Sadece LitRes`te okuyun

Kitap dosya olarak indirilemez ancak uygulamamız üzerinden veya online olarak web sitemizden okunabilir.

Kitabı oku: «L'Immorale», sayfa 5

Yazı tipi:

V

Il lago tetro e nero simile a una gran pozza di pece stagnante, tra le forme indecise dei monti, mandava dei foschi riflessi. Sotto gli obliqui raggi della luna, già al tramonto, Como, nell’anfiteatro basso de’ suoi colli, scintillava per una infinità di lumi, e pioveva nell’acqua morta lunghe strisce d’oro a pena ondulate, che parevano, succedendosi regolarmente, un colonnato moresco, sostegno paradossale della città addormentata su i liquidi abissi. Le lontananze opposte, come annebbiate dalla luce lunare, disegnavano un paesaggio desolato tra le erte e chiuse pendici, che soltanto a lunghi tratti il malinconico luccicare di qualche lume perduto interrompeva.

Paolo e Fulvia eran già arrivati alla loro villa in Borgovico, una villa pallida e sontuosa, ereditata anch’essa dal cugino Rebeschi, e s’eran ritirati nelle loro stanze.

Paolo, solo, svestitosi degli abiti da viaggio e indossata una serica camicia da notte, nella trascurata eleganza, con cui si voleva presentare nella camera di sua moglie, fumava alla finestra una sigaretta, gli sguardi smarriti nella notte. Ora si sentiva stanco e svogliato: quella spossatezza che assale coloro i quali, dotati d’eccessiva imaginazione, àn troppo a lungo stancato con essa un desiderio, s’impadroniva di lui proprio nel momento in cui era presso a sodisfarlo.

Ne’ suoi pensieri involontarî una sorda tristezza ondeggiava. Egli non ne poteva trovare la cagione, poiché questa era appunto laddove egli meno lo sospettava: nella sicurezza del prossimo e inevitabile sodisfacimento. Ancora: l’imprevedibilità degli episodî, omai imminenti, di quella notte tanto sospirata (il primo entrare nella stanza di Fulvia, le prime parole, come si sarebbe appressato a lei, come l’avrebbe posseduta, come l’avrebbe lasciata, quel complesso di piccole scene, che si rappresentano ma non si posson preparare), deprimeva da un altro lato vie più il suo spirito, e gli toglieva ogni impulso per varcare la breve soglia ond’era da lei diviso. La facoltà d’amplificar le imagini delle impressioni, propria dei temperamenti lirici, aveva su di lui un potere dissolvente eccezionale: egli si trovava continuamente in balìa a un’alternativa incessante di speranze eccessive e di esagerati scoraggiamenti; le quali speranze lo accompagnavan costantemente fino al momento dell’azione, e gli scoraggiamenti lo assalivan quand’egli proprio si trovava nell’assoluta necessità d’operare. Così l’azione riusciva di solito fiacca o disordinata, e il più delle volte susseguiva a questa un abbattimento morale per l’insuccesso, dal quale non si poteva riavere che ideando altre e più fantastiche prove.

Allor che, anche senza suo merito, ma per il valido concorso delle circostanze, otteneva il successo preveduto, – per lo stupore s’abbandonava a un’esaltazione così iperbolica, che il suo pazzo amor proprio e la sua smodata ambizione lo riconducevan ben presto a maggiori e più acerbe delusioni. E questa disperata legge era stata la costante di tutta la sua vita!

Appoggiato al davanzale, la sigaretta ormai spenta tra le labbra aride, egli guardava in giro per il paesaggio notturno, ma spesso non s’accorgeva di vedere: solo di quando in quando la sensazione si faceva consciente, ed allora egli assorbiva da quella serenità una malinconia obliosa e indefinita, che gli dava un senso di pesante riposo: il suo spirito s’aggravava in quel mondo silenzioso e oscuro, e gli pareva di concepire l’istante come non avesse più alcun legame né con l’istante passato, né con l’istante avvenire.

Ma la realità lo richiamava presto a’ suoi pensieri: “Che faceva Fulvia, mentre egli indugiava così, aspettando un impulso? Si sarebbe svestita? Forse si sarebbe già coricata nel gran letto di palissandro profumato, su cui ridea quella testa di fauno ch’egli ben conosceva? L’attendeva ella ansiosa? Oh! Era indegna di lui quella titubanza puerile, – di lui ch’era stato così forte e che aveva così intensamente desiderato il corpo di quella donna!„ Bisognava varcare quella porta socchiusa e null’altro; e pure non sapeva decidersi a varcarla.

Egli per ispronarsi tentava d’imaginare il piacere che poteva ripromettersi da quella notte d’amore; e la dolce imagine gli si dissolveva tosto nelle piccole ma delicate difficoltà, che avrebbe dovuto vincere per procurarselo. Egli si sforzava a raccogliere tutti i ricordi della dolce passione, grazie alla quale da più di sei mesi avea potuto del tutto assopire la disperata sua smania dell’impossibile, e appena riusciva a rievocare qualche desiderio, che in quel momento gli pareva passato e spento; a riandare dei timori, che, in quell’istante come non mai, sentiva giganti e prepotenti nell’animo.

“L’amava ella? L’aveva amato? Chi lo poteva accertare? Egli no; assolutamente no. Fulvia era stata così strana e così mutevole con lui che qualche volta perfino gli era passato il dubbio ch’ella fingesse l’amore. Ma perché fingere?„ Questo dubbio altre volte solo accennato, sorgeva durante l’indugio, con terribili apparenze di verisimiglianza: il fatto medesimo di non aver chiesto lei, così scrupolosa per il passato nella sua fede cristiana, la celebrazione del matrimonio religioso (fatto che altre volte egli aveva sostenuto come salda prova di fiducia e di grande amore per lui), testimoniava ora contro questa stessa fiducia e questo stesso amore. “Ella non l’amava!„ Egli concludeva la sua meditazione con questa frase desolata, e la concludeva così freddamente, apaticamente come tutto ciò non dovesse per nulla riguardarlo. Una freddezza, quasi ostile, contro Fulvia, sottentrava a poco a poco alla infinita tenerezza di prima. Era così anche questa volta, come sempre: all’istante di conquistare un pallio, corso con immenso ardore, egli si lasciava sorprendere dalla stanchezza e dalla malavoglia e s’arrestava sfiduciato. Il Piacere era per lui, come l’ombra sua: lo vedeva vicino finché non lo poteva raggiungere e gli scompariva allorché stava per agguantarlo.

E come e quanto egli aveva amata e desiderata quella donna! Da anni egli ne aveva ideato la conquista, ma come un sogno irrealizzabile, che si architetta nella mente pel puro compiacimento d’imaginare l’impossibile; l’aveva desiderata fin da quando la prima volta l’aveva vista al braccio di Diego ad un ballo, in un voluttuoso abbigliamento chiaro da cui prorompevano squisite carnosità del molle colore dell’avorio antico. La contessa Ateni quella sera, tra gli uomini assiepati intorno, passava sotto gli sguardi gravidi d’ammirazione, di bramosia, d’invidia, altera e indifferente come una dea. Ed egli, siccome gli parve delle altre più impeccabile, non la poté più scordare. Poi, dopo d’allora, l’aveva seguita a lungo, forse involontariamente, senza una speranza e senza pure un’illusione, pago e contento di godere quel poco che a tutti può concedere una bella donna: qualche stretta di mano, qualche sorriso, qualche invito, un quarto d’ora di dilettantismo galante, uno sguardo. Diego Rebeschi pareva amatissimo dalla giovine vedova: poneva in lei una fiducia senza limiti. Per la incitazione amichevole del cugino, Paolo la poteva frequentare con certa assiduità; ed era realmente superbo di trascinar la sua miseria ben dissimulata in mezzo al lusso raffinato di quella casa signorile. Poi il cugino era affogato, lassù, durante una partita di caccia, nella voragine di fango, e Paolo aveva avuto la sodisfazione d’essere accolto tra la sottile schiera dei confortatori col Serbelli, con l’Albenza, con due o tre altri intimi di casa. Gli sembrò allora per la prima volta che Fulvia potesse in un giorno vicino o lontano, corrispondergli: egli era in un momento di auge: i suoi articoli sul Progresso, articoli audaci, brillanti, popolari, gli avevano creato una certa celebrità, di cui per qualche giorno poté accontentarsi. Sperò e non fu deluso. Con la morte del Rebeschi, – morte voluta– egli ereditò una cospicua fortuna, e poco dopo il sogno de’ suoi tempi di abjezione si vide per un caso singolarissimo splendidamente e repentinamente avverato.

Fulvia era sua. La inarrivabile dama, che gli era apparsa per la prima volta in una festa da ballo, l’attendeva discinta dietro quell’uscio socchiuso: egli non doveva fare che due soli passi, ed era presso di lei, signore e amante suo; due soli passi, – ma Paolo esitava a farli, forse anche aveva paura di farli.

Le chiese di Como sonarono una dopo l’altra, lentamente, le dodici: quello squillo secco e prolungato di campane nel silenzio notturno aveva un non so che di tragico e di solenne, che scosse Paolo dal suo tedio e dalla sua immobilità: gli parve un richiamo, venutogli dal di fuori, alle convenienze del momento ch’egli aveva dimenticate; quasi un rimprovero della notte per la sua miserabile impotenza ad afferrare anche quell’occasione di piacere, a sentire, fosse pure un attimo, l’impulso della Materia, la voce della Natura, il richiamo semplice e grande della sessualità.

Si levò in piedi: aveva negli occhi una luce fredda, vitrea; il volto era pallido: le labbra contratte; i lineamenti atteggiati a un’insensibilità orribile. Egli aveva, in quell’ora di crudele irresolutezza, sofferto assai più che i suoi pensieri desolati non avessero potuto farlo soffrire: assai più ch’egli medesimo non sapesse! Si fregò gli occhi, si stirò, come si svegliasse allora da un pesante letargo, e pronunciando la parola “Andiamo„, forse per raccogliere quel brandello di volontà che gli rimaneva, s’avviò verso la stanza di sua moglie.

Aperse pianamente l’uscio, rialzò la cortina, non senza un resto di titubanza, e spinse l’occhio nella ricca camera che, per la lampada a smeriglio giallo, languiva in una soave penombra d’oro.

Il letto era vuoto, e ancora intatto: in torno nulla indicava che una signora era entrata per passarvi la notte; né, per quanto egli girasse lo sguardo, gli era dato di scorgere il cappello, il velo, la mantiglia di Fulvia.

Impensierito, s’avanzò d’un passo nella camera. Nessuno! Era vuota, né si sarebbe detto che alcuno mai fosse stato, al freddo ordine che vi regnava. Solo il fauno al sommo del capezzale, sotto il padiglione azzurro, gli gittava in volto il suo ghigno scurrile di scherno, così come gli era apparso quand’era venuto per la prima volta, pieno l’animo d’invidia e di rancore, a trovare in villa il dovizioso cugino.

Paolo si soffermò alquanto in mezzo alla camera, con gli occhi al suolo e la fronte corrugata da una molesta idea: poi, quasi lo avesse spinto una divinazione, si slanciò verso la finestra che rimaneva nascosta dal copioso panneggiato delle tende, rialzò queste con un rapido movimento, e si trovò a faccia a faccia con Fulvia, tutta abbigliata come quando erano discesi dalla carrozza, col velo bruno ancora steso sul bellissimo volto.

– Che fai lì? – chiese con voce un po’ tremante l’Érmoli.

Fulvia che lo fissava, mormorò:

– Nulla. T’aspettavo.

– Così?

– Così.

Paolo tentò un sorriso, che si decompose tosto in una smorfia nervosa.

– Perché mai? – chiese dopo una pausa.

Fulvia non rispose: non alzò pure gli occhi.

– Ti senti forse male?

Ella fece cenno di no. Paolo corrugò la fronte, quasi la domanda, che prima le avea fatta, si fosse rivolta importuna contro di lui: e con voce più dolce riprese:

– Mi son fatto forse troppo attendere?

Fulvia lo riguardò; ma questa volta con atto di stupore; poi scosse la testa, e disse a voce ben chiara:

– Non so. Non ricordo neanche da quanto tempo io sia qui, a questa finestra.

– È mezzanotte.

– Mezzanotte?!..

Paolo le prese le mani inguantate: la trasse così dolcemente in camera: ella non reagì, si lasciò da lui trascinare passivamente, e non ritirò, finché la tenda ricadde dietro di loro, le sue mani da quelle di Paolo.

– Non ti levi il cappello?.. i guanti?..

– Sì.

Fulvia s’avvicinò allo specchio, dove si tolse lentamente il tocco di lontra, la ricca mantiglia e i lunghissimi guanti di Svezia; poi ravviò alquanto i capelli, mentre Paolo in silenzio, curiosamente, la guardava. In fine si volse, e, nell’eletto abito di seta scozzese, dalle larghe maniche fluttuanti, che le modellava superbamente la taglia slanciata del corpo, rimase ritta incontro a lui, con le mani intrecciate dietro il dorso, quasi in atto di sfida.

In altra disposizione d’animo, l’Érmoli le sarebbe già caduto ai piedi, implorando la spiegazione di quello strano suo contegno; ma in quel momento, egli soggiogato ancora dai sentimenti di poc’anzi, non si mosse e s’accontentò di fissarla a sua volta freddamente.

Dentro di lui era un’impassibilità lucida e quasi burlesca. Quella donna, ritta tragicamente in mezzo alla camera, quella donna sua, incontestabilmente sua, che lo sfidava, gli parve grottesca e ridicola. – Il solito dubbio si disegnò nel suo pensiero, come l’ipotesi più plausibile di quel bizzarro atteggiamento di Fulvia; ma senz’alcuna apparenza paurosa o minacciosa. S’ella anche sospettava la Verità, (come e perché egli non sapeva), un tal sospetto doveva essere in lei così fragile, (poiché non sostenuto da alcuna prova materiale), che sarebber bastate poche sue parole per distruggerlo in un colpo. L’ora di spiegarsi fra di loro era venuta? Tanto meglio. Paolo si sentiva pronto ad affrontare la situazione con tutte le forze preziose del suo spirito.

– Paolo… – cominciò Fulvia, incoraggita da quella sua freddezza – io vorrei parlarti…

L’Érmoli a queste parole divenne ancor più pallido di quel che già era; ma non tentò un sol movimento, nella sua dura impassibilità.

– Che cosa?.. Parla, – egli disse, poiché ella rimaneva interdetta a guardarlo.

– Ascoltami. Io sono tua moglie, se non ancora in faccia a Dio, in faccia agli uomini: sarò tua, te lo giuro… sarò tua – ripeté – ma ora… ora, non voglio… non posso…

L’Érmoli fece un atto di stupore.

– Non chiedermene il perché, – soggiunse Fulvia subitamente; – verrà giorno che lo saprai, fors’anche presto… ma ora, se mi ami davvero come tu dici, devi rispettare questo mio desiderio… devi rispettarlo… Bada che da questo momento dipende tutta la felicità del nostro avvenire!..

– Sì, sì, – interruppe con sarcasmo Paolo; – non è affatto necessario che tu insista così; perché, te lo accerto, non v’è pericolo alcuno ch’io t’usi anche la benché minima violenza morale. Io lo rispetterò. Solo vorrei conoscere prima d’uscir di qui perché ài tu accettato di sposarmi quando sapevi di dovermi preparare questa niente gustosa scena conjugale per la prima notte di matrimonio. E questo me lo dirai. Non è vero che me lo dirai?

Ella lo guardò, maravigliata di quel tono di voce aspro e sarcastico che non aveva mai udito dalla sua bocca: e le contrazioni delle labbra di lui, che volevan simulare un brutto sorriso, la fecero istintivamente fremere. Si fece forza, e rispose con energia, agitando alquanto la bella testa:

– Sì, sùbito. Perché t’amavo.

– E allora?.. – domandò l’Érmoli, sorridendo.

Poi soggiunse, ironicamente:

– Ah! è vero, questo non te lo devo chiedere. Lo saprò un giorno, fors’anche presto, ma ora non puoi, non vuoi… È vero!

Fece l’atto di uscire: ella quello di parlare, ma né l’uno si mosse, né l’altra disse motto. Rimasero alcun tempo silenziosi, non osando pur di guardarsi, seguendo ciascuno il corso dei propri pensieri. Paolo, sempre pallidissimo, ma senza un fremito, risaliva la torbida corrente del suo passato: Fulvia, agitata e convulsa, discendeva in vece quella misteriosa del suo avvenire, e soffocava a stento la voce del cuore che già le parlava dolcemente di quell’uomo forse scellerato.

Alfine Paolo alzò gli occhi verso di lei, la guardò con le pupille dilatate e fisse:

– Infine io avrei oggi il diritto di farti parlare. Il tuo contegno verso di me è stato sempre così strano e inesplicabile che anche prima d’ora, oh! molte volte avrei voluto chiedertene il motivo: ma i tuoi occhi eran così belli che l’inchiesta mi moriva sempre su le labbra sopraffatta dalle parole passionate. Che cos’ài? Che cosa pensi di me? Chi si frappone, come uno spettro, fra te e l’amor tuo? Io non so, non trovo… So che in sei mesi dacché sono il tuo fidanzato non ò avuto da te un sol bacio; che oggi, tuo marito, mi vedo respinto dalla camera nuziale, senza una ragione plausibile, per un motivo misterioso che mi manifesterai forse un giorno, se me lo manifesterai… Ora, dimmi, confessalo: non ò il diritto il domandarti che cosa celi mai nell’anima tua per me, se è odio, ribrezzo, timore, diffidenza o che cosa di peggio ancora; e di esigere anche una franca, un’aperta risposta?.. In tutto questo tempo ài tu potuto dubitare un solo istante del mio affetto? Non t’ò io dato tutte le prove, ond’era capace, per convincerti che fuor di te nulla mi sorrideva al mondo? Oh! Io sono molto mutato da che t’ò conosciuta!.. Ebbene per l’amor mio, che tu devi ormai giustamente apprezzare, parla, Fulvia, aprimi alfine la tua anima; qualunque cosa tu richiederai poi da me, ti giuro d’obedirti, come obedivo la mia povera mamma… Ma ora parla…

L’Érmoli si era commosso profondamente, parlando.

Spesso gli avveniva d’intenerirsi così alle sue proprie parole, fin’anche alle lacrime, a causa del subitaneo immedesimarsi de’ suoi sentimenti con la significazione esagerata delle sue parole.

– Ah! no, è impossibile!.. – balbettò Fulvia, come parlasse fra sé.

Paolo le si appressò, la prese per le spalle e con accento passionato:

– Perché? Perché, Fulvia?.. – le chiese.

– Perché è impossibile!..

– Impossibile, no. Tu parlerai… tu devi parlare. Io non posso rimanere sotto il peso di questo mistero… In nome di Dio, ti supplico di parlare.

Fulvia, a queste ultime parole, si tolse bruscamente a lui, indietreggiò due passi, lo guardò con una strana e forte espressione, come lo volesse dominare con gli occhi:

– Vuoi dunque ch’io parli? – disse.

– Sì.

– Posso io affidarmi alla tua lealtà, qualunque cosa ti domandi?

– Sì…

– Qualunque colpa ti ricordi?

– Che cosa vuoi dire?

– Rispondi: qualunque colpa io ti ricordi?

– Sì, sì, per l’onor mio; ma, in nome del cielo, parla alfine…

Fulvia si appoggiò al muro con le spalle.

– Diego… Diego… – cominciò ella, ma la piena della commozione le vietò tosto di seguitare; Paolo ridivenne a un tratto freddo come dianzi, la fissò sicuramente, e:

– Diego? Che cosa? – domandò con la voce dura.

Fulvia alzò gli occhi luccicanti, tentò ripetutamente di parlare, poi vedendo di non riuscire, s’abbandonò, spossata, sopra una sedia, il capo fra le mani tremanti, la gola strozzata da un singhiozzo.

L’Érmoli, imperturbabile, aspettò ch’ella si riavesse da quell’accasciamento improvviso, poi riprese con un sogghigno:

– È per essere fedele alla memoria sua che mi ti sei contrastata così?

– Ah! no, ascolta: non insultare. Ormai ti devo dir tutto: tu l’ài voluto… Ascoltami: non m’insultare. Io ò sospettato…

– Che cosa?

– … di te…

– Di me?!..

Fulvia si levò in piedi.

– Sì, di te, di te. Oh! Dimmi ora che non è vero, dimmi che tu non sei stato… che tu sei innocente… Dimmelo!..

– Ma io non ti capisco! – esclamò Paolo, guardandola calmo, tranquillo, sicuro.

Soggiunse poi, dopo una pausa, con voce severa, aggrottando le sopracciglia:

– Tu ài sospettato di me, per Diego?

– Sì, – mormorò Fulvia, timidamente.

– Ài supposto forse che io…?! – riprese Paolo con maggior forza.

Fulvia accennò a pena col capo, affermando.

– Ah, Fulvia!..

Fu un grido di minaccia, fiero e sdegnoso, che uscì dal petto del giovine, – un grido che parve quello d’un’anima sinceramente e profondamente offesa!

– Tutte, tutte uguali voi donne! Imbevute delle più assurde romanticherie, aperte ad ogni più oltraggioso sospetto, vili, ipocrite, maligne!.. Dimmi dunque: dimmi: come ài potuto sospettare di me? E perché ài sospettato così? Quali indizî ài avuti? Chi fu il tristo che t’istillò nel capo il dubbio odioso?.. Dillo dunque, dillo!.. E perché ài taciuto fino ad oggi? Perché m’ài accolto e lusingato, se nudrivi nel tuo cuore un così torbido concetto di me? Perché?.. Dillo, via; dillo!.. Taci, eh? Non ài da dire una parola in tua giustificazione?!.. Io lo capisco. Tu non ài avuto indizî; nessuno ti à ispirato quel sospetto, perché nessuno avrebbe osato anche di pensare una cosa simile! Sei stata tu sola che ài concepito il sospetto, che l’ài covato, e conservato gelosamente in te, come una tua preziosa creatura! “Io ero povero, non è vero? O’ ereditato da un parente ricco un’ingente fortuna, non è vero? Sono io che l’ò ucciso! È naturale! È logico! È ovvio che sia stato così!„