte le porte non senza qualche violenza sanguinosa, e liberati ed armati i prigionieri, se gli facevano compagni ai disegni loro. Cresceva il furore: quel che dava la massima dell'esser lecito tutto per acquistar la libertà, secondava la natura sempre precipitosa del male al peggio. Impadronitisi della darsena, davano la libertà ai condannati, e poste loro le armi in mano correvano con l'infame satellizio di ladri, e d'assassini a disfare uno dei più illustri governi del mondo: tempi atroci, in cui la misera Genova era insidiata occultamente dai potenti dominatori d'Italia, ed impugnata apertamente dai suoi cittadini misti ai mancatori di fede, ed ai galeotti! esempio da piangersi eternamente che si sia cercata la libertà non solo coi rei propositi, ma ancora con operatori scelerati.
Tornando alle opere Morandiane, fatto i sollevati concorso sulla piazza, e preso maggior animo da quei primi successi, bandivano con allegria, e romore incredibile, essere spenta l'aristocrazìa, Genova libera, i poveri esenti dai tributi, cassi gli antichi magistrati, creati i nuovi. Ma ancora temevano le porte in mano del governo, ed i popoli del Bisagno e della Polcevera deditissimi al nome del principe ed all'antica repubblica. Però credendo non esser compiuta l'opera, se allo aver acquistato l'interno non aggiungevano l'assicurarsi delle porte delle mura, spedivano, a ciò consigliati da Morando e da Doria, i più audaci ed i meglio armati, ad occupar l'arsenale, il ponte reale, la lanterna, le porte di San Tommaso e di San Benigno. Il che veniva loro agevolmente fatto, sorpresi essendo e pochi i difensori.
Intanto s'era il senato raccolto timoroso, e non pari a tanto estremo. Consultavano discordi, statuivano spaventati. Mandavano legati a Faipoult, perchè lo pregassero, s'interponesse a concordia, ed offerissero riforme negli ordini antichi. Piaceva la profferta al Francese, per essergli aperta l'occasione, e condottosi al senato, con efficacissime parole esortava i padri, cedessero al tempo, s'accomodassero al secolo, riformassero lo stato, verso gli ordini democratici l'allargassero, questa sola via di salute restare. Stanziavano, poichè oggimai era tolto ogni modo di deliberare sanamente, si traessero quattro patrizi, i quali convenendo con quattro deputati del popolo, fra di loro accordassero come e quanto la forma antica dovesse scendere alla democrazìa. S'eleggevano i patrizi, gli eletti del popolo non comparivano; riuscì vano il tentativo. La massa dei novatori infuriata correva al ducale palazzo, e contro di lui piantava un cannone, sforzandosi di entrarvi; ma cessava vedutolo ben custodito. Risuonavano intanto le grida, viva la libertà, morte agli aristocrati; pareva ormai spenta l'antica repubblica. Trionfavano Vitaliani, Morando, Doria, nè pareva che vi fosse più rimedio per reprimere la ribellione.
Ma ciò, che non aveva fatto il senato senz'animo e senza forza, il faceva il popolo, parte per odio contro i novatori, parte per amore verso l'antico stato, parte per riverenza alla religione, perchè temevano lei aversi ad oltraggiare in Genova, come credevano esser stata oltraggiata in Francia. Si adunava, correndo da ogni lato, principalmente dal porto, una gran massa di popolo minuto, carbonari e facchini massimamente, ed opponendo all'improvviso grida a grida, nappe a nappe, armi ad armi, rendevano dubbia una vittoria, che già pareva certa. Facevano risuonare per tutta la città voci festose ad un tempo, e minacciose, gridando viva Maria, viva il principe, viva la religione, morte ai giacobini, che con questo nome chiamavano i novatori: rizzavano intanto sui cappelli per nappa una piccola immagine di Maria: per questo chiamava Buonaparte i preti genovesi vile e scelerata gente. Solo lodava l'arcivescovo. Gli amatori del governo antico, siccome quelli che avevano a combattere coi libertini bene armati, anche di artiglierìe a cagione della presa dell'arsenale, avvisavano d'impadronirsi dell'armerìa, nella quale essendo entrati, distribuite a ciascuno le armi, con ardore inestimabile si mettevano a correre contro la parte contraria. A loro si accostavano i soldati regolari rimasti fedeli alla repubblica, e fra questi alcuni, che sapevano maneggiar le artiglierìe. Infelice città, che vedeva rinnovarsi nel suo grembo, le spente da lungo tempo, e sempre feroci fazioni. Si attaccava una battaglia asprissima, dove i padri combattevano contro i figliuoli, i fratelli contro i fratelli; ed il suono delle armi civili, già da lungo tempo insolito, si udiva da lungi nei più secreti recessi dei liguri Apennini. Traevano le artiglierìe furiosamente, si mescolava l'archibuserìa; da vicino si ammazzavano coi ferri, e quando non avevano ferro, con le mani. Maggiore era la pressa nei luoghi occupati dai libertini, perchè gli avversari, essendo nella possessione di essi posta tutta l'importanza del fatto, gli volevano a tutta forza sloggiare, massime alle porte, all'arsenale, ed al ponte reale, dove Filippo Doria combatteva valorosissimamente. Durava la battaglia parecchie ore: prevaleva finalmente la parte del senato, ricuperati, non senza molta fatica e sangue, dagli uomini fedeli a lui tutti i posti. Il quale fatto saputosi dai Morandiani, era cagione che precipitosamente abbandonassero l'impresa. La maggior parte fuggirono, o nelle private case si nascosero: i più animosi ristrettisi insieme, si facevano sforzatamente strada al ponte reale, che si teneva ancora per loro mediante il valore di Filippo Doria. Gli seguitavano i vincitori, e s'accendeva a questo ponte una battaglia ostinatissima, combattendo dall'un de' lati la disperazione, dall'altro il furore, ed il numero ognor crescente delle genti. Erano finalmente oppressi i Morandiani con ferite, e morte di molti: morì Doria medesimo. Usavano i vincitori molta crudeltà, come nelle guerre civili. Il cadavere del Doria fu lunga pezza ludibrio a quegli uomini infieriti. Nacquero fra questo sanguinoso scompiglio fatti parte tremendi, parte ridicoli. Uno schiavo turco, che i novatori avevano liberato, quando si erano impadroniti della darsena, e condotto con loro, ed ammaestrato a gridar viva il popolo, incontratosi in una folla di carbonari, e non sapendo più oltre, diede tal grido, e ne fu malconcio orribilmente. Gli dissero, che bisognava gridar viva Maria, ed ei si mise a gridare, viva Maria; ma trovatosi di nuovo fra quel garbuglio in mezzo ad una truppa di novatori, questi, sentito il viva Maria, il maltrattarono per forma che per poco non l'amazzarono. Il pover uomo tutto pesto, nè sapendo connettere accidenti tanto strani, andava gridando, che i cristiani erano diventati matti, ed avea ragione. Perirono in mezzo a quella furia parecchi Francesi, parte mescolati coi sollevati, parte non mescolati, perchè avendo i Morandiani inalberato chi la nappa Francese, chi la Lombarda, di lontano simile alla Francese, erano tenuti complici, ed ammazzati dagli avversari tutti coloro che portavano le nappe tricolorite. Ciò fu in mal punto, perchè Buonaparte ne prese occasione per disfar il governo. Del resto i Morandiani fecero da se, e messi su dai forestieri; i carbonari da se, e solo spinti da odio e da fedeltà: ma più da odio che da fedeltà: nè nel fatto loro il senato ebbe ingerenza alcuna, salvato piuttosto dal popolo, che da se. Si vegliava la notte fra il dolore dei morti, il terrore dei vivi: s'accendevano i lumi alle case da chi per gioia, da chi per paura, perchè i carbonari minacciavano. Il senato vincitore per opera altrui, di nuovo s'adunava per consultare sulle turbate cose. Mostravasi Giacomo Brignole doge al popolo, da cui era veduto, e salutato con grandissimi segni di allegrezza. Faipoult, veduto che la forza dei novatori era stata indarno, tornava sull'esortare, e più accesamente di prima insisteva sulla necessità delle riforme.
Si stava intanto per la signorìa in grandissima apprensione del come l'avrebbe sentita Buonaparte; perciocchè presso a lui stando il dominio di tutta Italia, a volontà sua vivevano, o morivano gli stati. Gli scriveva il doge in nome del senato lettere molto sommesse di rammarico, e di scusa pei Francesi uccisi. Arrivavano, portate da Lavallette, aiutante del generalissimo, risposte funestissime: Buonaparte non era uomo da non usar bene la occasione; non potere, scriveva, la repubblica Francese tollerare gli assassinj, e le vie di fatto di ogni sorte commesse contro i Francesi in Genova da un popolo senza freno, suscitato da coloro, che avevano fatto ardere la Modesta, e maltrattare i cittadini Francesi; se fra ventiquattr'ore i carcerati non si liberassero, se coloro, che il popolo contro di loro avevano provocato, non si carcerassero, se la feccia di quel popolazzo non disarmasse, aver vissuto la Genovese aristocrazìa, e partirsi da Genova il ministro della repubblica: stare la vita dei senatori per quella dei Francesi in Genova, tutto lo stato per le proprietà loro. Con queste parole superbe ed oltraggiose parlava Buonaparte ad un governo venerabile per l'antichità, e capo di un popolo ingegnoso e forte. Ma i carbonari non avrebbero uccisi i Francesi, se i Morandiani, il capo dei quali era stato munito di patente Francese dal ministro di Francia, non avessero essi primieramente incominciato la ribellione e la uccisione degli uomini fedeli all'antico stato. Quel ritoccar poi della Modesta in questo fatto, era cosa del tutto insopportabile. Del resto, tale fu la forza della verità, che Faipoult attestava ed affermava a Buonaparte, che il governo Genovese aveva fatto in quell'accidente quanto per lui si era potuto, per evitar i disordini; che in facoltà sua non era di comandare a coloro, che, non che gli obbedissero, gli comandavano e li difendevano: che delle uccisioni dei Francesi i patriotti erano stati cagione per aver inalberato i tre colori; che senza questa insolenza democratica niun Francese avrebbe perduto la vita; che i democrati soli avevano messo in pericolo i Francesi; ch'essi avevano fatto oltraggio alla repubblica Francese per aver usurpato i suoi colori nazionali; ch'essi finalmente avevano operato pazzamente per l'impeto sregolato, infamemente per l'apertura delle carceri e delle galere. Da tutto questo si vede, che Genova era del tutto innocente del sangue Francese, e che la collera di Buonaparte, vera o finta che si fosse, per la morte dei Francesi, non contro di lei, ma contro quelli che avevano voluto fare la rivoluzione, avrebbe dovuto sfogarsi.
Quest'era la condizione di Genova. Il senato sbigottito, e servo della moltitudine, e diviso per le opinioni, perchè la parte Francese, che desiderava le riforme, aveva acquistato maggior favore per gli accidenti presenti. Inoltre ei si trovava tra il non poter inveire contro il popolo, perchè lo avea salvato, ed il dover inveire, perchè gli agenti del direttorio gridavano vendetta. La moltitudine armata, fatta la buona opera di redimere il principe, prorompeva, come suole, in opere ree, oltraggiando e manomettendo gli onesti cittadini, solo perchè gli aveva per sospetti. Taccio, che la casa di Morando spogliarono da capo in fondo; ma già incominciavano a spogliar le case, non solo degl'innocenti, ma ancora dei benemeriti; ogni cosa piena di terrore. Insisteva più acerbo che mai Faipoult, perchè si scarcerassero i Francesi, si arrestassero gli uccisori, si dichiarasse, non aver i Francesi avuto parte nella ribellione. Temendo poi che solo si punissero gl'infimi assenti, e si salvassero i capi presenti, richiedeva con imperio insolente dal senato, forse non ricordandosi, o fors'anche ricordandosi di avere scritto a Buonaparte, che era innocente, carcerasse, e ad arbitrio di Buonaparte serbasse Francesco Maria Spinola, Francesco Grimaldi, inquisitori di stato, e Niccolò Cataneo patrizio, per avere provocato, secondo le allegazioni di Lavallette, in ogni possibil modo gli atroci fatti contro i Francesi, e per essere stati autori principali delle risoluzioni prese negli ultimi tempi; sconce ambagi, che coloro, cui Faipoult aveva dichiarato un giorno prima innocenti, fossero dichiarati un giorno dopo rei. Certamente erano Spinola, Grimaldi e Cataneo rei, non d'alcuna morte di Francesi, ma bene dell'amare la patria loro, e del volerla preservare dalla tirannide forestiera. Infuriava Lavallette, e secondava Faipoult. Affermava, che i carbonari erano stati pagati, perchè uccidessero i Francesi, e che i Francesi per ordine espresso erano stati assassinati. La qual cosa se fosse tanto vera, quanto è falsa, pruoverebbe, che gl'inquisitori di Genova fossero piuttosto pazzi, che feroci; perchè in tanta potenza della Francia in tutta Europa, principalmente in Italia, non si vede che cosa importasse la morte di cinque o sei Francesi isolati ed inermi, se non a far sobbissar Genova. Il versar sangue poi solo pel piacere di versarlo, s'imparava solamente alla scuola di Buonaparte. Orrore, dolore, terrore prendeva i senatori alla richiesta. Resistevano in prima, poi spinti dall'ultima necessità, arrendendosi facilmente quei della parte Francese, a loro malgrado consentirono.
Dell'altra richiesta dei prigioni fu soddisfatto senza molto contrasto a Buonaparte; liberavansi i Francesi. Ma più cedeva Genova, e più Faipoult moltiplicava le domande: ottenuta la libertà dei compatriotti, addomandava quella dei Lombardi, non per altro venuti, che per sovvertire lo stato, e presi con le armi in mano mescolati coi ribelli. Consentiva per forza il senato: portarongli i compagni a trionfo per quella città, che testè avevano bruttato di sangue. Del disarmamento, faccenda tanto necessaria, quanto difficile, consentiva facilmente, e dava anche un premio di due lire a chi portasse le armi all'armerìa del pubblico. Restava, che a petizione di Faipoult pubblicamente dichiarasse, non essere stati i Francesi mescolati nella ribellione; al che non si lasciava piegare. Bene mandava fuori un manifesto esortatorio ai popoli, acciocchè avessero i Francesi in grado di amici, affermando, che la salute di Genova dall'amicizia di Francia si poteva solo, ed unicamente aspettare. La quale esortazione dispiacque oltre modo al popolo, che soltanto vedeva le trame, e non conosceva il modo di passarle per la politica.
Il fine principale a cui miravano tante arti, spaventi e minacce, non era punto nè la liberazione di pochi carcerati, nè l'incarcerazione di pochi magistrati, cose tutte nè stimate da Buonaparte d'importanza, nè usate se non per mezzi. Bensì ei voleva la mutazione, affinchè dalla nuova forma fossero esclusi gli amatori dell'indipendenza, e gli aderenti dell'Austria, ed inclusi i partigiani di Francia. Perlochè, vintesi dagli agenti del generalissimo le prime domande, insorgevano con maggior calore, richiedendo il senato, riducesse lo stato a forma più democratica, e facesse abilità ai legati che si volevano mandar al generalissimo, di accordar con lui il cambiamento che si desiderava. Rappresentavano, non altro modo esservi di quietare gli spiriti, se non quello di chiamare anche i popolari al dominio; considerassero, con quanta fatica e quanto sangue s'era poc'anzi l'antica forma potuta conservare, solo perchè non era più consentanea alle opinioni dei più; doversi dare sfogo a questi nuovi umori, se non si voleva che inondassero con rovina della repubblica; per questo solo atto acquisterebbe il senato nella liberata Italia somma autorità, e loderebbe Milano Genova, quel Milano, che allora la scherniva; con questo solo atto si renderebbe sicura la integrità della repubblica, che allora era dubbia; ciò desiderare la repubblica Francese, ciò volere Buonaparte; ciò fatto, sperimenterebbegli Genova così facili ed amichevoli, come allora gli trovava ritrosi ed avversi; divenuti essere odiosi i privilegi; il rinunziarvi, e l'accomunarsi esser da savio, perciocchè altro non era che perdere una chimera con acquistare una realtà; parecchie volte aver Genova mutato modo nel corso dei secoli, ora allargandolo al popolare, ora restrignendolo all'aristocratico secondo i tempi; che ora tornasse al popolare, essere non solo necessario, ma ancora non insolito: cedessero adunque, ed in quella sola risoluzione vedessero la salute della repubblica.