Kitabı oku: «Il bacio della contessa Savina», sayfa 4
Rifocillati per bene riprendemmo la via, e passammo l'intiera giornata, camminando per la strada maestra, con alquante diversioni per boschi e frane ove mi attirava o il bisogno di riposo, o il desiderio di osservare una cascata, o un punto di vista pittoresco. All'ora del tramonto giungemmo a Sondrio, ove avevo deciso di passare la notte. Entrai in un albergo ove una folla di gente ingombrava il pianterreno e il cortile, e in quella confusione non vidi più il cane. Pensai che avesse trovato il suo padrone, e ne provai vero rammarico; – tanto è facile a risvegliarsi l'affetto nelle anime solitarie, che sentono il bisogno di un compagno nella vita.
Il cameriere mi serviva da cena nell'angolo d'una stanza, quando vidi il cane nella sala vicina, inquieto ed ansante, che andava fiutando la terra percorrendo il cammino che io aveva percorso. Esso cercava di me, mi raggiunse poco dopo, e non potendo frenare la sua letizia mi saltò addosso leccandomi le mani, e mugolando con acuti guaiti che esprimevano il dolore d'avermi smarrito, e la gioia immensa d'avermi finalmente ritrovato. Confesso la mia debolezza: la sua perdita mi aveva fortemente attristato, il suo ritorno mi consolava come una felice ventura. Io sentiva di non essere più solo al mondo, poichè avevo guadagnato l'amicizia d'un cane.
Dopo d'aver cenato in compagnia, dormimmo nello stesso letto, essendosi egli coricato ai miei piedi, come se fosse una vecchia abitudine.
Risvegliandomi al mattino, osservai ch'egli non dormiva più, ma mi guardava immobile, per non disturbare il mio sonno. Quando vide che mi mossi venne a darmi un saluto affettuoso. Io mi vestii e suonai il campanello per chiedere il conto. Ma quando udì il cameriere che batteva alla porta, il cane si mise ad abbaiare come un disperato, volendosi anche dimostrare capace di difendermi.
Dopo una piccola refezione siamo usciti da Sondrio entrando in quella strada pittoresca fiancheggiata dall'Adda, che conduce a Tirano. Questa seconda giornata fu più felice della prima, a motivo della compagnia del mio cane. Egli andava e veniva allegramente per la via. Talvolta saliva sopra un sasso, ed osservava con attenzione gli oggetti sottoposti, poi ritornava indietro facendomi ogni sorta di dimostrazioni affettuose, e si vedeva chiaramente ch'egli era contento al pari di me d'aver trovato un amico.
Una volta adottato il mio compagno, sentii la necessità di mettergli un nome, e cercai lungamente. Sulle prime non mi sarei immaginato la difficoltà che s'incontra a trovare il nome d'un cane, quando si voglia evitare in pari tempo la volgarità e la pretesa. Per un cristiano il lunario ci aiuta, e poi il nome dell'uomo non indica mai nulla, nè si trova inconveniente che si chiami Candido un furbo, Amadio un ateo, Leone un timido, Adone uno sciancato, Fedele un ladro e Felice un ministro. L'uomo si classifica dalla sua condotta, dalla moralità, dall'intelligenza, da tutti gli atti della vita, il suo nome è un caso; ma per il cane non è così. Provate a chiamar Lesbino un molosso, o Turco il cagnolino d'una signora. In esitanza mi sedetti sulle rive dell'Adda, e chiesi al mio cane:
– Come devo chiamarti, caro amico?.. Egli mi guardava tranquillamente. – Fido?.. è troppo comune. Falco?.. non significa niente. – Azor?.. non mi piace. Egli stesso si mostrava insensibile a questi nomi. Vorrei un nome che ci ricordasse il nostro felice incontro sulle rive del torrente Bitto. Se ti chiamassi Bitto?.. Bitto… Bitto, gli dissi con voce carezzevole, vuoi che ti chiami il mio Bitto?..
Egli scodinzolava in segno di assentimento, io gli feci una carezza affettuosa, egli venne a lambirmi la mano, e così gli diedi, ed egli accettò cordialmente il nome di Bitto.
Quel giorno pranzammo lietamente a Tirano, e usciti dal paese, prendemmo un'oretta di riposo sull'erba all'ombra d'antiche piante sui confini d'un bosco.
Il villaggio di X** al quale io era diretto trovandosi fra Tirano e Bormio, mi mancavano poche miglia per arrivarvi, ed avevo deciso di giungervi sull'imbrunire per evitare la noia dei curiosi che mi avrebbero molestato coi loro sguardi indiscreti.
Ripresa la via, e sentendo avvicinarsi il luogo destinato al mio esilio, io provava quell'inquietudine che nasce dall'ignoto, e mi doleva d'essere al termine di un viaggio pittoresco. Colla sola compagnia del mio cane e dei miei pensieri non mi sarei stancato di percorrere il mondo. Ma ogni viaggio che incomincia deve in qualche maniera finire. Pur troppo è così, ed ogni viaggio ci rammenta la vita umana. Una volta incominciato il pellegrinaggio, ogni ora che passa ci avvicina alla meta…
Con tali pensieri malinconici vidi per la prima volta da lontano il campanile acuminato, le casupole e le capanne di X**. Entrai nel villaggio quando il sole scendeva dietro i monti tingendo in rosa le nuvolette spezzate.
Le mandre rientravano dai pascoli salutando la sera con lunghi muggiti. I passeri si raccoglievano sugli alberi cinguettando, e raccontandosi i loro pettegolezzi del giorno.
I camini fumavano, le famiglie si raccoglievano per la cena. Tirai fuori dal mio portafogli la lettera di raccomandazione di mio zio all'egregio signor Nicola Bruni, e domandai della sua dimora al primo venuto.
– È quel palazzino bianco, isolato, sulla collina a diritta con molte adiacenze e varie cataste di legna intorno.
– Vi ringrazio.
Presi la strada indicata sulla salita, e giunto all'uscio picchiai. Un ragazzotto mi aperse la porta.
– È in casa il signor Nicola Bruni?
– Che cosa dice?
– Se il signor Nicola Bruni è in casa?
– Signor no… non è in casa… se fosse in casa non sarebbe in cortile… ma è in cortile…
Una voce tonante interruppe il dialogo.
– Imbecille… perchè tieni la gente sulla porta?
– Ecco il signor Nicola che mi chiama, – disse il ragazzo, – è dunque entrato in cucina… se vuole parlargli, eccolo qui.
In quel momento vidi un uomo ben tarchiato che veniva verso di noi, con un cappello a larghe falde, una giubba di fustagno e calzoni simili che entravano negli stivali. Mi venne incontro con faccia aperta dicendomi:
– Di chi domanda?
– Del signor Nicola Bruni.
– Sono io… Venga avanti.
– Io sono Daniele Carletti, nipote di Monsignor Giusep…
Non mi lasciò finire, ma gettandomi le braccia al collo mi baciò sulle due gote, colla più cordiale espansione.
– Bravo per Dio!.. Caro signor Daniele… benissimo; venga avanti, e si accomodi… ma non sarà solo forse?
– No, signore, sono in compagnia del mio cane.
– Ma vengano avanti tutti due… ma dov'è il bagaglio?.. La vettura, il cavallo? – Martino, su via, presto, corri ad aprire il cancello del cortile, fa entrare la vettura che ha condotto il signore… animo, corri…
Non era possibile interromperlo, e Martino era già corso ad aprire, quando ho potuto dirgli ch'ero venuto a piedi, spiegandogli il motivo.
– Oh per Bacco!.. quale fatalità! Se mi avesse scritto, avrei mandato a prenderlo coi nostri cavalli. Io pure, veda, non posso soffrire le diligenze.
Lo assicurai che mi ero divertito moltissimo, e che quel viaggio era stato per me un sommo piacere.
– Benissimo… Benissimo… bravo da senno. – Andò poi a' piedi della scala e gridò a piena gola: – Giovanna… Agata… Marta… venite subito abbasso, ma presto.
Eravamo entrati in un salotto terreno. Bitto s'era accovacciato in un angolo, e ansava colla lingua pendente. Il signor Nicola mi fece sedere sul canapè, e incominciò a chiedermi notizie della salute dello zio, e degli effetti provati dopo la cura dei bagni. Quando entrò la signora Giovanna seguita dall'Agata, egli si alzò per le presentazioni, e mi disse:
– Mia moglie… mia figlia… – poi rivolto a loro, – il signor Daniele Carletti, nipote di monsignor Canonico, e futuro maestro del nostro villaggio.
Io feci le mie riverenze, e le signore i soliti complimenti; e sedemmo tutti in circolo a parlare di mille cose.
Il signor Nicola aperse la finestra che guardava sul cortile, e chiamò:
– Martino?
– Eccolo… – rispose il domestico avvicinandosi.
– Che cosa fai?
– Ho aperto il cancello.
– E non hai veduto che non ci sono vetture?
– Ho veduto.
– Ebbene, ora che fai?
– Aspetto la vettura…
– Come?.. Vuoi che le vetture che conducono i viaggiatori arrivino dopo di loro?.. Chiudi il cancello… chiama la Menica… accendi il fuoco… corri… imbecille!..
– Sì, signore!..
Il signor Nicola chiuse la finestra e mi disse:
– Caro signor Daniele, non dovete giudicare il paese dal campione che vedeste. Abbiamo una popolazione intelligente e laboriosa, il mio domestico è un asino, ma non ne ho trovati di migliori. I nostri montanari sono pronti e svegliati, ma preferiscono la vita avventurosa dell'emigrazione alle cure servili ed alle meschine risorse del villaggio. Tutti gli uomini validi se ne vanno a cercar fortuna, la coscrizione porta via la gioventù, e non ci restano che gl'imbecilli per farci servire. Non si trovano più buoni domestici!..
La signora Giovanna alzava gli occhi al cielo, confermando coi moti del capo e delle spalle le asserzioni di suo marito; la signora Agata rideva.
Agata era una ragazza bionda cogli occhi chiari, ma per me una bionda non era una donna, od era una donna incompleta ed incolore. Avevo sempre presente come unico modello di bellezza femminea la contessa Savina, co' suoi capelli neri, cogli occhi e i sopraccigli corvini. L'Agata non poteva piacermi, e per giunta era vestita come una bambola di Norimberga, senza grazia nè moda, e non poteva reggere al confronto delle signorine eleganti di Milano, alle quali erano avvezzi i miei occhi.
Essendosi fatta notte, la vecchia Menica venne a deporre sul tavolo un'antica lucerna d'ottone che mandava una luce rossastra, ed avendo fatto cenno alla padrona, questa la seguì accompagnata da sua figlia. Bitto uscì egli pure dalla stanza, attirato forse dall'odore della cucina, ed io rimasi solo col signor Nicola, che mi mise al corrente di quanto poteva interessarmi.
Il signor Nicola Bruni, antico amico di mio zio, che desso pure era oriundo di Valtellina, era diventato da tanti anni l'amministratore onorario del piccolo patrimonio del Canonico, consistente nella casetta appigionata al maestro, con poca terra annessa, e l'aggiunta d'un altro ettaro di terreno diviso in sei appezzamenti sparsi per la montagna. Pagate le imposte e gli ordinari ristauri della casa, la terra rendeva circa l'uno e mezzo per cento del suo valore. Per altro quell'ettaro di terra così frazionato si sarebbe venduto senza la casa, un quattordici o quindicimila lire sonanti, tanto si apprezza in quelle montagne il diritto di proprietà. La terra era data a mezzeria, e produceva castagne, patate, legna, fieno, fagioli, e un po' di vino. Potevo calcolare in media sopra una rendita di circa dugento lire l'anno. Lo stipendio al maestro essendo fissato a lire settecento, e non mancando gl'incerti, consistenti nei regali dei parenti degli scolari, e qualche gratificazione comunale, poteva contare sopra una rendita fissa di novecento lire annue, e l'abitazione gratuita.
– Da vivere onestamente… – conchiuse il signor Nicola.
Io pensava in quel punto ai milioni di casa Brisnago, ed alla mia intenzione di ritornare una volta o l'altra a Milano a rinnovare il tentativo del bacio. Intanto col mio ingegno doveva studiare il modo di pareggiare la differenza fra le mie rendite e quelle della contessa Savina!.. ma ero innamorato stracotto e la parola impossibile non si trova nel dizionario degli innamorati. E poi avevo sul telaio il mio Lucchino Visconti, e nessuno poteva indovinare ove mi avrebbe condotto una tragedia.
– La casa, – continuò il signor Nicola dopo una breve pausa, – la casa ha bisogno di qualche ristauro, ma l'annata è stata buona, ed io ho fatto dei risparmi che il vostro buon zio mi ha autorizzato di spendere per mettere in assetto conveniente la vostra dimora.
– Non basta, – io soggiunsi, – tengo anche un gruzzoletto d'oro che il povero vecchio mi ha consegnato al momento della partenza, per il viaggio, i primi bisogni e gli arredi di casa.
– Allora siete un signore addirittura, – disse il signor Nicola, – e con un po' di economia e di giudizio, in queste montagne si vive da papi. Tutto sta nel non avere delle idee superiori alle forze, contentarsi del proprio stato, non aspirare a quelle grandezze che non si possono raggiungere…
Voltai la testa, tirai fuori il fazzoletto, e mi soffiai il naso tanto da nascondere la mia confusione; perchè mi pareva proprio che il signor Nicola mi leggesse i pensieri sul viso. Per buona fortuna entrò la Menica, che si mise a distendere sulla tavola una bianca tovaglia di bucato, poi distribuì i tovagliuoli, i piatti, le posate, e apparecchiò in ordine ogni cosa. Il signor Nicola tirò fuori da un armadio parecchie bottiglie, dicendomi:
– Ecco il vino di Sassella, onore della nostra Valtellina; ed assaggerete anche degli altri vini dei nostri monti che non sono privi di merito.
Poco dopo entrarono le signore portando ciascheduna qualche cosa. Osservai che Bitto, il quale non aveva idee preventive riguardo alle donne, seguiva la signora Agata con qualche dimostrazione di simpatia, ed essendomi venuto vicino continuava ad osservare i movimenti di lei, poi mi guardava in un certo modo che pareva volesse dire:
– Sta attento, se hai fame, questa è una buona ragazza; e si leccava i baffi.
Finalmente la Menica venne a portare in mezzo alla tavola una famosa zuppa di polli, fumante, che spandeva un odore appetitoso.
Ci sedemmo tutti in circolo intorno la tavola: alla zuppa seguì un arrosto eccellente di beccaccie, del prosciutto, del formaggio, della frutta, e con quest'agape domestica venne lautamente celebrato il mio arrivo. Il signor Nicola mi versava continuamente da bere, l'Agata accarezzava Bitto e gli dava dei buoni bocconi, egli divorava ogni cosa, e continuava a guardarmi con gioconda espressione, quasi volesse dirmi:
– Bravo Daniele, hai trovato una casa ove si fanno le cose per bene.
Dopo cena il discorso si fece animato. Io raccontai gli episodi del mio viaggio, omettendo od aggiungendo quello che mi pareva opportuno, od interessante per gli ospiti. La mia ammirazione per le montagne produsse un effetto eccellente.
– Vedrete… vedrete tutto a suo tempo, – mi ripeteva gongolando il signor Nicola, – in genere di montagne abbiamo delle meraviglie; dalle più ridenti alle più orride, dal pingue pascolo agli arridi burroni, alle nude roccie, erte, diritte, scoscese, coperte d'eterne nevi! Vedrete le nostre mandre, le nostre vigne, i nostri boschi di castagni e d'abeti: e pareva ch'egli fosse felice d'aver trovato un ammiratore del suo paese.
Narrai anche il mio incontro con Bitto, e la gioia reciproca dei due poveri vagabondi che si fecero buona compagnia, consolandosi a vicenda della solitudine, ma dovetti tagliar corto al racconto, perchè mi parve di scorgere sul volto della ragazza dei segni non equivoci d'emozione, ed io non intendeva d'intorbidire la festa facendo versare delle lagrime. Mi sorprese però che una donna incolore potesse mostrarsi sensibile per così poco.
Non tardai parimente ad avvedermi che l'Agata era la delizia di tutti: sua madre la contemplava con tenerezza, suo padre le sceglieva i bocconcini più ghiotti, e glieli offriva con compiacenza, la Menica girando intorno la tavola l'ammiccava con un sorriso, Martino la serviva con diligenza e premura, Bitto non si distaccava più dal suo fianco, ed era cane di buon naso. Io solo non sapevo trovarle veruna attrattiva. I miei occhi non vedevano che una bruna fanciulla, resa eterea dalla distanza; il mio cuore aveva sete d'un bacio non restituito, del quale sentivo d'essere in credito. Quella sera la veglia fu prolungata da mille discorsi animati da copiose libazioni che mi diedero un alto concetto enologico della Valtellina. Io che a Milano m'immaginava queste montagne come le gelide regioni del polo nord e del mar glaciale, fui ben sorpreso la prima sera del mio arrivo di trovare la temperatura del Senegal, andando a letto tanto caldo che soffiavo come un mantice, e non potevo sopportare le coltri.
Il mattino seguente, che era una domenica, mi alzai per tempo, apersi la finestra, e respirai a pieni polmoni la brezza mattutina, contemplando lo stupendo panorama delle Alpi che mi stava davanti, e volando colla fantasia attraverso la strada percorsa da Tirano a Sondrio, per Morbegno, Colico, Como e Milano. Vedevo come in sogno lo zio canonico che andava a dir messa, il gatto di casa che miagolava fregandosi alle sottane di Veronica, mentre essa apparecchiava la colazione, entravo nella mia cameretta deserta, aprivo il balcone, e stavo aspettando che la contessa Savina comparisse alla finestra dirimpetto, per pagare il suo debito, restituendomi il bacio.
A farmi cadere dalle nuvole non ci voleva altro che il confuso pigolìo che saliva dal sottoposto cortile. Abbassai gli occhi e vidi l'Agata accoccolata che sminuzzava della polenta chiamando i polli. Alla sua voce il gallo, le galline, le chioccie e i pulcini accorrevano da tutte le parti saltellando, svolazzando e cantando, le saltavano d'intorno festosi, rubandosi i bocconi dalle mani. Essa parlava con loro, incoraggiando i timidi, sgridando gli sfrontati, correggendo gl'indiscreti; ed io la guardava dall'alto con sorpresa, senza farmi vedere. Poco dopo comparve la Menica colle sottane rilevate fino al ginocchio, le gambe nude, gli zoccoli di legno, e le maniche della camicia rimboccate fino al gomito, portando un mastello di lavature, dentro le quali gettò una manata di crusca, e poi aperse il porcile. Allora ne uscì un mostruoso maiale, che saltellando goffamente mandava grugniti nervosi, e immergendo il grugno in quella poltiglia lo tirava fuori tutto imbrattato e gocciolante, ne spandeva da ogni parte, e pareva che se ne ridesse, quell'imbecille…
Ahimè! come ero lontano da Milano, dal corso, da quelle strade pulite, da quella vita elegante!.. Sentivo una profonda tristezza, e in pari tempo un certo orgoglio della mia patria, e della nobile missione che andavo ad intraprendere, apportando la civiltà a quelle rozze popolazioni di montanari. Immaginarsi una ragazza che s'alzava mattiniera per dedicarsi a quelle occupazioni scurrili!.. I polli mi facevano ridere, il maiale mi faceva ribrezzo. Io non ne aveva mai veduto, o solamente qualche testa pulita, rasa, incoronata di mortella, nelle vetrine dei nostri salumai, e non mi sarei immaginato l'immondo animale che mi stava davanti, servito da due donne, come un signore.
Agata consigliava la Menica, entrava ed usciva; finalmente si mise a chiamare Martino. Alla sua voce, Bitto, che dormiva saporitamente ai piedi del letto, alzò la testa, e ascoltò attentamente.
– Martino… Martino… – essa ripeteva.
Bitto diede un guizzo, saltò a terra, si mise a gemere presso la porta, raspando colle zampe, guardandomi, ed abbaiando. Gli apersi, ed egli in due salti fu abbasso. Bisognava vedere le smorfie che quel vile adulatore faceva alla ragazza! L'attaccamento, l'affezione, la riconoscenza verso chi dà da mangiare sono le virtù delle bestie, e specialmente dei cani. L'uomo invece conserva la sua indipendenza, dimentica il beneficio, e mostra la dignità dell'ingratitudine.
V
Scendendo incontrai il signor Nicola che mi strinse la mano come ad un vecchio amico di casa. Dopo colazione mi condusse a visitare i miei possessi dispersi in tutti gli angoli del paese. Mi parvero siti selvaggi, e li avrei ceduti per un sorriso della mia lontana divinità, che avrebbe riso sicuramente se avesse veduto i miei feudi in dose omeopatica.
La casa si componeva di due piani ed era circondata da un appezzamento di terra mal coltivata, ove crescevano liberamente i cardi e le ortiche.
Il vecchio maestro mi venne incontro, come collega e vassallo ad un tempo, lamentando le miserie dei maestri e quelle dei coltivatori. Il signor Nicola per consolarmi mi parlava di riforme, di piantagioni, di concimi, e di raddoppiati prodotti mediante le cure necessarie. Introdotto nella mia futura dimora, mi parve scombussolata, rovinosa, sporca, mi metteva tristezza. Il signor Nicola la trovava comoda, facile a ripararsi con poca spesa; buone stanze ariose. Era cosa naturale: quasi tutti i vetri erano rotti, e l'aria campeggiava liberamente. La cucina appariva tutta adorna di casseruole… dipinte sul muro col carbone. Il salotto mostrava delle teste di guerrieri colla pipa in bocca, opere tutte alla maniera dei tempi preistorici della pietra, che rivelavano un artista primitivo. I pavimenti solcati, le pareti bucherate e sparse di chiodi, i soffitti facevano ventre da per tutto; i ragni s'erano impadroniti degli angoli, e le scope erano state bandite con sentenza inesorabile.
E mentre il signor Nicola parlava col mio onorevole antecessore, io girava per quelle stanze, pensando fra me stesso: – quale splendido appartamento sarebbe questo per la contessa Savina Brisnago, e quale giardino! e mi metteva le mani nei capelli.
In poche parole fummo d'accordo sulle condizioni dello sgombro, che era assai facile; se ne usciva il vecchio maestro e le spazzature, la casa poteva consegnarsi subito agli operai affinchè la rendessero abitabile pel nuovo maestro e il suo cane. Ma per tale sgombero mi chiesero quattro giorni, che gli vennero concessi. Allora credette opportuno di farmi conoscere il sistema scolastico e le sue abitudini domestiche. Gli scolari per turno gli tenevano in ordine la casa (come abbiamo veduto!), lavoravano l'orto e andavano ad attinger l'acqua alla fontana. Pel vitto s'era accomodato colla vicina famiglia dell'organista, uomo gioviale ed onesto. Forse l'organista avrebbe accondisceso a continuare le sue prestazioni, qualora ci fossimo intesi sulla relativa contribuzione.
– Va benissimo, parleremo di tutto questo con quiete, alle mie donne, – disse il signor Nicola.
Ma quando il maestro si mise a parlare dell'insegnamento, del metodo, della severità dei precetti, dei testi impiegati, il mio compagno incominciò a tirarmi per le falde del vestito, e vedendo che s'annoiava, feci i miei saluti a quell'uomo dabbene e ringraziandolo delle sue informazioni ci congedavamo, per andare alla messa parrocchiale.
Le campane suonavano a festa, e l'eco si ripeteva confusamente intorno la valle, riempiendo l'aria di onde sonore. I montanari scendevano dalle alture, accompagnati dalle loro donne, vestite a varii colori. Era una bella giornata d'autunno, e la popolazione raccolta sul sagrato della chiesa dava un aspetto allegro al villaggio. Tutti mi guardavano con curiosità, e salutavano rispettosamente il signor Nicola.
Agli ultimi tocchi comparve la signora Giovanna con l'Agata, ed al loro passaggio tutti si levavano il cappello, e si vedeva chiaramente dalla franca cordialità dei saluti che tutti volevano bene a quella famiglia.
Dopo messa andammo a far visita in Canonica, e venni presentato a don Vincenzo Liserio parroco del villaggio, al quale consegnai la lettera di mio zio. M'accolse cortesemente, come maestro e nipote d'un canonico, ma con una certa solennità, da uomo che misura le parole per non compromettere l'avvenire, guardandomi sott'occhio per istudiare la fisonomia.
Mi fece tutte quelle offerte generiche che sono dell'occasione, ma non incoraggiano a recare disturbi, perchè si capisce subito ciò che valgono.
Ritornati in casa Bruni, entrammo nel salotto, e dopo breve conversazione in famiglia, la Menica chiamò la signora Giovanna; e Martino si presentò sulla porta.
– Che cosa vuoi? – gli chiese Nicola.
– C'è qui Giacomo che aspetta i vostri ordini… fino da questa mattina.
– Giacomo, chi?
– Giacomo, fratello di Perina, moglie di Pietro cognato di Battista… quello che ha un figlio soldato… e un altro che ha emigrato in Germania il giorno che si andava a…
– Non lo conosco.
– Non si ricorda, che ieri sera mi ha ordinato di farlo venire con degli uccelli?
– Ah! è l'uccellatore?
– Sicuro.
Il signor Nicola alzò i pugni stretti, ed aveva un volto da far paura. L'Agata, che entrava in quel momento, dando un colpo d'occhio a suo padre, gli fece mutare l'espressione della collera in uno sberleffo. Uscì precipitoso dando uno spintone violento alla porta. Martino era svignato. Il signor Nicola aveva un carattere impetuoso, e sul primo momento avrebbe schiacciato un uomo come una mosca; ma per buona fortuna il suo furore non durava che due minuti. Martino, che conosceva bene il padrone, quando vedeva negli occhi di lui i primi lampi che annunziavano l'uragano, spariva sul momento, e restava assente per cinque minuti. Il padrone si gettava contro i muri, le porte, le sedie e quanto gli stava davanti, e slanciava dei calci, che quegli oggetti inanimati non sentivano… e il domestico non li sentiva nemmeno… – E poi dicevano che era un imbecille! Allora l'Agata mi spiegò che il signor Nicola, nella sera antecedente, avendo ordinati degli uccelli per il pranzo, l'uccellatore li aveva portati per tempo; ma Martino lo tenne varie ore nella stalla ad attendere gli ordini del padrone che era uscito con me. Intanto le signore aspettavano con impazienza l'arrivo del futuro arrosto, il quale aspettava per essere apparecchiato chi non doveva arrivare che per mangiarlo.
Si dovette ritardare il pranzo d'un'ora, richiamare il fuggitivo che almeno venisse a spennare il corpo del suo delitto, e mentre il signor Nicola e sua moglie erano occupati in altre faccende, l'Agata venne a farmi compagnia nel salotto. Mi domandò con interesse molte cose di Milano, ed io le descrissi le feste, i corsi, gli spettacoli della città, l'eleganza delle signore, il lusso delle carrozze…
Essa mostrò di conoscere non solo i principali monumenti, ma bensì la vita intellettuale ed artistica, e mi sorprendeva assai che una fanciulla che si occupava de' suoi polli, parlasse di cose elevate con non volgare giudizio. Mi disse che i suoi genitori l'avevano condotta a Milano, quando era uscita dal collegio di Como, ove era stata in educazione. Io arrossivo pensando d'essere stato a Como senza vederlo. Poi per farmi passare il tempo aspettando l'ora del pranzo mi condusse a visitare l'orto e il giardino. Nell'orto la mia ignoranza fece la sua prima comparsa. Io non distingueva le piante delle patate dai pomidoro, le carote dal prezzemolo, confondeva il rosmarino colla lavanda, le zucche coi poponi. Essa rideva di cuore, e mi diceva:
– Eppure a Milano si trovano ogni sorta d'erbaggi; ne vidi di bellissimi sul mercato.
– È vero, ma io non li conosco che quando li vedo cotti…
Allora mi svelò l'estetica degli erbaggi facendomi osservare minutamente l'eleganza e la varietà dei loro portamenti, l'increspatura, i frastagli, le tinte differenti delle foglie, la bizzarria delle forme, la singolarità dei profumi; mi faceva odorare il timo, la salvia, il ramerino, il finocchio, il cerfoglio, il targone, la rucola, la maggiorana, la menta, e mi diceva: – Vedete la grande varietà di aromi indigeni coi quali possiamo condire le vivande senza il soccorso delle droghe che andiamo a prendere alle Indie. Vi prego di considerare la grazia d'un fiore di borragine, ma guardate se può darsi un turchino più limpido, un bianco più puro, un nero più spiccato: e il frutto del peperone, e la leggerezza dello sparagio quando si adorna delle sue sementi rosse come coralli. Guardate le foglie glabre e frastagliate dei carcioffi come sono ornamentali!.. e il frutto? non ha esso servito mille volte alle arti ed alle industrie? Le zucche e i meloni non sono forse piante e frutti magnifici, e i fiori di tutti i legumi non sono forse i più vezzosi?.. Guardate i ceci, i fagiuoli, i piselli! Credetemi, signore, chi non vede la bellezza della natura in un orto, non la vede intieramente nemmeno sul lago di Como… Nella natura come nelle arti non basta apprezzare l'insieme, ma bisogna saper conoscere anche i pregi d'ogni singola parte. Chi non ama che il frastuono d'una sinfonia, e non gusta un motivo melodico, non può dire d'intendere la musica; chi non ammira che la sublimità delle montagne e non ha mai contemplato il fiorellino che cresce sui loro crepacci, non conosce la natura. Le scene grandiose le vedono tutti, la musica rumorosa colpisce tutte le orecchie, ma le anime delicate soltanto sanno scoprire il bello nelle cose minute, e godere le delizie della natura e dell'arte davanti gli oggetti impercettibili agli sguardi volgari.
Rimasi maravigliato de' suoi discorsi!.. Passammo in giardino, e quivi mi rinnovò la lezione, mostrandomi tutto quello che io ignorava delle bellezze delle piante. Quivi, credendo opportuno di svelare finalmente qualche cognizione, le dissi:
– Sono sicuro che conoscete il linguaggio dei fiori.
– Lo conosco, – mi rispose, – ma lo trovo puerile.
– E perchè?
– Perchè i fiori parlano un linguaggio che si intende da chi ama la natura e vive nella sua intimità, senza bisogno di chiedere le loro espressioni ad emblemi convenzionali. Un fiore qualunque, il più modesto fiore del prato, parla al nostro cuore se ci rammenta un istante memorabile della nostra esistenza, un paese, un amico, una parola, se la sua vista risveglia la memoria assopita d'una persona lontana, o d'un giorno felice.
Tali discorsi portavano naturalmente il mio pensiero al mazzetto gettato alla contessa Savina, e pensavo: chi sa, se vedendo una rosa, delle violette e degli eliotropi, essa rivolgerà la mente al povero esule che non vede al mondo che lei!.. e camminavo mesto e silenzioso per quel giardino, seguito dall'Agata; avevamo l'aspetto di due ombre che vanno vagando pei Campi Elisi. Quella conversazione e que' fiori che ci stavano d'intorno m'aveano rapito in un'estasi poetica, quando Martino venne ad annunziarci che il pranzo era servito. A questo mondo tutto finisce in prosa!
Durante il desinare venne in campo il discorso del mio prossimo sgombero e del sistema di vita che mi sarebbe convenuto. Il signor Nicola accennò al consiglio che mi venne dato dal vecchio maestro, di accomodarmi coll'organista pel vitto, e rivolto all'Agata le disse:
– Che te ne pare?
– Il vecchio maestro, – essa rispose, – si trovava in condizioni diverse; la defunta sua moglie era sorella di Tobia l'organista, i legami di famiglia facilitavano le loro relazioni; ma non so se ciò che conveniva a due vecchi cognati di Valtellina possa offrire gli stessi vantaggi ad un giovane milanese avvezzo ad altro sistema. Poi il signor Daniele non conosce Tobia, non l'ha ancora veduto… è un buon diavolo, ma originale… ed ha la lingua un po' troppo lunga. I due cognati andavano d'accordo in molti punti, per esempio nel giudicare l'ordine e la nettezza come cose di lusso; ne sia prova l'abitudine del maestro di farsi servire dagli scolari, che gli mettevano la casa a soqquadro e ne facevano un letamaio.