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Kitabı oku: «Il bacio della contessa Savina», sayfa 5

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– Allora, – soggiungeva il signor Nicola, – bisogna pensare ad altro. Ci permettete, non è vero, Daniele, di trattarvi in amicizia e di occuparci dei vostri affari?..

– È il massimo favore che possiate farmi…

– Orbene, che ne pensi, Agata?

– Mi pare, – ella soggiunse, – che si potrebbe trovare una buona donna di servizio pel maestro, che gli tenesse in ordine la casa, e che sapesse fargli da pranzo e il bucato. In fine dei conti la spesa sarà eguale, se non minore, la salute se ne troverà meglio, e in caso che fosse indisposto non sarà solo.

Mi pareva strano che una persona che si occupava di polli e dell'orto potesse avere tanto buon senso. Io approvai intieramente il suo piano e tutti i consigli che vi aggiunsero i genitori, tanto solleciti del mio bene.

– E chi potrà trovare facilmente una donna che mi convenga? – io chiesi.

– La troverò io, – soggiunse l'Agata, e mi mostrò tanta bontà premurosa, e mi spiegò con tanta grazia che cosa dovessi fare, e come contenermi per i miei piccoli interessi di casa, che davvero, se non fosse stata troppo bionda, l'avrei forse trovata anche bella.

Essendo giorno festivo, non fu possibile mandare a Tirano a prendere i miei bagagli, ma quell'ottima famiglia non mi lasciò mancar nulla che mi fosse necessario, mettendo a mia disposizione la più bella biancheria del signor Nicola. Una sola cosa mi faceva difetto: un libro per la sera. Essendo avvezzo da lunghi anni a leggere a letto, e privo da tanti giorni d'un tal piacere, ne sentivo vivamente il bisogno; onde mi feci animo, e dissi all'Agata:

– Siete tanto buona, che vorrei domandarvi un nuovo favore da aggiungere agli altri.

– Tutto quello che abbiamo è a vostra disposizione.

– Come siete gentile!.. vorrei pregarvi di favorirmi un libro da leggere.

– Ben volentieri… Volete storia, romanzi, viaggi, drammi, poesie?..

– Ve ne lascio la scelta… ben sicuro che mi darete il libro che mi conviene di più.

– Benissimo… farò il possibile per scegliervi una lettura utile e piacevole.

– E di vostro gusto.

– E di mio gusto.

Alla sera dopo cena mi consegnò il libro; io la ringraziai caldamente, e salii tutto contento nella mia stanza. Appena entrato mi avvicinai al lume per guardare il frontispizio del volume, e ne rimasi sorpreso e pensieroso. Era sincerità od ironia?.. era un atto d'ingenuo interesse od una lezione arguta?.. Profondo mistero!.. Il fatto sta che quel libro era l'Ortolano dirozzato di Filippo Re.

VI

All'indomani Martino andò a Tirano a prendere il mio bagaglio, dimenticandosi nell'ufficio della diligenza l'ombrello, che ho potuto ricuperare qualche giorno dopo col mezzo d'un amico del signor Nicola. Sono incalcolabili le noie e gl'imbarazzi causatici dagli imbecilli fra le vicende della vita. Siccome non possono essere occupati che in cose da nulla, e le fanno male, così ci obbligano a rifarle, annoiandoci in frivole cure per le quali li avevamo pagati. Ma in tutte le condizioni sociali siamo pur troppo condannati ad attraversare il pelago dell'umana imbecillità, e questa navigazione desolante ci ruba delle ore preziose, e quindi ci accorcia la vita. Maledetti gli imbecilli!..

Io ero capitato al villaggio appunto per distruggere l'ignoranza e l'imbecillità, e mi ripromettevo grandi vantaggi da questa nobile e santa missione, ed aspettavo l'apertura della scuola per gettarmi a corpo perduto nelle cure della pubblica istruzione.

Intanto la prosa dell'Ortolano dirozzato mi produceva ogni sera il suo effetto infallibile, addormentandomi d'un sonno denso, tenace, profondo, e talvolta facendomi vedere in sogno una testa bionda di donna col sogghigno dell'ironia, fra un cavolo navone e un cavolo rapa.

Non mi ero degnato mostrarmi offeso della scelta del libro, e tacqui fino a che un giorno l'Agata mi domandò se io facessi progressi nell'orticoltura.

Allora gli dissi un po' risentito che non mi sentivo davvero chiamato a quel genere di studi.

– Avete torto, – mi rispose.

– Che volete!.. se preferisco Monti, Foscolo, Alfieri a Filippo Re, la traduzione d'Omero, i Sepolcri e le tragedie ai poponi ed alle zucche, non è mia colpa… i gusti son gusti.

– Non si tratta di preferenze, – essa insisteva – ma di assoluta necessità. Ogni persona di buon gusto, dopo pranzo, preferisce un mazzo di fiori ad un pezzo di pane; ma se i fiori sono vaghi, profumati e deliziosi, non sono necessari come il pane. Per coltivare dei fiori bisogna vivere, e per vivere bisogna mangiare, dunque il necessario deve passare prima del dilettevole, i campi prima dei giardini, l'orto prima della poesia. La poesia è cosa sublime, è un ornamento della vita, ma per vivere bisogna lavorare sul positivo e sul sodo. La vita è cosa seria, ha doveri e necessità dalle quali non si sfugge senza grave danno. Sapete di quell'astronomo che camminando assorto nella contemplazione degli astri è caduto in un pozzo. Sta bene guardare in alto, ma non bisogna cadere nei pozzi, e ce ne sono tanti sulla terra.

Ci sono poi certi poeti che cercano le ispirazioni in aria, e rapiti dai loro voli pindarici non vedono il bello che li circonda, non sanno ammirare i pregi della natura che passa davanti i loro occhi, disdegnano come volgarità la semplice poesia della vita. Io invece trovo la poesia anche nel cortile e nell'orto, ove osservo tanti doni della natura che crescono a beneficio dell'uomo, e mi rammentano i piaceri della mensa, che, raccogliendo la famiglia e ristorando le forze, procura anche i piaceri morali che provengono dallo scambio dei pensieri e degli affetti.

Tali discorsi mi conducevano a serie riflessioni; io le chiedeva scusa del mio sussiego, mi desolava delle mie idee storte, vane e confuse, e mi battevo la fronte. Allora essa rideva, e lodando i miei gusti letterari, incoraggiava i miei studi; e mi consigliava a ripartire il mio tempo fra la prosa e la poesia, fra le cose positive e le amenità.

– Se dovete vivere in campagna, – essa aggiungeva, – avete bisogno d'un orto; se sapete coltivarlo ne caverete degli utili, e poi imparerete anche a coltivare i fiori.

Le promettevo di occuparmene seriamente… ma quando aprivo il mio Ortolano dirozzato, e leggevo quelle elucubrazioni sulla cultura dei cavoli, il libro mi cadeva dalle mani, e contro mia volontà mi addormentavo.

Il vecchio maestro era partito, il mio casino era in ristauro. Il signor Nicola lo aveva consegnato ai muratori, falegnami, fabbri-ferrai, ed ogni giorno andavamo insieme a visitarne i lavori. Io non vedeva che martelli che battevano, seghe ed accette che dividevano e sgrossavano legnami, pialle che spianavano tavole, lime, raspe, tanaglie che rodevano e sconficcavano, cazzuole che muravano, pennelli che imbiancavano, tutto ad onore della mia persona. Ma il signor Nicola vedeva meglio di me che una screpolatura richiedeva un arpese, che un muro faceva corpo, che le assi del solaio non erano ben commesse, e raccomandava ai muratori l'economia della calce, ai manovali di sgomberare i pavimenti dai rovinacci, di spazzare i trucioli che volavano giù dalle scale. Esaminava l'intonaco, e le varie opere del legnaiuolo, e faceva le sue osservazioni. Il giorno dopo si tornava a vedere se i suoi ordini erano stati eseguiti, e se tutto procedeva secondo le convenzioni stipulate cogli operai.

Poi facevamo lunghe escursioni visitando i boschi, i pascoli e le cascine; il signor Nicola mi parlava di migliorie da introdursi, e dei redditi aumentabili, ed io lo ascoltava guardando le belle vedute che si stendevano davanti i nostri sguardi. Bitto ci seguiva dappertutto, e andava avanti ad esplorare il terreno.

Una sera passeggiando con tutta la famiglia Bruni alle falde d'una collina, io osservava attentamente il mio cane che correva dietro agli uccelli svolazzanti sulle siepi, abbaiando furiosamente perchè non si lasciavano prendere.

– L'ingenuità di Bitto vi sorprende… – mi disse Agata, – ma molti uomini fanno come lui: vorrebbero volare senza ali e si lamentano di non poter raggiungere coloro che s'innalzano perchè hanno forze superiori.

La guardai in faccia sospettoso, perchè mi parve alludesse al mio caso, ma vidi che la sua fisonomia non indicava alcuna malizia, e pensando d'altronde ch'essa non poteva conoscere le mie aspirazioni mi tacqui, e meditai lungamente sulla rassomiglianza dei miei gusti con quelli del mio cane.

Quando il mio casinetto mi parve in ordine, pregai le signore Bruni di volerlo onorare d'una visita, anche per favorirmi i loro consigli sulle ultime disposizioni. Accettarono con piacere la mia proposta, e v'andammo insieme; ma mentre mi aspettava dei complimenti sul mio buon gusto, dovetti invece subire le giuste critiche dell'Agata. Infatti fui forzato di riconoscere che mi ero dimenticato le cose più indispensabili agli usi domestici.

– Ecco i poeti!.. – mi disse sorridendo la ragazza, – più fortunati di Bitto hanno le ali per volare al disopra delle cose terrene, ma però, meno positivi degli uccelli, si dimenticano gli agi del nido, che hanno pur tanta parte nella poesia della vita.

L'Agata era troppo buona per aver l'intenzione di pungermi sul vivo, tuttavia ogni qual volta mi metteva al confronto cogli altri animali, io figurava sempre al di sotto della bestia… Non potevo sopportare in pace ogni attacco, nè dissimulare la mia stizza, ed essa, invece di mostrarsi dolente del mio dispetto, pareva si godesse. Alla fine, convinto dalle sue dimostrazioni che gli uomini hanno meno attitudine delle donne per mettere in ordine una casa, la pregai di volermi assistere come una buona sorella, incaricandosi di completare le mie disposizioni e di compiere l'opera che sembrava troppo superiore alla mia capacità. Avendo accettato cordialmente l'incarico col consenso dei genitori, le consegnai il denaro che restava disponibile facendole ampia procura di spenderlo secondo i suoi gusti e il suo giudizio. Due giorni dopo essa partì per Sondrio, accompagnata dal padre, per fare le spese necessarie, ed al suo ritorno venne spedito un carro a prendere gli oggetti acquistati che giunsero in buon ordine, certo a motivo che Martino non faceva parte della spedizione.

Allora l'Agata accordò la Rosa al mio servizio, e volle stipulata una convenzione fra noi, cioè ch'io non entrassi più nella mia futura dimora fino a che l'opera non fosse compiuta. Così, mentre l'Agata e la Rosa, accompagnate dal signor Nicola, dalla signora Giovanna e da Martino, andavano a lavorare a mio vantaggio, e si affaticavano a mettere a posto ogni cosa, io non aveva altro incarico che di passeggiare dalla parte opposta del paese col sigaro in bocca, come un vero sibarita.

In pochi giorni tutto fu messo in assetto, e finalmente ottenni il permesso di visitare la casa. La trovai trasformata, e ne rimasi sbalordito. Essa respirava una modesta agiatezza, piena d'attrattive. Si vedeva dappertutto la mano della donna, si sentiva la sua influenza e il suo intento. Ogni stanza aveva le sue tende, i mobili opportuni, puliti, e collocati a dovere. Al pianterreno un allegro salottino, con un bel tappeto davanti al canapè, un tavolo rotondo nel mezzo; uno studiolo colla stufa, e gli scaffali pei libri, un tinello colla sua credenza a invetriate ove si vedevano le stoviglie, le tazze, i cristalli che brillavano per nitidezza; ed una cucina ben fornita di pentole e pentolini, casseruole e girarrosto. Sugli scaffali si vedevano tutti gli oggetti destinati agli usi domestici, ch'io aveva dimenticati, dal macinino del caffè allo scaldaletto, dalle caffettiere alle lucerne, dai piatti alle scodelle. Davanti al focolare due alti seggioloni a bracciuoli invitavano a sedersi al fuoco. La catena e gli alari lucenti stavano al loro posto. Dopo la cucina si entrava in una piccola dispensa collocata a settentrione, fresca e ventilata per conservare le carni, poi c'era un magazzino ad uso di legnaia e cantina, provveduto dell'occorrente.

Al primo piano due belle stanze da letto, una per me, un'altra a disposizione dello zio quando volesse arrestarsi andando ai bagni di Bormio. Una stanzuccia per la Rosa, un'altra ad uso di guardaroba, un'altra ancora disponibile e vuota.

Tutte le stanze avevano l'occorrente, ma quello che mi colpì di più furono i quadretti appesi ai muri, e i vasi di fiori sui tavoli, e vari altri piccoli oggetti da collocare i sigari e i fiammiferi. Nel gabinetto da studio figuravano le più belle vedute di Milano, che mi arrestai a contemplare con uno stringimento di cuore. Il tinello aveva due bei panorami del lago di Como, e le pareti del salotto portavano i ritratti di alcuni fra i più grandi benefattori del genere umano.

Sulla porta della cucina stava affisso il lunario, e un calendario dell'ortolano, nel quale si leggevano i lavori e le semine da farsi ogni mese.

Quella buona ragazza così sensata e positiva, visti i miei piccoli mezzi, mi aveva dichiarato non occuparsi che del solo necessario; essa aveva dunque trovato necessario coprire la nudità delle pareti, riposare i miei sguardi sulle care memorie della patria, ricondurre il mio spirito di quando in quando per le vie della mia cara Milano, rammentando l'aspetto ridente della natura coi più bei siti contemplati sul lago, e richiamandomi alla mente le grandi virtù dagli uomini che onorano l'umanità.

Di quella povera casa, così deserta, tacita, e nuda, essa aveva fatto una dimora piacevole, comoda, popolata di ricordi, eloquente d'insegnamenti, fornita di graziose opere d'arte, un rifugio tranquillo e sereno, che invitava alla pace ed allo studio.

Commosso e riconoscente, non sapevo in qual modo dimostrarle la mia gratitudine. Essa aveva apparecchiato il nido al povero esule, s'era studiata di rendergli meno squallida la vita solitaria. Come una buona sorella aveva prodigate le cure più affettuose nell'allestimento d'ogni stanza, usando gli accorgimenti più delicati, le previsioni più sottili. Io andava pensando a qualche regaluccio che le provasse la mia piena soddisfazione, ma mi trovavo nell'impossibilità di poter acquistare un oggetto qualunque al villaggio.

Mi si presentò il pensiero di offrirle la medaglia di mia madre.

Era quanto io possedessi di più prezioso, e vi tenevo tanto che dapprima respinsi tale idea come una tentazione. Non sapevo risolvermi a privarmi di quella santa memoria; respingevo il progetto, e lo riprendevo esitante e sconvolto da mille diversi pensieri, quando la Rosa venne a dirmi che l'Agata mi attendeva ansiosa di conoscere l'effetto prodotto dalle sue disposizioni.

Dovetti risolvermi a partire colla medaglia o colle mani vuote; o quella o niente!.. In tale dolorosa alternativa, piuttosto di passare per un ingrato ho preferito lacerarmi le fibre del cuore, presi la medaglia deciso e rassegnato al dolore di privarmi dell'ultimo residuo della famiglia, dell'unico segno che mi rammentasse mia madre, e corsi a casa Bruni.

L'Agata era nel suo giardinetto aspettando il mio ritorno, quando io le comparvi dinanzi tutto sconvolto dall'interna lotta delle mie sensazioni. Vedendomi ne rimase confusa, temendo di non avere incontrato il mio gradimento. La rassicurai piuttosto coi gesti che colle parole, perchè mi mancava la voce. Poi le presentai la medaglia dicendole:

– Questo è l'oggetto più prezioso che posseggo, è l'unico ricordo che mi rimane della mia povera madre; vogliate accettarlo come un pegno della mia viva riconoscenza.

Fece un moto di sorpresa e rifiutò: una grossa lagrima scese sulle sue guancie, indi mi rispose:

– La vostra soddisfazione mi ricompensa largamente del poco che ho fatto. L'allestimento della casetta è stato per me un vero divertimento, il dono che vorreste farmi mi prova che sono riuscita al di là delle mie speranze, io ne sono contentissima e non desidero altro.

– Non rifiutate, vi supplico, di accettare questo piccolo segno della mia gratitudine.

– Ma nemmeno per sogno, caro Daniele, io sarei ben crudele se vi privassi d'una tale santa memoria!

– Eppure, Agata, sento dentro di me una ispirazione che mi spinge ad insistere, sento come la voce di mia madre che mi ordina di mettere questa medaglia nelle vostre mani, come un sacro deposito… rifiuterete la preghiera di una povera madre morta?

Allora, vedendomi umiliato e dolente della sua esitanza, stese la mano dicendomi:

– Come semplice deposito l'accetto. – Prese la medaglia, la guardò attentamente, le diede un bacio, se la pose in seno, ed aggiunse: – Essa mi darà il diritto di trattarvi come fratello… fin che saremo vicini.

– Mia madre vi ascolta a vi benedirà, – risposi.

Le baciai la mano con affetto fraterno, mi ritirai nella mia stanza, perchè sentivo bisogno di trovarmi solo, per piangere in libertà.

VII

Il giorno seguente presi possesso della mia nuova dimora, dopo di aver dimostrato come seppi meglio tutta la profonda riconoscenza per la cordiale ospitalità ricevuta in quell'eccellente famiglia. La partenza da casa Bruni mi riuscì dolorosa come se vi avessi vissuto degli anni. Vi sono a questo mondo luoghi ai quali non ci avvezziamo nemmeno dopo una lunga dimora; ve ne sono altri nei quali si sta bene fin dal primo giorno, e che non si vorrebbero lasciare. Generalmente in questi si è destinati a passare rapidamente, e negli altri a consumare la vita! ecco il nostro destino!

Pregai quei buoni signori di continuarmi la loro amicizia.

– Nulla è cambiato, – mi rispose il signor Nicola, – avete due case invece d'una sola, ecco tutto!..

Volevo baciargli la mano, ed egli si è rifiutato, dandomi due grossi baci sul volto. Mi accompagnarono fino alla porta della loro casa, mi strinsero le mani affettuosamente. Martino portava il mio sacco da notte, le signore mi dicevano:

– A rivederci… a rivederci.

– A rivederci… questa sera, – io risposi, – e partii salutando colla mano, seguito da Bitto, che, colla coda bassa, dimostrava non essere più contento del suo padrone.

La Rosa m'aspettava sulla porta della casa, mi venne incontro per alcuni passi, prese il sacco dalle mani di Martino, e m'introdusse nel mio nuovo possesso.

Salii il primo piano seguito dalla fantesca, ed affacciandomi alla finestra che guardava sul cortile vidi un bel gallo a penne variopinte, il quale scuoteva la cresta orgogliosa, sorvegliando quattro belle galline che razzolavano in terra.

– Ove avete trovato quei bei polli? – chiesi alla Rosa.

– È un dono della signora Agata, che volle piantarvi il pollaio co' suoi allievi. Rammentandosi gli elogi fatti a colazione sulla freschezza delle uova, desiderò che continuaste a trovarne d'eguali sulla vostra tavola.

– Eccellente creatura!.. cuor d'oro!..

– E testa fina!.. – soggiunse la Rosa.

– Sicuro!.. sicuro!.. ma… ma… e ripeteva dentro di me: ma peccato che sia bionda!

Io era sempre perdutamente innamorato della contessa Savina, alla quale non avevo mai parlato, e che aveva rifiutato di restituirmi il bacio. Ma… ma!.. e andavo girellando per le camere come un uomo che cerca qualche cosa. Cercavo infatti lo scioglimento d'un problema: – date due donne giovani, ed amabili entrambe, una lontana e inaccessibile per la distanza, la nobiltà, la ricchezza, le condizioni sociali, e l'altra vicina, accessibile per relazioni di famiglia e opportunità d'ogni genere, un giovane s'innamora della prima e disdegna la seconda. Qual è la forza che lo spinge di preferenza verso l'impossibile?.. ecco l'incognita… Ho passato il primo giorno nel mio nuovo domicilio occupato esclusivamente di questo problema, che mi pareva un'equazione algebrica fra le più complicate e difficili. Chiuso nel mio studio, coi gomiti appoggiati allo scrittoio, e le mani nei capelli, io meditava le condizioni della vita e delle umane passioni, inesplicabili. Udivo al di fuori della gente che domandava alla Rosa:

– È in casa il signor maestro? – ed essa rispondeva:

– Sì, è in casa, ma non posso disturbarlo. Sapete che i maestri hanno delle occupazioni… degli studi seri… ritornate più tardi.

Io lasciava che andassero; infatti che cosa al mondo poteva interessarmi di più dello scioglimento del mio problema? non era esso il mistero della mia vita?.. La contessa Savina era per me la più bella, la più seducente, l'unica donna!.. L'Agata era una sorella. Il suo volto? io non lo vedeva! Il viso della contessa Savina mi stava impresso nel cuore con indelebili tracce. Per vederla viva e presente io non aveva che a chiudere gli occhi… Essa era lì, alla sua finestra, coi suoi bruni capelli rilevati sulla fronte, con quello sguardo penetrante… con quella scintilla che accende e consuma!.. Ma e gli ostacoli?.. Nel dizionario d'amore, ostacolo significa eccitamento, stimolo, sprone, prestigio. Tuttavia la ragione, il buon senso?.. Che ragione! l'amore è una pazzia… lo sento nei lucidi intervalli, che non mi servono a nulla. Dopo qualche breve sosta, la demenza riprende il suo dominio, e mi fa vedere le cose a rovescio. L'impossibile mi sembra facile… e sento che in certi momenti posso diventare un eroe… o un imbecille!

Il fatto sta, che quando il cuore è saturo d'un amore non ci sta altro, gli occhi non vedono più, il cervello è tutto occupato dai fumi del cuore; che possano allignare insieme due amori, è credere all'impossibile, all'assurdo. Chi s'illudesse di amare due donne in una volta, può essere sicuro che non ne ama nessuna. Io amo la contessa Savina, l'amo perchè l'amo, perchè è stata il primo raggio di luce della mia vita, il primo palpito del mio cuore, l'amo…

– Signor maestro, il pranzo è servito… – mi disse la Rosa picchiando leggermente all'uscio… – mi dispiace incomodarlo, ma è l'ora precisa che mi ha fissata.

– Vengo subito, – risposi, ed aggiunsi fra me: – maledetta prosa della vita!.. Massaie indiavolate, siete tutte uguali! dalla Veronica alla Menica, dalla Menica alla Rosa, dalla Rosa alle sue pari! ogni giorno vi fanno discendere il pensiero sulla tavola, vi abbassano i vostri sogni al livello del loro focolare!..

– Il falegname ha portato l'ultima polizza, – mi disse la Rosa quando sedetti a mensa. – Anche il calzolaio voleva consegnarle questa nota, ma non ho voluto disturbarla. Tobia l'organista m'ha detto che i maestri sono come i santi apostoli… bisogna lasciarli in pace, che si preparino ad insegnare agli altri… Va bene di sale?

– Benissimo, benissimo… ma dov'è Bitto?..

– Bitto?.. Ah! se sapesse come ho avuto paura di perderlo. Si figuri che non si poteva trovarlo. Ma dopo averlo cercato in tutto il villaggio finalmente l'ho trovato.

– Ove l'avete trovato?

– In casa Bruni, si sa; mentre il maestro studiava, egli si è ricordato che era l'ora del pranzo in casa Bruni, e vedendo che qui il fuoco era ancora spento, è andato a chiedere da pranzo alla signora Agata. Essa mi ha detto: – lasciatelo qui fin che ha mangiato, povera bestia, mi vuol bene, si ricorda di me, gliene sono grata, e non posso rimandarlo a digiuno. Bisognava vedere come la guardava, che feste, che scodinzoli; pareva che intendesse le sue parole, e gli dicesse: – vi ringrazio.

Poco dopo ecco Bitto che ritorna a casa contento, abbaiando e saltandomi addosso come se volesse rendermi conto de' fatti suoi.

Da quel giorno prese il suo partito, andando regolarmente a pranzo in casa Bruni, colla scrupolosa esattezza che metteva mio zio canonico per andare a vespero. Io era destinato ad avere sempre sotto gli occhi l'esempio dell'ordine, dagli uomini o dalle bestie, senza approfittarne. Dopo pranzo Bitto se ne tornava a casa, a fare la sua guardia alla porta, e guai se qualcuno s'avvicinava. Egli dapprima abbaiava francamente, poi incominciava a latrare, e finiva con un certo ringhio che metteva tutti in riguardo. La mia voce lo calmava. Egli lasciava passare i visitatori che venivano invitati ad entrare, ma non permetteva che nessuno entrasse senza essere invitato.

Quando andavo al passeggio mi accompagnava, e se ero diretto a casa Bruni lo indovinava a mezza strada, giungeva prima di me, e mi aspettava sulla porta; alla notte dormiva sempre ai piedi del mio letto: alla mattina divideva la mia colazione, ma ripartiva regolarmente pel pranzo, e pareva che mi volesse dire: – la mia fedele amicizia non ti sarà troppo a carico, povero maestro; tu pensi che il cuore non può contenere che un amore solo, io ti mostrerò che l'amicizia è meno esigente, e può vivere benissimo in compagnia.

Appena presa residenza stabile in paese, il signor Nicola mi condusse a fare le visite di dovere alle autorità municipali, che dimoravano nel capoluogo del comune, a poche miglia dalla nostra frazione. Tutti mi accolsero cortesemente, e mi venne consegnato l'atto di nomina a maestro, già deliberato dal Consiglio Comunale fino dai primi giorni del mio arrivo.

Durando tuttora le vacanze mi misi a lavorare assiduamente intorno alla mia tragedia. Nel rileggere le pagine scritte a Milano, trovai necessarie alcune correzioni e di rifare introducendo nuovi incidenti e nuove scene. Fuggivo l'imitazione servile, volevo riuscire poeta originale, i personaggi d'Alfieri mi parevano convenzionali, io sentiva il bisogno di studiare l'uomo dal vero, ma temevo di non trovare in un piccolo villaggio di Valtellina i modelli necessari alle mie scene del medio evo. Tuttavia, pensando che il cuore umano è sempre lo stesso malgrado la diversità dei tempi, mi decisi di studiare le umane passioni nei soggetti che mi stavano intorno tenendo conto delle proporzioni. La distanza era immensa, formidabile! ma l'anatomico che studia l'uomo sul cadavere mi pareva in condizioni peggiori di me. Difatti due uomini vivi, anche distanti di qualche secolo, devono rassomigliarsi fra loro assai più d'un uomo vivo ad un cadavere. I tempi modificano le passioni, ma la morte le annulla addirittura. Il morto non è più che un misero avanzo inanimato dell'uomo. Dall'uomo vivo al cadavere la distanza è assai maggiore di quella che passa fra Giacobbe che inganna suo padre colle pelli d'agnello, e sor Isacchetto, mercante d'abiti fatti, che inganna il suo avventore.

Tali considerazioni mi spinsero a far conoscenza coi maggiorenti del villaggio, che visitai e ricevetti in casa, coll'interesse d'un professore di storia naturale che si circonda d'ogni sorta d'animali necessari a' suoi studii. Io studiava attentamente i miei interlocutori, scrutavo la loro indole, le loro inclinazioni, analizzavo minutamente i loro istinti, la depravazione, i vizii delle loro nature, e li classificavo esattamente, secondo un sistema adottato per mia istruzione. Ogni individuo che manifestasse delle tendenze virtuose o perverse corrispondenti ad un personaggio della mia tragedia, riceveva il suo nome relativo e veniva sottoposto ad attento esame.

Assorto nell'intensità della mia osservazione, è naturale che io rispondessi talvolta sbadatamente alle loro frivole cicalate, e ciò mi valse la riputazione d'uomo superficiale, leggiero e distratto; ma invece, mentre mi credevano colla testa in aria, io era entrato nel loro cervello e nel loro cuore. Con questo sistema penetrante pervenni a trovare nel villaggio tutti i modelli viventi dei miei personaggi.

Il signor Marco Canziani mi servì di modello pel Lucchino Visconti, e offrì tratti magnifici al mio marito tiranno. La signora Pasquetta, moglie del dottore, divenne un'Isabella Fieschi impareggiabile. Essa amava segretamente Ugolino Gonzaga, parte rappresentata al naturale dal giovane farmacista signor Gaspare Zapolini. I caratteri degli amanti, le loro ansietà, l'ardore dei loro sguardi, le insidie tese al marito, le inquietudini della donna colpevole, le aspirazioni impazienti del seduttore, si presentavano alla mia osservazione nelle varie circostanze che mi mettevano in presenza de' miei modelli. La loro ingenuità me li abbandonava in piena balìa; ben lontani dal sospettare il particolare interesse della mia inchiesta, essi non avevano altra mira che fuggire i pericoli che li minacciavano direttamente, e così, schivando il marito, cadevano nelle braccia del tragico. Il povero don Vincenzo Liserio, studiato a rovescio, divenne Giovanni Visconti arcivescovo di Milano. Il signor Nicola Bruni, che si trova spesso in opposizione col medico, specialmente nelle gravi disquisizioni del tarocco ove cercava di sbancarlo, conveniva benissimo coll'indole del congiurato Francesco Pusterla. Ma il più bello di tutti era il mio vicino Tobia, piccolo possidente, ma grande filosofo ed organista. Egli passava in paese per una lingua malefica, un maldicente velenoso, ma per me era un perfetto modello di ghibellino, sempre in lotta col parroco, colla camarilla, coi seguaci, pronto a battere in breccia la canonica, il campanile, la sacrestia e tutti i ridotti del clero. Egli s'incarnava a meraviglia nel mio Uguccione della Fagiuola, e mi si mostrava, senza sospetto, un tipo originale e degno di figurare fra i migliori della tragedia. Aveva il portamento bellicoso, quando ritto della persona teneva le braccia a semicerchio, e alzando la testa in segno di provocazione, faceva far la ruota al randello, mosso dalle sue mani scarne e nodose. Capelli radi, sopraccigli incrociati, orecchie larghe e staccate in alto presentavano i segni caratteristici del suo volto. Aveva il naso lungo e diritto come un dardo, le labbra tumide, le guancie scarne, i zigomi spiccati, la barba rasa. La sua parola era sentenziosa, i suoi movimenti rapidi, decisivi, taglienti; e l'occhio iniettato di sangue gli rendeva lo sguardo feroce.

È certo che ci voleva un grande sforzo d'immaginazione a trasformare il cappello a cilindro diritto, lungo, a tese strette, rosso, spelato, unto, contuso di Tobia coll'elmetto a piume di Uguccione; la giubba corta e i larghi calzoni di fustagno dell'organista colla corazza, i cosciali e le gambiere del guerriero, ma le vesti non sono che la scorza dell'uomo, ed io trovava sotto quelle spoglie miserande un magnifico Uguccione della Fagiuola, con un'anima piena d'ardori velenosi, e d'odio profondo pel partito avverso.

Così io m'ero formato un medio evo artificiale e travestito nel quale vivevo, studiando e meditando le umane passioni e traendone ispirazioni al mio lavoro. Era una specie di carnevalone di Milano trasportato in Valtellina per mio uso e consumo, che mi rendeva il clima meno uggioso, mentre se ne avvantaggiavano i miei studi sull'uomo, e i versi della mia tragedia.