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Kitabı oku: «L'Immorale», sayfa 3

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II

Il palazzo Ateni, dove l’Érmoli era diretto, si eleva freddo e bigio nel pomposo e bizzarro stile di quel secolo XVIII, che à scherzato fanciullescamente col classicismo come con un balocco, appena dopo il maestoso palazzo Trivulzio, all’inizio di via Amedei.

È una casa a due piani dalle finestre altissime, che s’aprono su balconcini ricurvi, riparati da ringhiere in ferro assai rabescate: nel mezzo del piano della casa, tra due colonne doriche piuttosto tozze, sta la gran porta lunata recante sul colmo dell’arco lo stemma gentilizio della famiglia Ateni, tutto corroso dal tempo: gli architravi delle finestre sono molto rilevati, a triangolo greco, recante nei timpani la conchiglia rococò.

La victoria dell’Érmoli s’arrestò d’avanti alla porta del palazzo, e un usciere, in grave livrea, che su la soglia s’accarezzava i favoriti fulvi, si levò rispettosamente il cappello. Paolo discese dalla carrozza con sollecitudine, attraversò l’atrio e la portineria, percorse i due brani di scale quasi a corsa, giunse anelante all’uscio dell’appartamento di Fulvia Ateni. Un servo gli aperse, e senza parlare l’introdusse in un piccolo salotto, ammobigliato con finissimo gusto, quello dove Fulvia soleva passare le sue giornate, leggendo.

Paolo, col cuore in tumulto, sedette in una di quelle poltroncine doppie a spalliere opponentisi, che sembran fatte apposta per un colloquio d’amore. Nell’aspettazione ansiosa scorse un libro sul tavolino d’ebano a intarsio di madreperla, e inavvertitamente lo prese e ne lesse il titolo: Le crime et le châtiment di Théodor Dostojewsky.

Con un atto brusco lo rigettò sul tavolino, avendo cura che ricadesse col frontispizio rivolto verso il piano. “Ecco un titolo stupido!„ mormorò poi rabbiosamente, e cercò di pensare ad altro: ma quelle parole lette a caso in una tale circostanza gli si incisero crudelmente nel cervello, come fossero state impresse da un ferro rovente.

Un fruscìo di vesti annunziò in quel punto l’avvicinarsi della donna amata; l’Érmoli s’alzò in piedi: la portiera persiana si sollevò e nell’angolo curvo si disegnò la imponente bellezza di Fulvia, come un’apparizione fantastica.

Ella era tutta nera, in un tenebroso abito di velluto, che ne disegnava a pena le forme su l’oscurità della porta. La flessuosità del bel corpo un po’ opulento in quel nero a riflessi pavonazzi aveva un non so che di vaporoso, di notturno, come di parvenza allucinatoria, da cui la bianchezza del volto e dell’inizio del collo usciva sinistramente, quasi staccata, isolata nello spazio.

Più in basso, sopra la curva del seno un’altra luce rompeva l’ombra grave: il fulgore d’un fermaglio prezioso a forma di stella, unico giojello che donna Fulvia usava di portare sempre con sé.

Il moto ritmico del seno suscitava nel giojello astrale dei lampi subitanei, come delle scintille elettriche.

– Fulvia! – mormorò il giovine, con un sospiro profondo, appena la vide.

Fulvia sorrise. Egli s’appressò con umile atto a lei, verso l’uscio, dov’ella era rimasta come inquadrata in una cornice, e le cadde ai piedi lentamente, dolcemente, quasi gli mancassero le forze.

Fulvia rimase alquanto indecisa, poi s’inchinò su lui, abbandonò la portiera che ricadde dietro la sua testa e gli tuffò le mani nei capelli bruni e copiosi, senza parlare, rapidamente, con un moto di passione selvaggia. Gli occhi chiari si chiusero un poco, e le labbra s’atteggiarono a un sorriso tenue, sùbito spento.

– Mia Fulvia, – ripeté con un filo di voce l’amante; e non si mosse, gustando il piacevole contatto di quelle mani adorate sul capo.

– È tanto tempo che t’aspetto! – ella disse, finalmente.

Paolo s’alzò in piedi, la guardò a lungo, ma ella lo fissò con una tale insistenza ch’egli dovette infine abbassare involontariamente lo sguardo; allora le prese la mano, la portò alle labbra, ne baciò le dita lungamente: poi la trascinò con dolce violenza a sedere su la poltroncina doppia, presso di lui; e rimasero a lungo silenziosi, uno presso all’altra, palpitando.

– Bella conversazione! – esclamò ad un tratto donna Fulvia, prorompendo in una risatina secca, nervosa.

Egli la guardò, attonito.

– Non ài dunque nulla da dirmi? – chiese ella sottovoce.

– Al contrario: tante cose…

– Belle, imagino.

– Belle.

– Forse che mi ami, non è vero?

Paolo accennò di sì col capo, sorridendo appena.

– Potessi crederti!.. – mormorò Fulvia, e fissò gli sguardi d’avanti a sé nel vuoto.

– Ne dubiti, forse?.. E come? E perché? Ma da mesi io non consacro le ore più belle della mia vita a questo amore, che riempie tutto il mio pensiero, come tutto il mio cuore? No: non t’amo soltanto, Fulvia; io sento in me qualche cosa di più nobile dell’amore, e di più grande: molti uomini sanno amare sapendo d’esser corrisposti: ma io non ti amerei meno (e ti ò già amata così!) senza una sola speranza, col cieco fanatismo di un fachiro indiano, per dedicarti disperato e sprezzato le mie disperazioni e i miei tormenti. Lo credi?

Fulvia sorrise a questo slancio esagerato di passione, scotendo adorabilmente la testa bruna in atto di dolce denegazione.

– Non credi? – riprese Paolo, corrucciato alquanto, come un fanciullo contrariato in una sua ingenua espansione.

– Se non ti credessi, sarei qui ad ascoltarti? Ma le tue parole ànno le ali, e volano di là del tuo pensiero. Non protestare, Paolo: a me basta che tu m’ami come tu dici che molti uomini sanno amare: poiché, vedi? io voglio comprendere il tuo amore, e, se questo è quale tu mi vai professando, mi sfugge e m’abbandona; la mia povera anima feminile non lo sa raggiungere e non lo può capire.

L’Érmoli, mentr’ella parlava con quella sua voce un po’ bassa, modulata e così pastosa ch’era un dolce riposo per l’udito, le guardava le mani quasi livide, agitate da un tremito strano, spasmodico, e le cui dita, forse troppo lunghe, sembravan molestate come da sensazioni eccessive.

– Io ti amerò, come vorrai! – soggiunse Paolo pianamente, con umiltà dolce, non alzando gli occhi, che attraeva irresistibilmente quell’inesplicabile mobilità delle mani.

Fulvia, ebbe a quelle parole un impeto di passione così subitaneo e violento da sembrar quasi simulato, e si protese verso lui:

– Allora mi amerai molto, – gli susurrò all’orecchio, – molto, e non avrai segreti per la tua Fulvia… È vero che non avrai per me dei segreti? – ripeté con ansia dolorosa, avvicinandoglisi ancor più.

Paolo levò gli occhi attoniti, per vedere se nell’espressione di lei potesse afferrare il senso arcano di quella domanda importuna. Ma trovò così splendidamente bello e vivido il suo volto, che il breve e ingiustificato sospetto si trasformò tosto nel suo pensiero in una deliziosa sensazione d’amore.

– Come siete bella! – esclamò, dimenticando l’inchiesta di Fulvia. (Eran le parole medesime ch’egli aveva più volte mormorate nell’orecchio di lei, scherzosamente, quando non teneva ancora una speranza di conquistarla!)

Ella s’oscurò in volto, come allora: sembrò le passasse su la fronte una nube di tristezza, e si trasse indietro con un atto sdegnoso, fissandolo cupamente.

– Che ài? – le chiese l’Érmoli.

– Nulla.

– Perché allora t’allontani da me?

– Io ti piaccio, ma tu non mi ami, – rispose freddamente Fulvia, sempre fissandolo. Questa era la sua frase obligata, quando voleva affliggerlo senza dire il pensiero recondito che moveva il suo dispetto.

Paolo non rispose: le avvinghiò le mani avidamente, gliele coperse di baci: quindi tentò di attirarla a sé, protendendosi verso di lei per baciarle il volto; ma ella rigidamente si sciolse dalle sue strette, gli mormorò un:

– Lasciami! – gelido e aspro e si levò lentamente in piedi.

Quello di strano che v’era in quel cambiamento subitaneo di contegno era l’espressione aspra di contrattura, presa dai lineamenti, e la luce fosca degli occhi che tradivano una viva lotta interna. Paolo non comprese; la seguì con lo sguardo pieno di stupore, quand’ella si recò d’avanti a uno specchio e finse d’acconciarsi la capigliatura; poi, quando, sempre allontanandosi da lui, andò a sedere su un lettuccio a spalliera in un angolo del salotto: in fine con dolorosa sommissione mormorò:

– Perché sei così cattiva? Che cosa ti ò detto per far così?

Fulvia non rispose: egli si alzò, e, giungendo le mani in atto d’implorazione, le si appressò rapidamente:

– Per carità, Fulvia! Che cos’ài? – le gridò.

– Tu non mi ami, Paolo.

– T’amo più della vita! – rispose calorosamente, in uno slancio fittizio d’entusiasmo, – e qui, a’ tuoi piedi, vorrei morire piuttosto che scorgere più a lungo sul tuo volto quell’espressione d’indifferenza sdegnosa. Guardami, Fulvia, guardami negli occhi, e vedi se non ti adoro… – e poiché ella taceva e non lo guardava ancora, le si precipitò ai piedi e le abbracciò le ginocchia: – Via… non far così: Fulvia, guardami!..

La donna ebbe a queste parole un lieve sorriso di compiacenza forzata, e gli porse la mano per sollevarlo: egli si alzò e sedette ancor tremante presso di lei, sul lettuccio.

– Fanciullo! – ella mormorò infine pietosamente, – tu abusi della mia pietà, perché sai che non so vederti soffrire…

A queste parole egli pure sorrise e si calmò come per incanto.

– Io non abuserei della tua pietà se tu non abusassi del mio amore, – susurrò poi con accento infantile; e si protese verso di lei che non si mosse e le baciò la fronte. Ma quel bacio lo esaltò: sentì l’alito di lei tiepido su le carni, e un irrefrenabile desiderio lo assalse: allungò le braccia, strinse nelle mani il volto morbido dell’amata, cadde su lei, le impresse su le labbra tre, quattro baci ardenti, quindi un lieve morso voluttuoso.

– No, no, Paolo! Che fai?.. Finiscila, – gridava Fulvia, un po’ scherzosa, poi un po’ irritata, sotto le sue carezze.

Egli pareva non udirla; eccitato anzi dalla resistenza, la stringeva vie più forte a sé, inveiva vie più forte su di lei con i baci.

– Ma è troppo presto, fanciullo… Lasciami! – disse, scoppiando in una risata stridula, donna Fulvia.

E con un rapido moto di tutta la persona si tolse dalla stretta di Paolo, si levò in piedi, mentr’egli, esausto e beato, s’abbandonava inerte contro la spalliera del lettuccio.

Paolo rimase così, con gli occhi chiusi e un gran sorriso su la bocca. Essa lo guardò un istante curiosamente, poi, di un balzo, fuggì dal salotto per la porta ond’era entrata. Quand’egli s’avvide che ella era scomparsa, s’alzò, corse difilato all’uscio per inseguirla, sollevò rapidamente la portiera, si trovò d’avanti ai battenti chiusi a chiave.

– Ah, cattiva!.. apri… apri… – implorò, tentando di smuover l’uscio con delle scosse, battendo con le dita nel legno.

Ma durante i suoi vani sforzi, un passo secco e avvicinantesi risuonò nella sala vicina; l’Érmoli si volse irritato per vedere chi s’avanzasse, e su la soglia scorse il servitore che l’aveva introdotto.

– Che vuoi? – gli chiese bruscamente.

Si sarebbe detto che costui ridesse dentro di sé, all’atteggiamento solenne e diplomatico di tutta la persona, che aveva assunto al conspetto dell’Érmoli.

– Che vuoi? – ripeté Paolo più veemente, poiché l’altro non rispose.

– La signora contessa m’incarica d’avvertirla che stasera la aspetta un po’ prima dell’ora convenuta; verso le sei, sei e mezza.

– Va bene! – brontolò Paolo, alzando le spalle irritato.

Raccolse il cappello e la mazza, deposti su una sedia nell’entrare, e precedette il servo per l’appartamento silenzioso, dove l’ombra stessa gli pareva piena d’ironia.

Uscì come ebbro; discese le scale in preda a un’agitazione crescente, si trovò nella via. Di tutta la scena con Fulvia non ricordava che il titolo del libro che aveva visto sul tavolino d’ebano intarsiato, e l’oscura domanda di lei:

“È vero che non avrai per me dei segreti?„

III

S’incamminò, senza volerlo, verso la Galleria.

La piazza Sant’Alessandro era piena di luce: la chiesa ergeva le sue due torri basse e la sua cupola tonda sul cielo diafano e stendeva la sua gradinata al sole. Dal palazzo del Ginnasio si riversava il fiotto chiassoso degli studenti che uscivan dalle lezioni, come un’orda barbarica di piccoli uomini invadente nella calma pomeridiana l’assopita città. Con simpatica foga essi sostavano alquanto d’innanzi alla porta della scuola, raccolti a gruppi, a capannelli, o distesi in fila lungo i muri; discorrevano ad alta voce, discutevano animatamente, riempivan l’aria di trilli vivaci, di risa, di schiamazzi: poi quella folla irrequieta di giovinetti e di fanciulli, carichi di libri, si disperdeva a poco a poco nelle vie circonvicine, portando seco quella gajezza spensierata e romorosa, che da lontano mandava ancora tutt’intorno, affievolite, le parole alte e le risa argentine, come ripercosse da un’eco.

Paolo si trovò senz’accorgersi in mezzo a quell’onda giovenile che lo incalzava da ogni parte, e dovette soffermarsi alquanto per lasciarla passare. “Fanciullo!„ pensò, ricordando l’inflessione stessa di voce con la quale Fulvia gli aveva rivolto la parola. “Eccone alcuni forse meno fanciulli di me!„ Come poi gli ritornava alla mente simile a un uggioso ritornello, l’impressione angosciosa causatagli da Le crime et le châtiment del Dostojewsky sul tavolino di Fulvia: “Mi piacerebbe sapere„ continuò “che specie di commozione ò provata trovando quel libro nel salotto di Fulvia. Paura, forse. Paura?.. Ma di che? Del castigo?.. Ma di qual castigo? – È inutile: l’eredità dei pregiudizi è più forte di noi e, spesse volte, le più sciocche idee ne conquidono la ragione, e ne l’offuscano, quando meno ce l’attendiamo. Siamo ancora imbevuti della falsa morale dei nostri padri, timorosi del buon Dio, e quando non si à tempo per ragionare, istintivamente si sragiona. O’ avuto paura, questo è certo: ò provato presso a poco uno di quei panici che ci sorprendon violenti e inesplicabili, allorché, rivolgendoci, ci troviamo dietro di noi qualcuno che non ci si aspettava, fosse egli pure il più caro dei nostri amici. Dopo, appena vinta la prima commozione, si ride allegramente di quegli spaventi intempestivi. Perché dunque non dovrei ridere io pure del mio?„

L’Érmoli scosse le spalle e procedette più spedito, come si fosse levato un peso che lo aggravasse.

“E la domanda di Fulvia quanti torbidi sospetti mi à suscitati, ed uno più ingiustificabile dell’altro! Eppure non era forse una delle solite domande vuote di significati, che rivolgon le donne amanti quando non sanno più altro che dire?„

“ – Mi amerai molto… non avrai per me dei segreti… – Frasi fatte, luoghi comuni dei discorsi d’amore, primi sintomi dell’immancabile gelosia… In somma parole senza sottintesi oscuri, senza occulte intenzioni, assolutamente!..„ Così egli si diceva, discendendo a passi lenti la popolosa via Torino verso la Piazza del Duomo. E parevagli d’esser calmo, libero d’ogni inquietudine, sicuro di sé stesso come sempre.

Eppure un’intima, profondissima molestia persisteva sotto la tranquillità superficiale del suo spirito. – In verità, il contegno di Fulvia con lui non era mai stato dei più chiari e dei più conseguenti. Ella l’amava, veracemente l’amava; nessun dubbio su ciò. Troppo egli l’aveva vista accasciarsi e struggersi per le sue dimenticanze, e durante i periodi di frigidità che a intervalli lo rendevan duro e ostile verso di lei! Troppa gioja aveva egli sorpresa in quegli occhi chiari, su quella bocca sinuosa e ardente, per quelle mobilissime linee del viso, a’ suoi arrivi inaspettati, a’ suoi ritorni lungamente attesi, alle sue attenzioni e sollecitudini veramente sincere!

Come mai però in due lunghi anni, dacché era incominciata la loro platonica intesa, dacché era scomparso nel silenzio del nulla Diego Rebeschi – il rivale invincibile – , come mai ella non aveva mai avuto un istante d’intero abbandono, non aveva mai voluto un contatto materiale con lui, anche il più innocente, s’era chiusa nella sua fede amorosa come in una rocca impenetrabile? Tanta castità, tanto sdegno del senso, tanta irritabilità nervosa ai contatti, eran dunque naturali in lei? E poteva ella essere stata così anche col marito, anche con Diego?

Queste e consimili domande Paolo s’era già fatte le mille volte, e non aveva saputo trovare ad esse una spiegazione che lo sodisfacesse; poiché egli aveva anzi conosciuto dalle fraterne confidenze del cugino che donna Fulvia era appassionata, tenera, inestinguibile ne’ suoi ardori. Poteva forse aver mentito il cugino, per una malsana vanità d’amante? No. Egli sapeva per lunga consuetudine che Diego non era affatto vanitoso e possedeva la bella franchezza degli uomini semplici e mediocri. Dunque era con lui, era a lui solo ch’ella riserbava quel contegno, quasi di vergine intangibile? E perché?

Ahi, molte volte la risposta non voluta, la risposta temuta e repugnante era balenata nel suo pensiero, quasi una fosca rivelazione: “Fulvia mi ama, ma à orrore di me. Ella sospetta, ella forse sa ogni cosa!„ Questa risposta però era sempre stata rigettata sdegnosamente da lui poiché la giudicava assurda, ignobile, stupida.

Ed anche questa volta, – com’essa sorse spontanea, naturale, logica nel suo pensiero – , fu sùbito respinta indietro, bruscamente. Rimase però, nascosta nel fondo dell’essere, pronta a risorgere, vigile, impaziente, minacciosa, nell’aspettazion della prossima ora definitiva.

Così pensando e torturandosi, Paolo aveva percorso l’intera via Torino ed era giunto su la Piazza del Duomo. All’aprirsi del largo egli si fermò un istante ad osservare quel formicolare d’uomini in mezzo al via vai multicolore delle carrozze, degli omnibus, delle tranvie, quell’agitazione quasi affannosa della vita urbana che si condensa nel centro d’una grande città: poi, trovandosi in quei paraggi popolosi che gli ricordavan le abitudini della sua vita quotidiana, riprese a poco a poco, senz’accorgersi, la sua indifferenza leggermente sarcastica d’uomo di società, e con passo più rapido si diresse verso i Portici Settentrionali dove sperava d’incontrare qualche amico, o, per usare la sua frase abituale, qualche “seccatore„.

Non era giunto allo sbocco della Galleria che avea già trovato quel che cercava: aveva preso sotto il braccio il commendator Mariani, che veniva in direzione opposta alla sua, e lo trascinava verso il corso Vittorio Emanuele a viva forza.

– Mi piacerebbe sapere perché i tuoi capelli diventano tutti i giorni più neri! – gli diceva, ridendo con foga.

Il Mariani, abituato a camminar lentamente per il peso degli anni, a stento dissimulati, e del ventre rigonfio, sbuffava come un mantice, dovendo tener dietro al passo spedito dell’Érmoli.

– Piano! gli gridava. – È stato abolito il corso forzoso, ma questa è una vera corsa forzosa. Io devo andare a casa.

– Spìcciati, tartaruga, ché ò fretta: ti offro il vermouth al Bar, e spero non vorrai darmi il dispiacere d’un rifiuto: devo pranzar presto, se voglio arrivare in tempo a prender moglie.

– Ah! sicuro, oggi prendi moglie! Non me ne ricordavo più, – esclamò stupefatto il commendatore, accelerando il passo; – in tal caso non voglio darti altro dispiacere: ti seguo.

Giunsero all’American Bar, e vi trovarono il Serbelli, il Levi e Giorgio Alboè, ritornato la mattina da un fortunoso viaggio in Oriente.

L’Érmoli offerse la bibita a tutti, chiacchierò alquanto con gli amici di cose varie e indifferenti, chiese qualche impressione del suo viaggio all’Alboè, poi finse d’uscir fuori per vedere un po’ la passeggiata elegante del pomeriggio, e, senza salutar nessuno, attraversò il Corso per dirigersi a casa.

Rientrando nella sua camera, in quel lusso amico, dove da quindici mesi si cullava nel sogno lusinghiero della felicità, – dopo il repentino mutamento di condizioni, dalla miseria alla dovizia – , Paolo, alcune ore prima di raggiungere uno de’ suoi più ardenti desideri ambiziosi, fu ripreso dal corso di pensieri lieti della mattina che gli avvenimenti della giornata avevan solo interrotto.

Dopo aver chiesto a Enrico se tutto fosse pronto per la partenza, l’Érmoli si mutò d’abito, si vestì da viaggio, poi si fece portare i giornali della sera, e accomodatosi in una poltrona a sdrajo si diede a scorrerne qualcuno.

La sua mente però volava e non gli permetteva di fissare l’attenzione alla lettura: gli occhi scorrevano su le linee dell’articolo di fondo del Tempo, ma la sensazione ottica si tramutava a stento in idea e le idee non concatenate dalla memoria si succedevan senza nesso e svanivano come gocce luminose pioventi a intervalli nelle tenebre senza rischiararle.