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Kitabı oku: «L'Immorale», sayfa 4

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“Che cosa ò letto io?„ si chiese Paolo, giunto al primo asterisco dell’articolo. “Chi sa? Non mi ricordo una sola parola di questa colonna di stampa: si vede che dev’essere molto interessante per lasciare una così profonda impressione. D’altra parte io non so che cosa possa trovare in questi giornali d’attraente: né perché mi sia messo a leggere.„ Lasciò cader su i ginocchi il Tempo e s’abbandonò tutto alla piena della sua esaltazione psichica, a quella vaga polifonia di pensieri e di sentimenti piacevoli che spontanea si sviluppava nel suo spirito. Si distinguevano infatti in essa, armonicamente combinati, due motivi assai dissimili; uno energico e descrittivo, all’inizio più imponente, come un allegro vivace volante per l’orchestra con ritmo giocondo e balzante, che esprimeva la gioja della vittoria; l’altro melodioso e soavissimo che lento si svolgeva sopra quell’allegro furoreggiante, e, da prima fievole e come lontano, s’avvicinava man mano e cresceva d’intensità, finché, affievolendosi il primo a sua volta e perdendosi, prendeva il predominio e s’allargava maestosamente nell’orchestra intiera, trionfale e gaudioso: il motivo d’amore. Paolo, in quella dolce alternativa di commozioni, aveva dimenticato totalmente la realità; era rimasto così immobile lungo tempo, gli occhi perduti nel vuoto e come ciechi, i sensi addormentati in un letargo profondo, la fantasia sola volante nel libero mondo dei sogni di là del probabile e del possibile, di queste due muraglie insormontabili entro cui si dibatte affannosa tutta l’attività umana.

L’ora che batté all’orologio a pendolo, tichettante monotono nella sua camera, lo scosse: eran le cinque. S’alzò in fretta, e uscì per pranzare.

Al Cova alcuni vecchi gentiluomini, abituati a prendere a quell’ora la solita bibita stimolante, discorrevano della caduta inaspettata del Ministero Crispi, ed altri dei progressi scenici d’una Tersicore su la via della celebrità; l’Érmoli sedette solo a un tavolino appartato, e ordinò al cameriere di servirlo in fretta. Poco dopo entrò dalla parte della pasticceria l’avvocato Maddaloni, il suo testimone, alto, dalla barba un po’ brizzolata, vestito severamente di nero; e gli si avvicinò. Paolo si levò sorridendo e lo salutò con affettuoso rispetto.

– T’aspettavo! – gli disse l’Érmoli, offrendogli una sedia.

– Lo credo, – soggiunse il nuovo venuto, rifiutandola con un atto della mano. – Allora è alle sette?

– Sì, alle sette precise.

– Va bene: mi troverò per quell’ora al Municipio.

– Come, non vieni da Fulvia con me?

– Non posso; ò un abboccamento, al quale non debbo mancare, proprio adesso alle sei. Ci vediamo fra un’ora.

– Va bene. Arrivederci.

Il Maddaloni uscì salutando a pena con un cenno del capo.

IV

L’Érmoli pagò il conto e ordinò di chiamargli una carrozza publica da Piazza della Scala. Poco dopo egli era diretto di nuovo alla casa dell’amata, d’onde, insieme con lei e con i pochi congiunti prossimissimi (Paolo s’era decisamente rifiutato a dare una qualunque publicità alla cerimonia) sarebbe andato al Municipio per la celebrazione delle nozze.

Fulvia ricevette Paolo cordialmente allegra: quando sentì nell’anticamera la sua voce, corse ridendo fin su la soglia della sala, gli prese le due mani, e lo condusse, tenendogliele sempre strette, fino al divano, dove sedeva una signora belloccia ancora e vivacissima, una cugina di lei.

– Marchesa! – disse Paolo, inchinandosi leggermente.

– Or mai, cugino, mi farete il favore di smettere questo titolo uggioso per chiamarmi semplicemente Giovanna! – strillò la piccola signora Argenti.

– Come vi piace! – soggiunse l’Érmoli, e le baciò galantemente la mano inguantata ch’ella gli stese. Poi si volse a Fulvia:

– E il duca? – domandò.

– Il duca?.. Che vuoi che ne sappia? Non è ancor venuto, ma non potrà tardare. Sai che arriva sempre un momento dopo dell’ora fissata.

– Bel sistema! – mormorò Paolo.

– È il suo, e tanto basta!

L’Ateni vestiva un semplice ma elegantissimo abito da viaggio e non portava un sol giojello. Era più pallida del solito, e gli occhi le brillavano come avesse pianto.

– E l’avvocato Maddaloni che dovevi condûr teco? – domandò Fulvia.

– Verrà direttamente al Municipio.

Un suono di campanello annunziò in quel punto il duca d’Alavo.

La scena indifferente, quegli spettatori importuni della sua felicità, la prossima cerimonia ufficiale indisposero l’Érmoli: egli aborriva da tutto quel convenzionalismo di forme che pur doveva riconoscere indispensabile. Se avesse potuto rimandare al domani quello ch’egli da mesi agognava ardentemente, lo avrebbe fatto senza dubbio. A un tratto divenne triste e taciturno: andò a sedersi in una poltroncina discosta dal gruppo delle due signore e del d’Alavo, prese un albo di fotografie e si pose a sfogliarlo.

In una delle prime pagine lo colpì il ritratto di Diego Rebeschi, la sua vittima: egli lo fissò lungamente in preda a una morbosa curiosità. Non v’era però nulla di doloroso né di pauroso in quello sguardo: lo fissava per un inesplicabile desiderio di ricostruzione ideale della personalità di lui; e quella fotografia nitida, che riproduceva il volto pallido di Diego in un istante d’attenzion naturale, riusciva perfettamente allo scopo. Egli lo vedeva vivo e parlante in quel ritratto, e la marea delle memorie, per quell’illusione sensitiva, ascendeva lenta e travolgente nel suo spirito mal sicuro ad appartarlo tragicamente nel passato: e Paolo ricordava quando il Rebeschi, malato in fil di vita, gli aveva mostrato, commosso dalle sue cure fraterne, il testamento prezioso nel quale lo eleggeva suo erede universale: poi la convalescenza di Diego, poi la violenta passione di lui per Fulvia, poi il prorompere della sua cupa e silenziosa gelosia, dell’odio atroce per il cugino, della paura delittuosa di vedersi tutto sfuggire dopo aver tanto sperato. E ripensava quando il Rebeschi, guarito e felice, partì con la giovine vedova, con quella donna ch’egli avea così vanamente desiderata durante lunghi anni, per quel viaggio idiliaco in Isvizzera; e infine il ritorno degli amanti, la conoscenza per un caso fortuito che il testamento antico esisteva sempre: l’idea, la lotta disperata con la propria sensibilità e con i vieti preconcetti morali, per imporsi la forza d’agire, e poi… l’azione (era poi stata azione?), il delitto, l’impunità sicura e gloriosa!

Un attimo, un unico attimo era bastato ad eseguire il suo piano diabolico! Si sarebbe potuto credere che il destino avesse congiurato insieme con lui per sopprimere l’uomo importuno; quand’egli, là su l’altura solitaria di Nirano, aveva visto Diego spingersi su l’orlo fatale, oscillare, cadere nella immane pozza di fango del vulcanetto, aveva pensato sùbito che una Volontà superiore fosse intervenuta ad ajutare la sua incerta volontà. Ed egli l’aveva freddamente lasciato perire, sordo e impassibile alle grida disperate, ai cenni mostruosi di soccorso che gli rivolgeva il morituro!

Ecco, la memoria precisa del fatto rinasceva adesso in Paolo d’avanti all’effigie del cugino, nell’ora prossima al raggiungimento “finale„ del suo Scopo, con una singolare evidenza di particolari: – Egli rivedeva l’onda dei colli Emiliani, sotto il sole formidabile: una pallida successione di dossetti brulli, senz’alberi, segnati a lunghi intervalli dalle cupe macchie degli arbusti spinosi. Egli rivedeva l’insidiosa conca dei vulcanetti di fango, d’un color livido, senza un ciuffo d’erba, tempestata di monticoli umidicci, specie di pustole fredde stillanti un denso liquor di cenere. Egli rivedeva sul cielo infiammato il volo sollecito degli uccelli migratori, che gittavan le grida di richiamo ai dispersi dell’aria, fuggendo senza posa la plaga inospitale. Egli rivedeva infine l’orrida statua d’argilla, ch’era uscita per ben due volte dalla pozza, dopo la caduta di Diego; una mano levata nel vuoto e supplichevole, l’altra mano aggrappata all’orlo viscido dell’abisso che si scalfiva e si sfondava nell’inutile stretta.

Tutte queste terribili cose egli rivedeva, distintamente, come in un sogno, d’avanti al ritratto smunto della prima sua vittima; e rivedeva anche (più terribile d’ogni altra imagine!) la gran faccia rossa e spaurita di Gianni Vesta, il rozzo compagno di caccia del cugino Diego, quello ch’egli aveva lasciato cinicamente accusare e la Giustizia degli uomini aveva ritenuto colpevole e condannato, – nel momento della iniqua e altosonante sentenza!

“Sono innocente„ aveva egli mormorato, abbassando lo sguardo a terra; ed era partito barcollando tra i carabinieri impassibili, per la disperata solitudine della cella carceraria!..

– Che ài? – gli chiese con affetto Fulvia, avvicinandoglisi.

– Nulla, – le rispose seccamente Paolo, scotendosi, gittando l’albo su la tavola.

– Mi sembri triste.

– E come non dovrei esserlo? – borbottò egli sottovoce.

Ella non comprese.

– Sei crucciato forse con me, per averti oggi lasciato solo? Ma cominciavi a far l’impertinente, e mi pareva un po’ presto.

Fulvia disse queste parole con tanta grazia e con un tremito di voce così soave, ch’egli ne fu profondamente commosso.

– Oh! no, con te non son crucciato! – mormorò Paolo, guardandola appassionatamente.

Fulvia gli sorrise e si allontanò. Quel breve dialogo affettuoso bastò a esilarare lo spirito rabbujato dell’Érmoli: come sempre, la voce di lei gli aveva suscitato nell’animo quell’ineffabile senso d’amore che tutto lo trasformava; egli la seguì con lo sguardo, malinconicamente, e provò nel cuore, guardandola, una strana delizia.

– Ohe! ragazzi, – gridò il duca, col suo fare paterno, – sarà bene incamminarci.

– È vero! Sono le sei e cinquanta! – disse l’Argenti, dopo aver guardato l’orologio piccolissimo.

– Andiamo pure! – esclamò Fulvia, tentando invano di reprimere un profondo sospiro.

Paolo s’alzò senza parlare; ajutò la signora Argenti a indossare la magnifica mantiglia, e uscì per il primo dalla sala.

Alla porta eran ferme due carrozze chiuse, quella dell’Ateni e quella del d’Alavo.

– Quattro in due carrozze, – disse questi, – bisognerà dividerci.

– Sicuro. Vada lei con Fulvia, duca, – gli gridò Paolo: – io e la marchesa approfittiamo della sua.

Quando l’Érmoli fu solo coll’Argenti, questa si affrettò a dirgli con la sua voce acuta e studiata di donnina galante che à parecchi anni da farsi perdonare:

– Cugino ostinato, voi non volete dunque chiamarmi assolutamente col mio nome…

– È vero – egli mormorò – scusatemi; perché, vi confesso, sono un po’ turbato…

L’Argenti lo guardò con istupore, non potendo capire quel turbamento in Paolo Érmoli: ma, non volendo importunarlo con una domanda, prudentemente tacque. Siccome poi egli pure taceva ed ella non era abituata al silenzio, cominciò a parlare leggermente, saltando da un argomento all’altro con la volubilità e l’amabilità delle signore solite a sostenere una conversazione da salotto; parlava ancora mentre la carrozza si fermava in piazza San Fedele alla porta del palazzo Marino.

Il Serbelli e l’avvocato Maddaloni, che avevan già salutato Fulvia e il duca, si fecero incontro a lei, e il Serbelli le offerse il braccio per entrare nel Municipio. La comitiva indugiò alquanto nell’atrio, discorrendo; fuori alcuni popolani s’eran fermati, curiosi di quel matrimonio signorile e senza alcuna pompa, ad un’ora insolita, e spingevan dentro gli sguardi ricercando in vano il bianco abbigliamento della sposa.

Per togliersi a quella curiosità plebea, Paolo sollecitò perché si entrasse nella sala delle cerimonie; e vi si trovò già in aspettazione l’assessore incaricato.

Questi salutò il d’Alavo amico suo, poi il Maddaloni ch’era consigliere comunale; quindi s’incominciò la cerimonia nuziale. Essa fu celebrata in mezzo al silenzio malinconico dei presenti: la voce nasale dell’assessore, mentre leggeva gli articoli del codice, risonava triste e monotona nella sala, risvegliando i cupi e prolungati echi delle vòlte. Paolo sembrava seccato, Fulvia commossa. Alla domanda sacramentale se fossero contenti di sposare, l’Érmoli rispose in fretta “sì„, come a un importuno che volesse levarsi d’intorno; ella prima di rispondere parve perplessa un istante, poi pronunciò un “sì„ energico e rapido che gli echi mormorarono a lungo. Quando Fulvia firmò, la sua mano tremava come durante il colloquio della giornata con Paolo.

Uscirono, e nell’atrio si scambiarono i saluti e gli auguri. La sposa con apparente gajezza, ringraziando, strinse affabilmente la mano agli uomini che le sciorinavano dei madrigali comuni, poi abbracciò e baciò la marchesa che le susurrò all’orecchio forse qualche parola audace da farla ridere e arrossire insieme.

Paolo e Fulvia salirono finalmente nella loro carrozza, fra le due ale ingrossate dei curiosi, che ammiravano l’avvenenza superba di lei, mormorando; e con un ultimo saluto dagli sportelli, partirono diretti alla stazione.

La solitudine con la donna adorata, la fulgida prospettiva del piacere, fors’anche il pensiero d’aver condotto a termine quell’odiosa cerimonia, rianimarono Paolo: egli prese affettuosamente la mano di Fulvia e la trasse alle labbra. Ma sentendola agitata da quel tremito nervoso che prima aveva già osservato e spiegato con la commozione del momento:

– Perché tremi così, Fulvia? – le chiese.

– O’ freddo! – ella rispose semplicemente.

Egli non dubitò: le cinse le spalle con un braccio e la trasse a sé così dolcemente, che Fulvia non fece un atto di resistenza e gli cadde col capo sul petto. L’Érmoli prese allora uno scialle e ve l’avvolse accuratamente fino al collo: poi le ridomandò:

– Ài freddo ancora, così?

– No, – mormorò Fulvia, ma non smise di tremare.

Allora l’idea cupa attraversò il suo cervello: “Ella mi ama, ma à orrore di me! Ella sospetta fors’anche sa ogni cosa.„ – “Debolezze!.. Atavismo!.. Ciò che nessuno sa e nessuno può sapere, è come non fosse mai avvenuto!„ egli pensò sùbito.

Ritacquero.

Ora Paolo si sentiva invadere lentamente da un’onda di beatitudine, e fremeva odorando quel sottile e noto profumo di lei, che riempiva la piccola stanza d’un’aria molle e voluttuosa, come quella d’una serra in primavera. Al suo pensiero ritornavano alcune parole di Teofilo Gautier: En amour souvent un fiacre vaut un bosquet de Cythère, e sorrideva di compiacenza e di orgoglio.

Quando furono nel coupé riservato del treno diretto a Como, Fulvia, che sembrava stanca, si coricò su i cuscini, appoggiando la testa al petto di Paolo, e parve s’addormentasse; non dormì però mai. Egli si chinò una volta verso di lei e la baciò leggermente su una guancia, ma Fulvia non fece un movimento, non aperse neppur gli occhi.

Egli s’abbandonò allora al suo pensiero: “Ecco il Premio! Questa donna non sarebbe mai stata mia ed io l’ò voluta e l’ò avuta. Io esco dalla lotta per riposare la mia testa stanca sul seno di lei, e posso incidere sul mio scudo il motto: nec spe nec metu: perché non ò più nulla da sperare, e non ò da temere che dalla mia conscienza, ed essa tace e tacerà, perché è salda, emancipata dei preconcetti volgari, ignara delle paure ereditarie.„

Un lampo d’entusiasmo lo abbagliò: in quel silenzio notturno, che il boato sordo del treno corrente rendeva tragico e solenne, il suo spirito s’allargava, sì che gli pareva di signoreggiare quell’oscuro regno del Mistero con la potenza fatale del suo genio: oh! sì, egli era ben signore dell’Universo in quella sera fortunata, poiché il dispregio suo colpiva l’umanità intera, ed egli teneva una donna, tutta sua, che il pregiudizio di casta gli avrebbe contesa; egli possedeva una ricchezza, che aveva in onta alle leggi carpita; egli manteneva intatta e incontrastata la sua riputazione, che a dispetto degli uomini e delle sue azioni aveva saputa conservare. Era una luminosa vittoria contro la Società quella ch’ei celebrava, e la corona trionfale – eccola!..

Egli reclinò gli occhi, e rimase a lungo fissando le chiome un po’ scomposte di Fulvia, quelle maravigliose chiome che avrebbero inondato il candore dell’origliere nuziale, obliose e notturne come le acque del Lete.