Kitabı oku: «I pescatori di balene», sayfa 13
XXIII. L’ORSO BIANCO
Il Porcupine, chiamato anche Ratto, è un bel corso d’acqua comunicante col fiume Makenzie, che scorre da ovest ad est, quasi parallelamente alla costa, da cui però dista oltre duecento miglia. Nella stagione estiva molti canotti lo percorrono mettendo in comunicazione il forte Yucon colla stazione di La Pierre e coi forti che si trovano sulle rive del Makenzie; ma, quando comincia a gelare, la navigazione viene interamente sospesa e le tribù indiane che popolano le rive e che si chiamano «figlie del Ratto», si ritirano o verso sud o verso nord, dedicandosi alla caccia che talvolta è più produttiva della pesca.
Quando il tenente e Koninson, lasciata la slitta, discesero la sponda, non scorsero anima viva, nè alcuna abitazione. Il fiume, completamente gelato, non aveva attirato ancora alcuno di quei valenti canottieri e pescatori che s’incontrano così spesso nella buona stagione.
Però, percorrendo la riva per qualche tratto, trovarono qua e là numerose traccie del soggiorno degli indiani. Infatti ai piedi d’una roccia rinvennero delle vecchie reti state abbandonate perchè inservibili; più oltre una capanna semi-arsa, un remo ancora piantato nel ghiaccio e finalmente anche un canotto lungo otto piedi, costruito con lunghe liste di corteccia di betulla cucite insieme con sottili radici d’abete e calafatato di resina. Un fianco, però, era stato sfondato, forse dall’urto dei ghiacci, sicchè non poteva più servire.
– Diamine, mi pare che questi signori indiani si facciano molto desiderare! – disse Koninson. – Molte traccie abbiamo trovato, ma non un volto umano abbiamo veduto dalle rive dell’Oceano a questo fiume.
– Eppure parecchie tribù vivono in questa desolata regione – rispose il tenente.
– Ma dove sono?
– Non lo so, ma vi sono e qualcuno ne incontreremo.
– E verremo bene accolti?
– Non ho mai udito dire che gli indiani di queste terre siano cattivi.
– Però so che parecchie volte hanno dato addosso ai bianchi.
– È vero, Koninson, ma per difendere la loro indipendenza. Aggiungerò anzi, che hanno dimostrato di essere assai coraggiosi e di non aver paura dei forti meglio armati.
– Quale tribù sperate d’incontrare?
– Quella che si chiama «figlia del Ratto», che vive sulle sponde di questo fiume. È possibile, però, che in sua vece ne incontriamo qualche altra, poichè nessuna ha dimora stabile e tutte vanno qua e là cercando i territori che offrono maggiore selvaggina.
– E come si chiamano questi altri indiani?
– Vi sono i Co-yuconi, i più numerosi dell’Alaska e che abitano le rive del fiume Yukon; i Koctck-a-Kutkin o indiani delle bassure; gli An-Kutkin e i Tatanckok-Kutkin appartenenti alla famiglia dei Malemuti, che abitano il basso corso dell’Yukon, e i Tanana, che hanno il loro centro al confluente dell’Yukon col fiume Tanana, dove si erge un grosso villaggio chiamato Nuclu-kayette.
Altre tribù minori occupano il territorio che si estende fra i fiumi suddetti e il Makenzie, appartenenti quasi tutte alla gran tribù dei «figli del Ratto».
– Ed ora che noi siamo qui giunti, dove ci dirigeremo, signor Hostrup? Verso ovest o verso est?
– Sarei dell’opinione di seguire il Porcupine fino al Makenzie e di raggiungere il forte Speranza.
– Allora andiamo al forte Speranza.
– Ti avverto che la via sarà lunga.
– Non mi spavento, signor Hostrup.
– Oggi accamperemo qui e cercheremo di rinnovare le nostre provviste. Io spezzerò il ghiaccio e mi metterò a pescare; tu batterai i boschi.
– Non chiedo di meglio.
Tornarono alla slitta, mangiarono un boccone e si separarono: Koninson si cacciò sotto il bosco col fucile e il tenente discese la riva armato di scure per aprire un buco nel ghiaccio.
Il fiociniere per qualche tratto costeggiò il Porcupine colla speranza di abbattere qualche capo di selvaggina acquatica, avendo notato qua e là delle traccie di lontre ma nulla scorgendo, si addentrò nel bosco camminando con prudenza e cercando di non far scricchiolare la neve.
In lontananza si udivano le lugubri urla di una muta di lupi, forse occupata a cacciare qualche grosso capo di selvaggina, qualche alce senza dubbio, sicchè si diresse da quella parte, niente affatto atterrito dai denti di quei feroci ma non coraggiosi carnivori.
Dopo aver superato una piccola altura sulla quale erano già spuntati in gran numero i papaveri dai petali bianchi e dai petali d’oro, primi fiori della buona stagione, un certo numero di sassifraghe stellate e di ranuncoli gialli, ridiscese verso il fiume avendo udite le urla dirigersi da quella parte e quindi allontanarsi in direzione sud.
Aveva raggiunta una macchia di piante sui cui rami spuntavano certe coccole rosse delle quali sono amanti gli orsi bianchi, quando scorse a terra delle larghe tracce che indicavano il passaggio di un grosso animale.
– Oh! Oh! – esclamò egli, arrestandosi di botto. – Queste non sono nè tracce di alci, nè di lupi e tanto meno di volpi.
Si curvò e le esaminò attentamente, poi si sollevò rapidamente gettando uno sguardo inquieto sotto gli alberi e intorno ai cespugli che crescevano in gran numero presso la riva del fiume.
– Per di qui è passato un orso, e senza alcun dubbio un orso bianco – mormorò. – Devo tornare o tirare innanzi?
Esitò un momento, sapendo quanto fosse forte e terribile l’avversario che poteva da un istante all’altro incontrare, ma la speranza di tornare all’accampamento con un sì bell’animale lo decise a continuare la caccia seguendo appunto quelle orme.
Rinnovò per maggior precauzione la carica del fucile introducendovi due palle, si assicurò se il coltello scorreva facilmente nella guaina di pelle, poi si slanciò risolutamente innanzi, ma con gli occhi bene aperti e gli orecchi ben tesi.
Percorse un quattro o cinquecento metri fermandosi di frequente per ascoltare, poi si gettò precipitosamente dietro a un grosso albero.
In mezzo ad un cespuglio, lontano un tiro di freccia, aveva veduto agitarsi una massa biancastra che era subito scomparsa, forse perchè stava scendendo il pendio della riva.
Stette alcuni minuti immobile cercando di distinguere meglio il carnivoro, poi udì, non senza provare un certo tremito, una specie di nitrito simile a quello che emette un mulo.
– È un orso bianco! – esclamò il fiociniere, abbandonando con precauzione il nascondiglio. – Animo, mio caro Koninson, se sei venuto fin qui non devi tornare al campo a mani vuote.
Sapendo quanto gli orsi bianchi siano diffidenti e difficili a lasciarsi accostare se non sono affamati, si gettò sottovento onde l’animale non lo fiutasse e guadagnò la riva del fiume sempre tenendosi celato dietro i tronchi degli alberi e le irregolarità del terreno.
Giunto là, s’alzò sulle ginocchia tenendo in mano il fucile e guardò.
A trenta soli passi di distanza egli scorse l’orso bianco occupato a divorare le coccole rosse dei cespugli e le tenere gemme di alcuni minuscoli salici d’acqua che crescevano stentatamente fra la neve.
Senza dubbio non si era ancora accorto della presenza del cacciatore, poichè non dimostrava alcuna inquietudine, anzi lentamente gli si avvicinava.
Koninson imbracciò il fucile e mirò lungamente la testa del mostro, non ignorando che, se lo avesse colpito in qualunque altra parte del corpo, non lo avrebbe atterrato.
Alcuni istanti dopo la detonazione del fucile si fece udire scuotendo fortemente gli strati dell’aria. Quando il fumo si dissipò, il fiociniere, con suo grande terrore, vide l’orso che saliva la riva di galoppo, aprendosi impetuosamente il passo fra i cespugli.
Nessuna macchia di sangue si scorgeva sulla bianca pelliccia, segno chiaro che la palla si era perduta altrove.
Mancava il tempo di ricaricare l’arma e anche di fuggire, poichè l’orso non era più che a pochi passi.
Il fiociniere in quel terribile frangente non si perdette d’animo. Afferrò il fucile per la canna e quando si vide l’animale dinanzi, lo percosse replicatamente sul muso.
Disgraziatamente l’arma gli sfuggì di mano mentre vibrava un terzo colpo e si trovò inerme.
Impegnare una lotta corpo a corpo col coltello era cosa troppo pericolosa con simile avversario, la cui forza è veramente straordinaria, se non eguale, certo di poco inferiore a quella del terribile orso grigio delle Montagne Rocciose. Non restava che fuggire a tutte gambe.
Koninson si appigliò a questo partito, e si diede a precipitosa fuga attraverso la foresta, mandando alte grida per attirare l’attenzione del tenente che non doveva essere molto lontano.
Superò, correndo disperatamente, la piccola altura procurando di tenersi presso gli alberi onde, in caso disperato, salvarsi sui rami; poi si lasciò scivolare o meglio rotolare fino al basso, dove incontrò il tenente che si era affrettato ad accorrere col fucile e una scure.
– Cos’hai? – gli chiese questi, precipitandosi verso di lui. – Che ti è accaduto? Chi ti insegue?
– Fuggite! Fuggite! – esclamò Koninson rimettendosi in piedi. – Ho un orso bianco alle spalle.
– Un orso! E dov’è?
– L’ho incontrato presso le rive del fiume e si era messo a inseguirmi, dopo essere sfuggito al mio colpo di fucile.
– Se si mostra avrà una buona accoglienza, ragazzo mio. Ma dov’è il tuo moschetto?
– Mi è sfuggito di mano mentre mi difendevo.
– Bisogna andarlo a riprendere, o quell’animale te lo rovinerà tutto. Orsù, prendi la scure e andiamo a vedere.
– Badate, tenente, che abbiamo da fare con un orso affamato, il quale si getterà su di noi.
– Siamo in due e possiamo tenergli testa. Hai nulla di rotto?
– Sono intatto.
– Allora silenzio e avanti.
Il tenente, che ci teneva assai ad abbattere il carnivoro per rinnovare le provviste già molto scarse, salì intrepidamente l’altura a rapidi passi, fiancheggiato da Koninson, il quale trovandosi male armato tentennava, e giunto sulla cima gettò uno sguardo sul versante opposto, in direzione del fiume, ma. non vide nulla, nè udì il ben noto nitrito del pericoloso avversario.
– Dove si sarà nascosto? – si chiese.
– Forse dietro a quelle macchie – rispose il fiociniere, indicando i cespugli che crescevano sulle sponde del Porcupine.
– Non ti ha inseguito?
– Non lo so, poichè non ardii voltarmi indietro.
– Scendiamo, amico mio.
Tenendosi dietro ai tronchi degli alberi e cercando di produrre meno rumore che fosse possibile, per sorprenderlo e sparargli addosso prima che potesse fuggire, raggiunsero i cespugli e precisamente il luogo ove era avvenuta la lotta.
Guardarono attorno alle piante, sulla riva e nel fiume, ma l’orso bianco non c’era e, quello che era più sorprendente, non c’era nemmeno il fucile perduto dal fiociniere.
– Tò! – esclamò il tenente al colmo della sorpresa. – Che abbia mangiato il moschetto? Eppure non è una bistecca.
Si misero a frugare nelle macchie colla più grande attenzione, visitarono i crepacci, girarono i tronchi degli alberi per un bel tratto di bosco, ma sempre nulla: il fucile era proprio scomparso.
– Che ne dici? – chiese Hostrup, che si grattava furiosamente la testa.
– Io dico che questa sparizione ha del soprannaturale, – rispose Koninson.
– Che l’orso abbia portato con sè l’arma?
– E per che farne?
– Non lo so davvero, Koninson.
– Che sia venuto qui qualche indiano?
– Non è possibile, poichè non vedo sulla neve che le tue traccie e quelle dell’orso.
– E allora?
– Che sia un orso ammaestrato?
– Ma non vi sono serragli nei dintorni, che io sappia, signor Hostrup.
– Ma vi possono essere degli indiani.
– E voi credete…
– Io non credo nulla, ma dico che quell’orso può appartenere a qualche banda d’indiani.
– E voi supponete che il birbante abbia portato il mio fucile ai suoi padroni?
– Così deve essere.
– Cosa dobbiamo fare?
– Inseguire il ladro.
– Ben detto, signor Hostrup.
– Ecco qui le traccie che ha lasciato sulla neve. Ha disceso la riva, ed ha attraversato il fiume dirigendosi senza dubbio verso sud. Forse dietro a quella foresta sorge un accampamento di indiani.
– Allora andiamo, ma… e la nostra slitta?
– La ritroveremo nel ritorno.
– Ma i lupi la saccheggeranno.
– Faranno un ben magro bottino, amico Koninson. Orsù, in cammino.
Discesero la riva, attraversarono il fiume che in quel luogo misurava circa duecento metri di larghezza e risalirono l’opposto pendio entrando in un’altra foresta, sotto la quale scorrazzavano diversi lupi bianchi di dimensioni non comuni.
Le traccie dell’orso furono ben presto ritrovate ed assieme ad esse l’impronta del calcio del fucile.
– Si direbbe che quel birbante adopera la mia arma come un bastone – disse Koninson.
– Deve essere un gran burlone! – rispose il tenente.
– Ora che ci penso, che sappia anche adoperare il fucile? Non vorrei che ce lo scaricasse contro a tradimento.
– Mi hai detto che non hai avuto tempo di ricaricarlo, quindi questo pericolo non esiste. Affrettiamo il passo e apriamo ben bene gli occhi.
Si rimisero in cammino sempre seguendo le traccie del carnivoro ma, percorsi duecento metri, tutti e due tornarono a fermarsi in preda ad una certa inquietudine. Da una fitta macchia di pini e di abeti neri, usciva una grande cortina di fumo che strisciava lentamente sul campo gelato prolungandosi infinitamente, e in distanza si udivano delle voci umane.
– Un accampamento? – chiese Koninson.
– Senza dubbio! – rispose il tenente.
– Andiamo innanzi?
– Sì, ma con prudenza. Se sono indigeni potremmo venire scambiati per nemici e accolti molto male.
– Vedete? – esclamò Koninson, – le traccie dell’orso si dirigono verso quell’accampamento.
– Lo dicevo io, che quel burlone doveva essere ammaestrato. Gettiamoci dietro questi alberi e procediamo cauti.
Stavano per eseguire quella prudente tattica, quando delle urla selvaggie scoppiarono alle loro spalle. Si volsero rapidamente l’uno puntando il fucile e l’altro impugnando la scure. Alcuni uomini, che si erano forse tenuti nascosti dietro i tronchi degli alberi o i mucchi di neve, correvano loro addosso agitando certe fiocine e certi ramponi di forma particolare ed alcuni vecchi fucili.
Essi giunsero come un uragano fino a pochi passi dal tenente e dal fiociniere, poi si fermarono di colpo in un atteggiamento che nulla aveva di ostile, e uno di loro, il capo senza dubbio, facendo un passo innanzi, disse con voce abbastanza graziosa e in lingua russa:
– Siate i benvenuti. I Tanana sono vostri amici!
XXIV. CACCIA E TRADIMENTO
Quegli indiani Tanana, la cui tribù abita ordinariamente l’alto corso dell’Yucon dove ha un grosso villaggio chiamato Nu-clukayette, erano una quindicina e, a prima vista, non tali da ispirare troppa fiducia e simpatia.
Avevano i lineamenti brutti, angolosi, gli occhi foschi, il viso dipinto a vivaci colori, i capelli lunghi, sciolti, adorni di penne e di pezzi di argilla sorretti da strisce di garza e un bastoncino passato fra le cartilagini del naso che dava loro un aspetto tutt’altro che gradevole.
Le loro vesti consistevano in corte giubbe di pelli d’orso o d’ermellino o di lupo, calzoni di pelle di foca adorni di frangie e di perle comperate senza dubbio dai commercianti ambulanti, e grandi scarpe da neve formate da una specie di rete terminante in punta sul dinanzi e arrotondata di dietro.
Dopo la corsa fatta, che aveva per scopo di provare se gli stranieri avevano il «cuore forte» – com’è loro costume – si erano fermati in atteggiamento pacifico.
Il tenente, che aveva rapidamente puntato il fucile contro di loro pronto a far fuoco, dopo le parole del capo lo aveva abbassato tenendosi però in guardia, non fidandosi interamente di quegli indiani che ordinariamente vedono di cattivo occhio i bianchi stabiliti sulle loro terre.
– Se vieni come amico, nulla hai da temere! – disse poi, rivolgendosi al capo che aspettava una risposta.
– Mio fratello è russo? – chiese questi.
– No, appartengo ad una tribù che è molto lontana da qui, verso il sole che tramonta.
– Allora sei mio amico! – rispose il capo.
Gettò a terra il vecchio fucile che teneva in mano, s’avvicinò al tenente e accostando il proprio naso a quello di lui glielo strofinò energicamente.
Dopo questo segno di amicizia riprese:
– Se mio fratello non teme l’ospitalità dei Tanana, mi segua: avrà una tenda, della carne e del fuoco.
– Ti seguo.
La banda gettò le armi sulle spalle e si addentrò nella grande macchia seguita dai due naufraghi.
– Possiamo fidarci? – chiese Koninson.
– Sì, ma fino ad un certo punto! – rispose il tenente. – Ad ogni modo abbiamo anche noi delle armi.
Dopo dieci minuti di cammino, giungevano in una vasta radura in mezzo alla quale si rizzavano sei grandi tende di pelle di renna, di forma conica, sostenute da pertiche e sormontate da strani emblemi rappresentanti teste di orsi e teste di lupi.
Alcune donne ancor più brutte degli uomini, più orribilmente dipinte, infagottate in pelli di orso e di foca e adorne, specialmente al naso, di conchiglie di «ki-a-qua» (dentalium), mossero incontro ai nuovi venuti: ma ad un gesto dei guerrieri si affrettarono a ritirarsi.
Il capo condusse gli ospiti dinanzi ad una piccola tenda mezzo sdruscita e che pareva si reggesse per un miracolo di equilibrio e li invitò ad entrare, promettendo di raggiungerli fra pochi istanti. Koninson per il primo vi mise dentro la testa, ma la ritirò subito sternutando sonoramente.
– Ma questo è un porcile – disse. – Sfido chiunque a sopportare l’orribile puzza che regna lì dentro.
– Bah! Non bisogna essere schizzinosi, ragazzo mio! – rispose il tenente. – Credevi forse di trovare un palazzo? Animo, entriamo.
Facendo uno sforzo, si cacciarono sotto la tenda dove si arrestarono mezzo asfissiati da un insopportabile odore di carne corrotta.
Nel mezzo ardeva una strana lampada scavata in una pietra ollare, la quale spandeva all’intorno un luce rossastra e fetente. Negli angoli, ammonticchiate alla rinfusa, si vedevano diverse pelli di animali non ancora completamente seccate, poi interiori che finivano di marcire, pesci corrotti, dei sacchetti che parevano contenere carne secca e infine un gran numero di fiocine di ogni forma e dimensione, nonchè certi coltellacci d’una forma particolare montati in corno di narvalo o in un dente di morsa.
– Questo deve essere il magazzino della tribù e anche l’arsenale – disse il tenente.
– Che pulizia, signor Hostrup! Noi morremo asfissiati se non ci affrettiamo a uscire.
– Se vivono i Tanana in queste brutte tende, possiamo viverci anche noi.
– Ma forse le altre sono migliori.
– Probabilmente saranno peggiori.
– E l’orso? Tò, me lo ero scordato.
– Quando verrà il capo sapremo qualche cosa. Ah! Eccolo che ritorna!
Infatti il Tanana si avvicinava accompagnato da un guerriero il quale portava un grosso pesce, che pareva fosse stato allora allora levato dai carboni.
– Mio fratello accetti il regalo che gli offre il capo – disse il Tanana entrando.
– Sii il benvenuto, – rispose il tenente – e ricevi i nostri ringraziamenti.
Il guerriero depose su di una pelle il pesce, poi uscì mentre il capo si sedeva per terra colle gambe incrociate. I due naufraghi non si fecero pregare a far onore al pasto e lavorarono così bene di denti che ben presto del pesce non rimasero che le pinne.
Il Tanana, quando vide che avevano terminato, estrasse dal suo sacchetto che portava appeso alla cintura la pipa, la caricò flemmaticamente, l’accese, aspirò due boccate, poi la passò agli ospiti che fecero altrettanto.
Terminata quella funzione che presso tutti gli Indiani dell’America settentrionale è della più alta importanza, poichè viene considerata come una dichiarazione di amicizia, il Tanana, che fino allora non aveva pronunciato sillaba, disse:
– Mio fratello il viso pallido è contento dei suoi fratelli dal viso rosso?
– Sì e ti ringrazio della cortese ospitalità accordatami.
– Allora mi dirà perchè viaggia in queste terre che non sono le sue.
– Siamo qui perchè la tempesta ci ha gettati, malgrado tutta la nostra buona volontà per non approdarvi.
– Ah! I miei fratelli sono stati disgraziati adunque? Montavano forse una di quelle grandi barche che vengono così da lontano?
– L’hai detto.
– Ed ora dove vanno?
– Cerchiamo di raggiungere un qualche forte o della Compagnia inglese o di quella russa.
– Ma i forti sono molto lontani.
– Ma le nostre gambe sono buone.
– E non possedete un attiraglio?
– Una slitta, ma senza cani per trascinarla.
– E dov’è questa slitta? – chiese il Tanana, i cui occhi mandarono un lampo.
– L’abbiamo lasciata a due ore di cammino di qui, sulla riva del Porcupine.
– Mio fratello possederà dell’«acqua di fuoco»?
– Dell’acquavite, vuoi dire? No, l’abbiamo consumata tutta.
– Possederà della polvere da sparo.
– Sì, ma non molta.
– Doveva portarne un pò a suo fratello Tanana.
– Basta appena per noi due.
Il capo non dissimulò un gesto di dispetto che al tenente non sfuggì.
– Ma perchè ha lasciato la sua slitta? – chiese il Tanana.
– Per inseguire un orso bianco che ci aveva rubato un fucile. È tuo quell’orso?
– No.
– Sarà di qualche tuo guerriero. Io so che è entrato nel tuo campo e io conto sulla tua generosità per riavere l’arma.
Il Tanana lo guardò per qualche istante senza rispondere, poi disse:
– Tu l’avrai, ma ad un patto.
– Parla.
– Che tu venga quest’oggi con me nella foresta a cacciare l’alce. I volti pallidi sono tutti bravi cacciatori e tu e il tuo compagno mi sarete di grande aiuto.
– Accetto.
II capo si alzò, uscì dalla tenda e poco dopo ritornava portando il fucile che Koninson s’affrettò a prendere, mandando una esclamazione di gioia.
– Ora mettiamoci in cammino! – disse il Tanana. – Le alci sono state già scoperte dai miei uomini e forse a quest’ora sono strette da ogni parte. Affrettiamoci, poichè conto di partire questa notte con tutta la mia tribù.
– E per dove? – chiese il tenente.
– Verso il sole che si leva, nel paese dei Malemuti – rispose il Tanana con un enigmatico sorriso. – Odi le grida dei cacciatori?
In lontananza si erano improvvisamente udite delle alte grida seguite dall’abbaiare di numerosissimi cani.
– Andiamo! – disse il tenente.
Il Tanana uscì seguito dai due marinai, disse qualche parola ad alcuni guerrieri che lo attendevano fuori della tenda, poi si addentrò nel bosco.
– Che vi pare di questo selvaggio? – chiese Koninson al tenente. – Mi ha un certo viso che non mi rassicura completamente.
– Hai ragione, mio degno fiociniere, ma staremo in guardia e ci guarderemo ben bene alle spalle.
Le grida e gli abbaiamenti si avvicinavano rapidamente e ben presto attraverso gli alberi si videro correre parecchi cacciatori preceduti da grossi cani, poco dissimili per altezza e per forme dai lupi.
– Dove sono queste alci? – chiese Hostrup al capo.
– Dinanzi a noi – rispose il Tanana.
– Sono molti i cacciatori?
– Una quarantina sparsi sulla nostra destra e sulla nostra sinistra.
Camminarono per altri venti minuti sempre più inoltrandosi nella foresta e sempre preceduti dai cacciatori che continuavano a mandare urla selvagge, poi il Tanana si arrestò.
Dinanzi a loro, a tre o quattrocento metri, stavano riunite venti o venticinque alci, superbi animali, grandi quanto un cavallo giovane, colle teste adorne di corna robustissime. Correvano or qua or là in preda ad un vivo spavento, cercando di fuggire fra gli spazi lasciati dai cacciatori, ma senza arrischiarsi, poichè subito ritornavano galoppando disordinatamente
II tenente e il fiociniere puntarono le armi mirando ognuno un’alce, ma il Tanana con un gesto li trattenne.
– Siamo a buon tiro – disse Hostrup.
– Non è ancor giunto il momento – rispose il capo. – Aspetta che entrino nel recinto e poi farai fuoco a volontà.
– In quale recinto?
– Guarda laggiù.
Il tenente guardò nella direzione indicata e non senza sorpresa vide, attraverso gli alberi, un grandioso recinto fabbricato con rami assicurati ai tronchi mediante strisce di pelle, il quale si restringeva a mò di collo di bottiglia.
– È così che noi cacciamo – disse il Tanana. – Le alci hanno paura ad entrare, ma noi le costringeremo.
– E non spezzeranno il recinto?
– È semplice, ma molto solido. Attenzione e guardatevi dalle corna, poichè talvolta le alci, rese furiose, si gettano sui cacciatori a testa bassa.
I suoi uomini si erano a poco a poco riuniti formando un semicerchio assai vasto il quale si univa colle due estremità del recinto. Ad un cenno del capo impugnarono le fiocine e si spinsero coraggiosamente innanzi raddoppiando le grida e aizzando i cani.
Le alci si misero a caracollare confusamente mostrando delle intenzioni tutt’altro che pacifiche, ma quando si videro assalite dai cani e minacciate assai da vicino dai cacciatori, non esitarono più a fuggire e non trovando dinanzi che l’apertura del recinto vi si spinsero dentro.
II capo, i due naufraghi e tutti gli altri le seguirono e si appostarono dietro a certi mucchi di neve muniti di una feritoia, che erano stati precedentemente costruiti.
– Fuoco a volontà! – comandò il capo.
Tosto da ogni parte partirono detonazioni ed alcuni alci, colpite mortalmente, caddero dibattendosi disperatamente. Le altre fecero di gran galoppo il giro del recinto cercando una uscita che ormai non esisteva più, essendo stata subito chiusa quella che poc’anzi c’era, poi si scagliarono contro i rami d’albero tentando di spezzarli a colpi di corna, ma invano poichè, come aveva detto il capo, erano solidissimi e ben legati.
Vista l’inutilità dei loro sforzi, si rivolsero contro i cacciatori, ma una nuova scarica, che ne gettò a terra altre quattro o cinque, le costrinse a riprendere la fuga.
Riunitesi in fondo al recinto, le povere bestie parvero consigliarsi, poi ritornarono verso i cacciatori a testa bassa mostrando minacciosamente le loro robuste corna. Alcune colpite dalle palle caddero, ma le altre passarono come un uragano fra cumulo e cumulo, si gettarono furiosamente contro il recinto che in quel luogo presentava una solidità molto dubbia, ne rovesciarono un tratto e fuggirono nel bosco allontanandosi verso est con tale rapidità, da par perdere ogni speranza di raggiungerle.
Il tenente e il fiociniere fecero atto di inseguirle, ma il capo Tanana li arrestò.
– È inutile – disse. – Abbiamo carne quanta ci basta per vivere un bel pezzo.
Ed infatti aveva ragione. Nove alci giacevano a terra immobili e due altre si dibattevano negli ultimi aneliti.
Mentre alcuni cacciatori uscivano traendosi dietro i cani per condurre colà le slitte, gli altri s’affrettarono a finire le ferite; poi, dato mano ai coltelli, si misero a scuoiare e a tagliare con tanta abilità e prestezza che due ore dopo la non facile operazione era finita.
Al tramonto, quell’ammasso di carne ancor palpitante veniva caricato sulle slitte e portato all’accampamento dove erano stati accesi dei grandi fuochi.
Il capo offrì ai due marinai una lauta ed abbondante cena, poi li ricondusse nella loro tenda che in quel frattempo era stata completamente vuotata.
– Quando parti? – gli chiese il tenente, prima di coricarsi.
– Domani all’alba – rispose il Tanana con un sottile sorriso. – Dormi in pace sotto la buona guardia dei miei guerrieri e all’alba riceverai i miei saluti e una provvista di carne da bastarti per un mese.
– A domani, adunque! – risposero i due naufraghi. E si sdraiarono con accanto le armi.