Kitabı oku: «Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 4», sayfa 7
L'arbitrario e crudele animo di Costanzo, che non sempre aspettava d'esser provocato dalla colpa e dalla resistenza, fu giustamente inasprito dai tumulti della sua Capitale e dalla rea condotta d'una fazione, che opponevasi all'autorità e alla religione del proprio Sovrano. Furono inflitte con particolar rigore le pene ordinarie di morte, d'esilio, e di confiscazione; ed i Greci venerano tuttavia la santa memoria di due Cherici, uno Lettore e uno Suddiacono, che furono accusati dell'uccisione d'Ermogene, e decapitati alle porte di Costantinopoli. Per un editto di Costanzo contro i Cattolici, che non si è stimato degno d'aver luogo nel Codice Teodosiano, quelli che ricusavan di comunicare coi Vescovi Arriani, ed in ispecie con Macedonio, erano spogliati delle immunità Ecclesiastiche e dei diritti dei Cristiani; venivan costretti a lasciare il possesso delle Chiese; ed era loro strettamente vietato di tenere assemblee dentro le mura della città. Nelle Province della Tracia e dell'Asia Minore, fu commessa allo zelo di Macedonio l'esecuzione di questa ingiusta legge; fu ordinato alla potestà civile e militare d'ubbidire a' suoi ordini; e le crudeltà esercitate da questo Semiarriano tiranno in difesa dell'Homoiousion eccederono la commissione di Costanzo, e ne infamarono il regno. S'amministravano i Sacramenti della Chiesa a vittime ripugnanti, che negavano la legittimità dell'elezione, ed abborrivano i principj di Macedonio. Si conferivano i riti del Battesimo a donne e fanciulli, che a tal effetto si erano strappati dalle braccia dei loro amici e parenti; per mezzo di uno istrumento di legno tenevasi aperta la bocca dei comunicanti, mentre s'introduceva loro per forza il pane consacrato nella gola; e con gusci d'ovo infuocati si bruciava il petto di tenere vergini, o crudelmente si comprimeva fra ruvide e pesanti tavole284. I Novaziani di Costantinopoli e dei vicini paesi per il loro stabile attacco alla bandiera Homoousiana meritarono d'esser confusi co' Cattolici stessi. Macedonio seppe che un grosso distretto di Paflagonia285 era quasi tutto abitato da que' Settari. Egli risolse di convertirli o di estirparli; e siccome in tale occasione diffidava dell'efficacia d'una missione Ecclesiastica, ordinò che un corpo di quattromila legionari marciasse contro i ribelli, e riducesse il territorio di Mantinio sotto la sua spirituale giurisdizione. I Novaziani abitanti, animati dalla disperazione e dal furor religioso, arditamente affrontarono gl'invasori del lor paese; e quantunque vi restassero uccisi molti de' Paflagoni, pure le legioni Romane furono vinte da una irregolare moltitudine, armata solo di rusticali strumenti e di legni, ed a riserva di pochi che si salvarono mediante un'ignominiosa fuga, quattromila soldati restarono morti sul campo di battaglia. Il successor di Costanzo ha esposto in una breve ma viva maniera alcune delle teologiche calamità, che afflisser l'Impero, e specialmente l'Oriente, nel regno d'un Principe, che era schiavo delle sue passioni e di quelle de' suoi Eunuchi. «Molti furon posti in prigione, perseguitati, e mandati in esilio. Si trucidarono intere truppe di quelli, che si chiamavano Eretici, particolarmente a Cizico, ed a Samosata. Nella Paflagonia, nella Bitinia, nella Galazia, ed in molte altre Province, intere città e villaggi furono devastati, ed interamente distrutti286.»
Mentre le fiamme dell'Arriana controversia consumavan le viscere dell'Impero, le Province Affricane venivano infestate dai loro particolari nemici, da quei Selvaggi fanatici, che sotto il nome di Circoncellioni formavan la forza e lo scandalo del partito Donatista287. La rigorosa esecuzione delle leggi di Costantino aveva eccitato uno spirito di malcontento e di resistenza; i vigorosi sforzi, che fece il suo figlio Costante per restaurare l'unità della Chiesa, esacerbarono i sentimenti d'odio reciproco, che a principio avea cagionati la separazione; ed i mezzi della forza e della corruzione, impiegati dai due Commissari Imperiali Paolo e Macario, somministrarono agli Scismatici uno specioso contrasto fra le massime degli Apostoli, e la condotta dei pretesi lor successori288. Gli abitanti dei villaggi di Numidia e di Mauritania erano una razza di gente feroce, che s'era imperfettamente ridotta sotto l'autorità delle leggi Romane, ed imperfettamente convertita alla fede Cristiana; ma che veniva trasportata da un cieco e furioso entusiasmo nella causa dei Donatisti, loro maestri. Con isdegno soffrivano essi l'esilio dei loro Vescovi, la demolizione delle lor Chiese, e l'interrompimento delle segrete loro assemblee. La violenza degli Uffiziali di giustizia, che ordinariamente eran sostenuti da una guardia militare, fu alle volte rispinta con uguale violenza; ed il sangue di alcuni popolari Ecclesiastici, che si era sparso nella mischia, infiammò i rozzi loro seguaci d'un'ardente brama di vendicare la morte di quei Santi Martiri. I ministri della persecuzione con la loro barbarie e temerità s'attiraron qualche volta la morte, e la colpa d'un accidentale tumulto precipitò i rei nella disperazione e rivolta. Tratti dalle native loro campagne, i Donatisti villani si unirono in formidabili turme all'estremità del deserto Getulio; e facilmente cangiarono l'abitudine del lavoro in una vita oziosa e rapace, che veniva consacrata dal nome di religione, e debolmente condannata dai Dottori della lor Setta. I condottieri de' Circoncellioni presero il titolo di Capitani de' Santi; la principale lor arme, essendo inoltre comunemente provvisti di spade e di lance, era una grossa e pesante clava, ch'essi chiamavano l'Isdraelita; ed il ben noto rimbombo delle parole «sia lode a Dio» che usavano come lor segnale di guerra, spargeva la costernazione per le disarmate Province dell'Affrica. Da principio colorivano le loro depredazioni col pretesto della necessità; ma ben presto passarono la misura della sussistenza; soddisfacevano senza ritegno la loro intemperanza ed avarizia, bruciavano i villaggi che avevano saccheggiati, e dominavano come licenziosi tiranni nell'aperta campagna. Si sospesero i lavori dell'agricoltura e l'amministrazione della giustizia; e siccome i Circoncellioni pretendevano di restituire la primitiva uguaglianza degli uomini, e riformare gli abusi della civil società, così aprivano un asilo sicuro agli schiavi, ed a' debitori che correvano a truppe sotto il santo loro stendardo. Allorchè non trovavano resistenza, ordinariamente si contentavano del saccheggio, ma la minima opposizione serviva per provocarli ad atti di violenza e di strage; ed alcuni Preti Cattolici, che avevano imprudentemente segnalato il loro zelo, furon tormentati da' fanatici con la più raffinata e cruda barbarie. Lo spirito dei Circoncellioni però non si esercitava sempre contro nemici senza difesa. Attaccarono essi, ed alle volte anche disfecero, le truppe della Provincia; e nella sanguinosa azione di Bagai assaltarono in campo aperto, ma con disgraziato valore, una guardia avanzata della cavalleria Imperiale. I Donatisti, ch'erano presi armati, ricevevano, e facilmente meritavano il trattamento che avrebbe potuto farsi alle bestie selvagge del deserto. I prigionieri morivano, senza mandare un lamento, o per mezzo della spada, o della scure, o del fuoco; e si moltiplicarono in una rapida proporzione le rappresaglie, che aggravavan gli orrori della ribellione, ed escludevano la speranza d'un vicendevol perdono. Al principio del presente secolo, si è rinnovato l'esempio dei Circoncellioni nella persecuzione, nell'ardire, ne' delitti, e nell'entusiasmo dei Camisardi, e se i fanatici di Linguadoca sorpassaron quelli di Numidia per le loro azioni militari, gli Affricani mantenner la fiera loro indipendenza con maggiore risolutezza e perseveranza289.
Tali disordini sono i naturali effetti d'una tirannia religiosa; ma la rabbia dei Donatisti era infiammata da frenesia d'una specie molto straordinaria, la quale, se veramente prevalse fra loro in un grado così stravagante, non se ne può trovar sicuramente l'uguale in alcun paese, o in alcun secolo. Molti di questi fanatici avevano in orrore la vita, desiderando il martirio; e poco importava loro per quali mezzi o per quali mani perissero, qualora la lor condotta santificata fosse dall'intenzione di sacrificarsi per la gloria della vera fede e per la speranza dell'eterna felicità290. Alle volte andavano a disturbar villanamente le feste, ed a profanare i tempj del paganesimo, con animo di eccitare i più zelanti fra gl'Idolatri a vendicare gli insulti de' loro Dei. Alle volte, entravan per forza nei Tribunali di giustizia, o costringevano lo spaventato Giudice ad ordinare l'immediata loro esecuzione. Spesso fermavano i viandanti nelle pubbliche strade, e gli obbligavano a dar loro il martirio con la promessa di un premio, se v'acconsentivano, e con la minaccia dell'immediata morte, se ricusavano di largire ad essi un favore tanto singolare. Quando mancava qualunque altro ripiego, essi annunziavano il giorno, in cui alla presenza dei loro amici e fratelli si sarebber gettati a basso da qualche altissima rupe; e si mostravano varj precipizj che eran divenuti famosi pel numero dei religiosi suicidj. Nelle azioni di tali disperati entusiasti, che s'ammiravano da una parte come martiri di Dio, e s'abborrivano dall'altra come vittime di Satana, un imparziale Filosofo può ravvisar l'influenza e l'ultimo abuso di quello spirito inflessibile, che in origine proveniva dal carattere e dai principj della nazione Giudaica.
A. D. 312-361
La semplice istoria delle interne divisioni, che disturbaron la pace e disonorarono il trionfo della Chiesa, servirà a confermare l'osservazione d'un Istorico Pagano, ed a giustificare il lamento d'un venerabile Vescovo. L'esperienza d'Ammiano l'aveva convinto, che l'inimicizia de' Cristiani fra loro sorpassava il furor delle fiere contro degli uomini291; e Gregorio Nazianzeno si duole nel più patetico stile, che il regno dei Cieli si era dalla discordia convertito nell'immagine del caos, d'una tempesta notturna e dell'istesso inferno292. I fieri e parziali Scrittori di quei tempi, attribuendo a se stessi tutta la virtù, ed imputando tutta la colpa agli avversari, hanno rappresentato la guerra degli Angeli coi Demonj. La nostra più tranquilla ragione rigetterà tali puri e perfetti mostri di vizio o di santità, ed imputerà un'uguale o almeno non molto diversa dose di bene o di male agli ostili Settari, che prendevano i nomi di Ortodossi e di Eretici. Essi erano stati educati nella medesima religione e nella medesima civil società; le speranze ed i timori sì nella vita presente che nella futura, si bilanciavano da loro nella medesima proporzione; sì dall'una che dall'altra parte poteva lo sbaglio esser innocente, la fede sincera, la pratica meritoria o corrotta; le loro passioni venivano eccitate da oggetti simili, e poteano alternativamente abusare del favor della Corte o del popolo. Le metafisiche opinioni negli Atanasiani, e degli Arriani non potevano influire sul lor morale carattere, e tutti erano ugualmente agitati dallo spirito intollerante, che avevano tratto fuori dalle pure e semplici massime dell'Evangelio.
Un moderno Scrittore, che con giusto ardire ha posto in fronte della sua storia gli onorevoli titoli di politica e filosofica293, accusa la timida prudenza di Montesquieu per aver omesso di enumerare fra le cause della decadenza dell'Impero una legge di Costantino, da cui fu assolutamente soppresso l'esercizio del Culto Pagano, e si lasciò priva di Sacerdoti, di tempj, e d'ogni pubblica religione una considerabil parte di sudditi. Lo zelo dell'Istorico filosofo pei diritti della umanità l'ha indotto ad ammetter l'ambigua testimonianza di quegli Ecclesiastici, che hanno troppo leggermente attribuito il merito di una generale persecuzione all'Eroe lor favorito294. Invece di allegar questa legge immaginaria, che avrebbe brillato in fronte a' Codici Imperiali, noi possiamo con sicurezza rimetterci all'epistola originale, che Costantino indirizzò ai seguaci dell'antica religione in un tempo, nel quale non dissimulava più la sua conversione, nè più temeva i rivali dei trono. Esso invita ed esorta ne' termini più pressanti i sudditi del Romano Impero ad imitar l'esempio del loro Principe; ma dichiara, che quelli, che tuttavia ricusano d'aprir gli occhi alla celeste luce, posson liberamente godere i lor tempj e gl'immaginari lor Dei. Vien dunque formalmente contraddetta l'asserzione, che le ceremonie del Paganesimo fossero soppresse dall'Imperatore medesimo, il quale saviamente assegna come principio della sua moderazione l'invincibil forza dell'abitudine, del pregiudizio e della superstizione295. Ma senza violare la santità della sua promessa, senza eccitare i timori de' Pagani, l'artificioso Monarca con lenti e cauti passi avanzavasi a distrugger l'irregolare e cadente edifizio del politeismo. Gli atti parziali di severità, che secondo le occasioni esercitava, quantunque segretamente provenissero da uno zelo Cristiano, eran coloriti dai più bei pretesti di giustizia e di pubblico bene; e mentre Costantino tendeva a rovinare i fondamenti dell'antica religione, pareva che ne riformasse gli abusi. Ad esempio dei suoi più saggi predecessori condannò sotto le più rigorose pene le occulte ed empie arti della divinazione, che risveglia le vane speranze ed alle volte i rei tentativi di quelli, che son malcontenti della presente lor condizione. Fu imposto un ignominioso silenzio agli oracoli, ch'erano stati pubblicamente convinti di frode e falsità; furono aboliti gli effeminati Sacerdoti del Nilo; e Costantino eseguì l'uffizio di Censore Romano, allorchè diede ordine che si demolissero i diversi tempj della Fenicia, nei quali si praticava ogni sorta di prostituzione pubblicamente in onore di Venere.296. L'Imperial città di Costantinopoli fu in certo modo innalzata a spese de' ricchi tempj della Grecia e dell'Asia, e adornata delle loro spoglie; si confiscarono i beni sacri; si trasportaron con rozza famigliarità le statue degli Dei e degli Eroi in mezzo ad un Popolo, che le risguardava come oggetti non di adorazione, ma di curiosità; si restituì alla circolazione l'argento e l'oro; ed i Magistrati, i Vescovi, e gli Eunuchi profittarono della fortunata occasione di soddisfare nel tempo stesso lo zelo, l'avarizia e lo sdegno. Ma tali depredazioni si ristrinsero ad una piccola parte del Mondo Romano; e le Province da lungo tempo erano assuefatte a soffrire la medesima sacrilega rapacità dalla tirannia di Principi e di Proconsoli, contro i quali non potea nascer sospetto veruno di tendere a sovvertire la religione stabilita297.
I figli di Costantino calcaron le vestigia del loro padre con più zelo e con minor discrezione. Si moltiplicarono appoco appoco i pretesti dell'oppressione e della rapina298; fu accordata ogni sorta di condiscendenza all'illegittima condotta dei Cristiani; qualunque dubbio fu interpretato in disfavore del Paganesimo; e la demolizione de' tempj fu celebrata come uno dei più prosperi avvenimenti del regno di Costante e di Costanzo299. È scritto il nome di quest'ultimo in fronte ad una breve legge, che avrebbe potuto render superflua qualunque posteriore proibizione. «Vogliamo che in tutti i luoghi ed in tutte le città immediatamente si chiudano i tempj, o siano diligentemente guardati, affinchè nessuno possa far male. Vogliamo ancora, che tutti i nostri sudditi si astengano da' Sacrifizj. Se alcuno fosse reo di tal atto, provi la spada della vendetta; e dopo la morte i suoi beni siano confiscati a vantaggio del Pubblico. Estendiamo le stesse pene a' Governatori delle Province, se trascureranno di punire i delinquenti»300. Ma vi è la più forte ragione di credere, che questo formidabil editto o fosse scritto senza esser pubblicato, o fosse pubblicato senza essere eseguito. L'evidenza dei fatti ed i monumenti, che tuttavia sussistono di bronzo e di marmo, continuano a provare il pubblico esercizio del Culto Pagano in tutto il regno de' figli di Costantino. Tanto nell'Oriente quanto nell'Occidente, sì nelle città che nella campagna si rispettava, o almeno si risparmiava un gran numero di tempj; e la devota moltitudine tuttavia godeva il lusso dei sacrifizj, delle feste e delle processioni per la permissione o per la connivenza del Governo. Circa quattro anni dopo la pretesa data di quel sanguinoso editto, Costanzo visitò i tempj di Roma; e viene commendata da un oratore Pagano la decenza del suo contegno, come un esempio degno dell'imitazione dei successivi Principi. Quell'Imperatore (dice Simmaco) «tollerò che restassero intatti i privilegi delle Vestali; diede le dignità Sacerdotali a' nobili di Roma; concesse la solita prestazione per le spese dei pubblici riti e sacrifizj; e quantunque avesse abbracciato una religione diversa, non tentò mai di spogliar l'Impero del sacro culto dell'antichità»301. Il Senato pretendeva sempre di consacrare con solenni decreti la divina memoria dei suoi Sovrani, e Costantino medesimo fu dopo la sua morte associato a quegli Dei, che esso avea rinunziati e insultati in vita. Il titolo, le insegne, e le prerogative di Pontefice Massimo, che s'erano istituite da Numa ed assunte da Augusto, s'accettarono senza esitare da sette Imperatori Cristiani, che venivano investiti di un'autorità più assoluta sulla religione da essi abbandonata, che su quella che professavano302.
Le divisioni fra i Cristiani sospesero la rovina del Paganesimo303; e la guerra sacra, contro gl'Infedeli con minor vigore fu proseguita da Principi e da Vescovi, che erano più immediatamente sbigottiti dal male e dal pericolo della ribellione domestica. Si sarebbe potuta giustificare l'estirpazione dell'idolatria304 coi principj già stabiliti d'intolleranza; ma le contrarie Sette, che a vicenda regnavano nella Corte Imperiale, temevano di alienare da loro, e forse d'esacerbare gli animi di una forte, sebbene decadente fazione. Militava allora in favore del Cristianesimo ogni motivo di autorità e di moda, d'interesse e di ragione; ma dovettero passare due o tre generazioni, prima che fosse universalmente sentita la sua vittoriosa influenza. La religione, che per sì lungo tempo e recentemente avea dominato nell'Impero Romano, era sempre venerata da molti, meno attaccati invero alle opinioni speculative che all'antico uso. Erano indifferentemente concessi gli onori dello Stato e dell'esercito a tutti i sudditi di Costantino e di Costanzo; ed una parte considerabile di cognizioni, di ricchezze e di valore trovavasi tuttora impegnata in servizio del politeismo. Nasceva da cause molto diverse la superstizione del Senatore e del Villano, del Poeta e del Filosofo; ma con ugual divozione si univano tutti nei tempj degli Dei. Era insensibilmente provocato il loro zelo dall'insultante trionfo d'una Setta proscritta; e si ravvivavan le loro speranze dalla ben fondata fiducia, che l'erede presuntivo dell'Impero, giovane e valoroso Eroe, che avea liberato la Gallia dalle armi dei Barbari, avesse abbracciato segretamente la religione dei suoi maggiori.
CAPITOLO XXII
Giuliano è dichiarato Imperatore dalle legioni della Gallia. Sua marcia e successo. Morte di Costanzo. Amministrazione civile di Giuliano.
Mentre i Romani languivano sotto l'ignominiosa tirannia degli Eunuchi e dei Vescovi, si ripetevano con trasporto le lodi di Giuliano in ogni parte dell'Impero, fuorchè nel palazzo di Costanzo. I Barbari della Germania avevan provato, e sempre temevano le armi del giovane Cesare. I suoi soldati erano i compagni della sua vittoria. I Provinciali pieni di gratitudine godevano le beneficenze del suo regno. Ma i favoriti che si erano opposti alla sua elevazione, guardavano di mal occhio le sue virtù, ed a ragione consideravan l'amico del popolo come un nemico della Corte. Fintanto che fu dubbiosa la fama di Giuliano, i buffoni del palazzo, periti nel linguaggio della satira, sperimentarono l'efficacia di quelle arti, ch'essi avevano tante volte praticate con felice successo. Facilmente notarono che la sua semplicità non era esente da affettazione; applicarono all'abito e alla persona del filosofo guerriero i ridicoli nomi d'irsuto selvaggio e di scimia vestita di porpora, e le sue modeste relazioni venivan criticate come vane ed elaborate finzioni d'un Greco loquace, e d'uno speculativo soldato, che aveva studiato l'arte della guerra nei giardini dell'Accademia305. La voce però della maliziosa follìa finalmente fu fatta tacere dal suono della vittoria; non si potè più dipingere il conquistatore dei Franchi e degli Alemanni come un oggetto di disprezzo; ed il Monarca medesimo era bassamente ambizioso di defraudare il suo luogotenente dell'onorevol premio di sue fatiche. Nelle lettere coronate di lauro, che, secondo l'antico costume, furono mandate alle Province, si omise il nome di Giuliano. «Costanzo avea fatte tutte le disposizioni della guerra in persona, egli avea segnalato il suo valore nelle linee; la sua condotta militare assicurato avea la vittoria, ed il Re dei Barbari gli era stato condotto prigioniero nel campo di battaglia»: dal quale in quel tempo era distante più di quaranta giornate di cammino306. Ma una favola sì stravagante non poteva ingannare la pubblica credulità, e neppur soddisfare l'orgoglio dell'Imperatore medesimo. Conoscendo segretamente che l'applauso ed il favor dei Romani accompagnava la nascente fortuna di Giuliano, il suo spirito malcontento era pronto a ricevere il sottile veleno di quegli artificiosi adulatori, che colorivano i lor malvagi disegni con le più belle apparenze di verità e di candore307. Invece di abbassare i meriti di Giuliano, essi ne confessavano, ed eziandio n'esageravano la fama popolare, l'eminente ingegno e gl'importanti servigi. Ma oscuramente accennavano, che le virtù di Cesare potevano ad un tratto convertirsi nei più pericolosi delitti, se l'incostante moltitudine preferito avesse le proprie inclinazioni al dovere, o se il Generale d'un vittorioso esercito fosse tentato di anteporre alla sua fedeltà le speranze della vendetta, o di una indipendente grandezza. I personali timori di Costanzo erano interpretati dal suo Consiglio come una lodevole ansietà per la pubblica salute; mentre in privato, e forse anche dentro a se stesso egli mascherava col men odioso nome di timore i sentimenti d'odio e d'invidia, che aveva segretamente conceputi per le inimitabili virtù di Giuliano.
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L'apparente tranquillità della Gallia, e l'imminente pericolo delle Province Orientali somministrarono uno specioso pretesto pei disegni che artificiosamente si concertarono dai ministri dell'Imperatore. Risolvettero essi di disarmar Cesare; di richiamare quelle fedeli truppe che guardavano la sua persona e dignità, e d'impiegare in una guerra lontana contro il Re di Persia i valorosi veterani che sulle rive del Reno avevan vinto le più fiere nazioni della Germania. Mentre Giuliano consumava le laboriose sue ore nei quartieri d'inverno a Parigi, amministrando la potenza che nelle sue mani riducevasi all'esercizio della virtù, fu sorpreso dal precipitoso arrivo d'un tribuno e d'un notaro con positivi ordini dell'Imperatore, ch'essi avevano la commission d'eseguire, ed a' quali egli non dovevasi opporre. Costanzo indicò la sua volontà che quattro intere legioni, vale a dire quelle dei Celti, dei Petulanti, degli Eruli e dei Batavi, si separassero dalle bandiere di Giuliano, sotto di cui acquistato avevano la loro fama e disciplina; che si scegliessero in ciascheduna delle rimanenti trecento dei più valorosi giovani; e che questo numeroso distaccamento, che formava la forza dell'esercito Gallico, si ponesse immediatamente in marcia, e facesse ogni diligenza per arrivare avanti l'apertura della nuova campagna sulle frontiere di Persia308. Cesare previde le conseguenze di questo fatal comando, e se ne lagnò. Moltissimi ausiliarii, che volontariamente s'erano ascritti alla milizia, avevano stipulato di non poter essere mai costretti a passar le alpi. Si era impegnata la pubblica fede di Roma, ed il personal onore di Giuliano per l'osservanza di tal condizione. Un simil atto di tradimento e d'oppressione avrebbe distrutto la fiducia, ed eccitato lo sdegno degl'indipendenti guerrieri della Germania, che risguardavan la verità come la più nobile delle virtù, e la libertà come il più stimabile dei loro beni. I Legionari, che godevano il titolo ed i privilegi di Romani, s'erano arrolati per la difesa generale della Repubblica; ma quelle mercenarie truppe udivan con fredda indifferenza gli antiquati nomi di Repubblica e di Roma. Attaccati o per la nascita o per una lunga abitazione al clima ed ai costumi della Gallia, essi amavano ed ammiravan Giuliano, disprezzavano e forse odiavan l'Imperatore, temevano quella marcia laboriosa, i dardi Persiani, e gli ardenti deserti dell'Asia. Risguardavano come loro propria la terra che avevan salvata; e scusavan la loro mancanza di coraggio, adducendo il sacro e più immediato dovere di difender le famiglie e gli amici loro. Le apprensioni dei Galli nascevano da un imminente ed inevitabil pericolo. Tosto che si fossero private le Province della militare loro forza, i Germani avrebber violato un trattato, che non fondavasi che sui loro timori; e nonostante l'abilità ed il valor di Giuliano, il Generale d'un'armata di puro nome, a cui si sarebbero imputate le pubbliche calamità, dovea dopo una vana resistenza trovarsi, o schiavo nel campo dei Barbari, o reo nel palazzo di Costanzo. Se Giuliano ubbidiva agli ordini che avea ricevuti, sottoscriveva la propria sua distruzione e quella d'un popolo, che meritava il suo affetto. Ma una positiva disubbidienza era un atto di ribellione ed una dichiarazione di guerra. L'inesorabil gelosia dell'Imperatore, e la perentoria, e forse insidiosa natura de' suoi comandi, non lasciavan luogo ad una plausibile apologia o candida interpretazione; e la dipendente situazione di Cesare appena gli dava tempo di deliberare. La solitudine accresceva la perplessità di Giuliano; egli non potea più contare su' fedeli consigli di Sallustio, che dall'oculata malizia degli eunuchi era stato rimosso dal suo uffizio; non potea neppure corroborare le sue rappresentanze col concorso de' Ministri, che avrebbero avuto paura o rossore d'approvar la rovina della Gallia. Fu preso il momento, in cui Lupicino,309 Generale della cavalleria, era stato mandato nella Gran-Brettagna, per reprimer le incursioni degli Scoti, e de' Pitti; e Florenzio era occupato a Vienna nell'esazione del tributo. Quest'ultimo, astuto e corrotto politico, evitando d'essere in alcun modo responsabile in tal pericolosa occasione, eluse i pressanti e replicati inviti di Giuliano, che gli rappresentava, che in ogni risoluzione d'importanza era indispensabile nel consiglio del Principe la presenza del Prefetto. Frattanto Cesare veniva incalzato dalle civili ed importune sollecitazioni de' messaggieri Imperiali, che pretesero di suggerire, che s'egli aspettava il ritorno de' suoi Ministri si sarebbe caricato della colpa d'aver differito, ed avrebbe riservato ad essi il merito dell'esecuzione. Incapace di resistere, e non volendo ubbidire, Giuliano espresse ne' termini più serj il desiderio, ed eziandio l'intenzione che aveva, di dimetter la porpora, ch'egli non potea ritener con onore, ma che non potea per altro abbandonare con sicurezza.
Dopo un penoso contrasto, Giuliano fu costretto a riconoscere, che l'ubbidienza era la virtù propria del suddito più eminente, e che al solo Sovrano toccava di giudicare del pubblico bene. Ei diede gli ordini opportuni per eseguire la volontà di Costanzo; una parte delle truppe incominciò a marciare per le alpi; e dalle varie guarnigioni si mossero i distaccamenti verso i rispettivi luoghi d'unione. Avanzavano essi con difficoltà fra la tremante, e spaventata folla di Provinciali, che procuravan d'eccitare la lor pietà con tacita disperazione o con alti lamenti, nel tempo che le mogli de' soldati, tenendo in braccio i lor figli, accusavano l'abbandono de' loro mariti in un linguaggio misto di dispiacere, di tenerezza, e di sdegno. Questa scena di mestizia afflisse l'umanità di Cesare; egli concesse un numero sufficiente di carri per trasportare le mogli e le famiglie de' soldati310, procurò d'alleggerire i travagli, ch'era costretto d'imporre, ed accrebbe con le più lodevoli arti la sua popolarità, e il disgusto dell'esuli truppe. La tristezza d'una moltitudine armata presto si converte in furore; i liberi discorsi, che si comunicavan di tenda in tenda sempre con maggiore audacia ed effetto, prepararono i loro animi ai più arditi atti di sedizione, e mediante la connivenza dei Tribuni fu segretamente sparso un opportuno libello in cui dipingevasi con vivi colori la disgrazia di Cesare, l'oppressione dell'esercito Gallico, e gl'imbelli vizi del tiranno dell'Asia. I servi di Costanzo rimasero sorpresi ed agitati dal progresso di tale spirito pericoloso. Stimolarono Cesare ad affrettar la partenza delle truppe; ma imprudentemente rigettarono l'onesto o giudizioso consiglio di Giuliano, che proponeva loro di non muovere le schiere verso Parigi, ed indicava il pericolo e la tentazione d'un ultimo abboccamento.
Tostochè fu annunziato l'avvicinarsi delle truppe, Cesare andò loro incontro e salì sul suo Tribunale che era stato eretto in una pianura fuori delle porte della Città. Dopo d'aver distinto gli Uffiziali ed i soldati, che pei loro posti ed azioni meritavan particolare attenzione, Giuliano si voltò con una studiata orazione alla moltitudine ohe lo circondava; celebrò con grato applauso le loro imprese, gl'incoraggiò ad accettare con allegrezza l'onore di militar sotto gli occhi d'un potente e generoso Monarca, e gli avvertì che i comandi d'Augusto richiedevano un immediata e volontaria ubbidienza. I soldati, che temevan d'offendere il lor Generale con indecenti clamori, o di mentire i lor sentimenti con false e venali acclamazioni, conservarono un ostinato silenzio, e dopo breve posa furono rimandati a' loro quartieri. I principali Uffiziali ammessi furono alla mensa di Cesare, che protestava, col più tenero linguaggio dell'amicizia, il desiderio che aveva, e l'impotenza in cui si trovava di premiare, secondo i lor meriti, i prodi compagni delle sue vittorie. Essi partiron da tavola pieni di dolore e di pensieri, e si dolevano della durezza di loro sorte, che dividevagli dall'amato lor Generale, e dal lor paese nativo. Fu arditamente discusso, ed approvato l'unico espediente, che impedir potesse quella separazione; lo sdegno popolare si ridusse a poco o poco ed una regolare cospirazione; si ampliarono dalla passione i giusti motivi di querela; e siccome nella vigilia della partenza permettevasi alle truppe una licenziosa ricreazione, le loro passioni furono anche infiammate dal vino. Alla mezza notte l'impetuosa moltitudine con spade, con bicchieri, e con faci alla mano corse ne' sobborghi; circondò il palazzo311; e non curando il futuro pericolo, pronunziò le fatali e irrevocabili parole: Giuliano Augusto. Il Principe, la cui ansiosa sospensione veniva interrotta dalle disordinate loro declamazioni, assicurò le porte, affinchè non s'introducessero nel palazzo; e per quanto fu in suo potere, non espose la propria persona e dignità agli accidenti d'un notturno tumulto. Allo spuntar del giorno i soldati, lo zelo de' quali era irritato dalla opposizione, entraron per forza nel palazzo; s'impadronirono con rispettosa violenza dell'oggetto della loro scelta, accompagnarono con spade sguainate Giuliano per le strade di Parigi, lo collocarono sul Tribunale, e con replicate grida lo salutarono Imperatore. La prudenza non meno che la fedeltà gl'inculcarono il dovere di resistere a' lor ribelli disegni, e di preparare alla sua oppressa virtù la scusa della violenza. Volgendosi or alla moltitudine, or agl'individui, ora implorava la lor compassione, ora esprimeva il suo sdegno; gli scongiurava a non macchiar la fama di loro immortali vittorie, e si avventurò a promettere, che se immediatamente tornavano al lor dovere, avrebbe procurato d'ottener dall'Imperatore non solo un libero e grazioso perdono, ma anche la rivocazione degli ordini, che avevano eccitato la loro collera. Ma i soldati, che conoscevan la propria colpa, vollero piuttosto dipendere dalla gratitudine di Giuliano, che dalla clemenza dell'Imperatore. Il loro zelo insensibilmente si ridusse ad impazienza, e l'impazienza a furore. L'inflessibil Cesare sostenne fino all'ora terza del giorno le preghiere, i rimproveri e le minacce di essi; nè volle cedere fintantochè non l'ebbero assicurato più volte, che s'egli voleva vivere, bisognava che acconsentisse a regnare. Fu innalzato sopra uno scudo in presenza, e fra le unanimi acclamazioni delle truppe; supplì alla mancanza del diadema312 un ricco collar militare, che trovarono a caso; la ceremonia si terminò con la promessa d'un moderato donativo313; ed il nuovo Imperatore, oppresso da un vero o affettato rammarico, si ritirò ne' più segreti recessi del suo appartamento314.
Explicat aula sinus, montemque amplectitur alis;
Multiplici latebra scelerum tersura ruborem.
… pereuntis saepe pudoris.
Celatura nefas, Venerisque accommoda furtis.
Questi versi son presi dall'Architrenius lib. IV. c. 8. opera poetica di Giovanni di Hauteville, o Hauville Monaco di S. Albano verso l'anno 1190. Vedi Warton Istor. della Poes. Ingl. Vol. 1 dissert. 2. Tali furti però erano forse meno perniciosi per il genere umano delle Teologiche dispute della Sorbona, che di poi si sono agitate sul medesimo terreno. Bonamy Mem. de l'Acad. Tom. XX. p. 678-682.