Kitabı oku: «I pescatori di balene», sayfa 5
IX. I FURORI DELL’OCEANO ARTICO
Tutta quella notte il «Danebrog» continuò a urtare contro i ghiacci che di ora in ora diventavano più numerosi e più grandi e due altre volte corse il pericolo di farsi schiacciare da due immensi «icebergs» che non erano stati scorti a tempo e che gli erano passati a sole poche braccia, a babordo l’uno ed a tribordo l’altro. Fortunatamente, come il tenente aveva predetto, ai primi albori quelle fitte brume cominciarono a rompersi, lasciando vedere qua e là dei tratti di mare ed i ghiacci che li coprivano. Sorto il sole, si alzarono bruscamente formando in cielo una nuvola color del piombo, il cui aspetto nulla di buono prometteva.
Uno splendido quadro apparve tosto all’equipaggio del vascello, che si trovava tutto in coperta.
Fin dove giungevano gli occhi, il mare, che in quel momento era perfettamente calmo, senza la più piccola ruga, appariva coperto di ghiacci che un superbo e ancor caldo sole d’autunno faceva scintillare vivamente.
Qui si ergevano gli «icebergs» imponenti, aguzzi, brillanti come se fossero di quarzo; là si alzavano delle piramidi stupende dalle pareti liscie, tinte di un verde superbo alla base e fiammeggianti sulla cima; più oltre si slanciavano arditamente in aria svelte colonne tutte infuocate dai raggi del sole, e più oltre ancora punte aguzze, grandi arcate sotto le quali il mare prendeva la tinta opaca della malachite alternata colle trasparenze dello smeraldo, massi enormi che parevano di marmo incrostati di grandi opali e di perle, strane cupole d’un azzurro magnifico, poi piccoli «streams» di forme allungate, piccoli «palks» di forme circolari, dirupati «hummoks» dai cui fianchi scendevano con lieve mormorio cascatelle d’acqua, poi altri «icebergs» ancor più scintillanti, poi altre colonne fiammeggianti, altri massi, altre cupole ed infine, lontano lontano, verso il nord, un gran campo di giaccio, un vero «ice-fìeld», sopra cui splendeva quella luce biancastra, acciecante, che sale fino alle nubi, che si vede a grandi distanze e che i marinai chiamano «ice-blink».
Un silenzio perfetto, strano, regnava sopra quell’immensa distesa di ghiacci, e due soli uccelli, due poveri gabbianelli, solcavano quella abbagliante atmosfera, mandando di quando in quando un triste grido.
– Ventre di balena! – esclamò Koninson che, come il solito, si trovava vicino al signor Hostrup. – È’ uno spettacolo superbo, tenente.
– Non dico di no, ma sarei più contento se non l’avessi dinanzi agli occhi – rispose l’ufficiale.
– Perchè, signore?
– Perchè questi ghiacci finiranno coll’unirsi e, se ci prendono in mezzo, per il «Danebrog» sarà finita.
– Il nostro vascello ha un solido sperone.
– Ma i ghiacci avranno allora uno spessore tale da sfidare lo sperone di una fregata di cinquemila tonnellate. E poi, non conti tu le pressioni?
– Le costole del «Danebrog» sono ancora salde, signore.
– Ma le pressioni sono formidabili, Koninson. Quando i ghiacci non trovano più posto, stritolano irresistibilmente tutto ciò che impedisce loro di allargarsi. E tu sai quanti vascelli colarono a picco completamente stritolati!.
– Ditemi, tenente, è proprio terribile la forza del ghiaccio?
– Immensa, fiociniere.
– E perchè?
– Per il semplice motivo che l’acqua, congelandosi, cresce di volume. Mi ricordo d’aver veduto una palla di ferro che era stata riempita d’acqua e poi collocata in una ghiacciaia ove il termometro segnava 4° sotto zero, scoppiare come se fosse di vetro.
– Se me lo dicesse un altro non ci crederei, tenente.
– Io so che anche un cannone scoppiò.
– Un cannone!
– Sì, fiociniere, e aggiungerò che l’esperimento fu fatto da Huggens nel 1667. Questo Huggens aveva riempito d’acqua un pezzo d’artiglieria di ferro, le cui pareti avevano uno spessore di tre centimetri, poi l’aveva ben chiuso. Alla notte l’acqua gelò e al mattino fu trovato il cannone spezzato.
– Corpo d’una balena!
– Anche il maggiore Edwards William nel 1784 fece degli esperimenti.
– Con altri cannoni?
– No, con bombe. Ne riempì otto che avevano il diametro esterno di 32 centimetri e una grossezza di parete di millimetri 0,038; le turò con tappi di ferro solidamente trattenuti da lamine e le sottopose ad una temperatura che variava fra i 19° e i 28° sotto zero. Sette bombe lanciarono in aria il turacciolo e la ottava scoppiò. E nota, non tutta l’acqua racchiusa si era gelata.
– Ora credo che una nave possa venire stritolata dalle pressioni dei ghiacci, per quanto abbia le costole salde. Ditemi, tenente, quale densità ha il ghiaccio?
– Gli scienziati, dopo lunghi studi, l’hanno determinata al valore medio di 0,918, a 0° di temperatura.
– Un’altra domanda, tenente. Perchè il mare gela solamente alla superficie? Se il freddo è intenso dovrebbe gelare anche in fondo.
– Ora te lo spiego, curioso fiociniere. Quando la temperatura è scesa allo zero, lo strato d’acqua superiore di un mare, di un lago o di un fiume, raffreddandosi diventa più pesante rispetto agli altri strati che possiedono ancora del calore e allora precipita in fondo. Il secondo strato, occupando il primo posto, pure si raffredda e pure precipita, e così avviene pure di tutti gli altri. Quando a tutti è stato sottratto il calore, il primo strato gela ed essendo il ghiaccio un cattivo conduttore, impedisce o almeno ritarda molto il congelamento degli altri. Ecco perchè difficilmente un mare gela dalla superficie al fondo.
– Secondo questa vostra teoria, i mari più profondi gelerebbero meno facilmente degli altri.
– Certo, Koninson.
– Ditemi, tenente, quale è la più bassa temperatura a cui gela l’acqua?
– Secondo le ultime osservazioni questa temperatura sarebbe di 12 centesimali sotto zero per l’acqua limpida e tranquilla.
– L’acqua del mare, che è salata, si solidifica meno facilmente di quella dei laghi e dei fiumi?
– Sì, perchè prima deve separarsi dai sali. Oh!, cosa vedo!
– Cosa mai? – chiese Koninson, curvandosi sulla murata e gettando uno sguardo sul mare.
– Ancora le macchie oleose.
– Siamo adunque sulle traccie delle balene. Ah!, se venissero a tiro del mio rampone!
Il tenente non si era ingannato. Dinanzi alla prua del «Danebrog» erano ricomparse le macchie oleose che il nebbione aveva fatto smarrire.
La bella nuova fu tosto recata al capitano, il quale ordinò tosto di seguirle per quanto lo permettevano i ghiacci, che erano sempre numerosissimi.
Disgraziatamente non lo dovevano che per un breve tratto. Già da alcuni minuti la nuvola formatasi in cielo si era dilatata prendendo una tinta più fosca e minacciando di coprire il mare con un nebbione pari, se non maggiore, a quello del dì innanzi.
Ben presto la costa americana, che non distava più che sei o sette miglia, scomparve, poi si coprì pure il sole. La nube continuò a scendere qualche ora dopo e finalmente si trovò a breve distanza dalla superficie del mare che aveva perduto la sua brillante tinta verdastra.
A mezzodì un vento freddissimo cominciò a soffiare dal nord, abbattendo non pochi ghiacci male equilibrati e mettendo in movimento tutti gli altri con grande pericolo del «Danebrog» che poteva venire schiacciato.
Tutto all’ingiro s’udirono allora tonfi, scoppi violenti e cozzi formidabili che diventavano, quanto più il vento cresceva, sempre più forti.
Alle 2 il mare presentava uno spettacolo spaventevole. Lunghe ondate, come se fossero mosse da una forza misteriosa, correvano da nord a sud, colle creste coperte di candida spuma, accavallandosi disordinatamente e lanciando in aria giganteschi sprazzi che il vento tosto disperdeva e polverizzava.
Sulle loro cime o nei loro avvallamenti, gli «icebergs», gli «hummoks», i «palks» e gli «streams» si dondolavano spaventosamente, ora tuffandosi ed ora tornando a galla; si urtavano furiosamente struggendosi reciprocamente e, lanciando ovunque frammenti, si rovesciavano facendo fuggire con acute strida gli uccelli marini che avevano piantato nei crepacci i loro nidi. Guai se uno di essi avesse urtato, con quell’impeto, i fianchi del vascello!
I marinai, pallidi, col terrore negli occhi, seguivano attentamente i balzi disordinati di quelle montagne e ogni qualvolta una di esse minacciava di portarsi presso il vascello, sporgevano i buttafuori onde possibilmente respingerla.
Alle 3, quando l’oscurità era maggiore, cominciò a cadere attraverso il nebbione una neve fitta che in pochi minuti coperse i ghiacci, la tolda e gli attrezzi del «Danebrog». Il freddo scese quasi tutto d’un colpo di altri 8 gradi!
– L’affare diventa serio assai! – disse il tenente a Koninson. – Corriamo il pericolo di venire sfracellati.
– E l’oscurità cresce sempre – disse il fiociniere, masticando rabbiosamente un mozzicone di sigaro. – Un gran brutto navigare è il nostro, con tutti questi ghiacci che pare abbiano una voglia matta di fare del «Danebrog» una frittata. Vedete la costa americana, signor Hostrup?
– No, Koninson, e anche quella costa mi dà assai da pensare. Possiamo trovarci da un istante all’altro dinanzi a una delle numerose isole o scogliere che la cingono..
In quell’istante, tra i fischi del vento e i muggiti delle onde, si udì mastro Widdeak gridare con accento di terrore:
– Abbiamo un «iceberg» a prua!
Il capitano, il tenente e Koninson, malgrado i violentissimi beccheggiamenti del vascello, si slanciarono colà. A mezza gomena appena, attraverso il nebbione, si vedeva scintillare una gran montagna di ghiaccio la quale, urtata da tutte le parti dalle onde, pareva fosse lì lì per capovolgersi.
– Vira, timoniere! – urlò il capitano. – Tutti ai bracci delle manovre!
Il «Danebrog», che non era più che a venti o a trenta passi dall’«iceberg», virò prontamente sul posto, ma ricevette sul fianco tale colpo di mare che lo fece quasi rovesciare sul tribordo. Quasi nel medesimo istante si udì ancora mastro Widdeak urlare:
– Bada, timoniere! Un altro «iceberg» dinanzi la prua!
Infatti, dritto l’asta di prua, era improvvisamente apparso un altro «iceberg» e questo ancora più grande del primo. Era una specie di colonna alta almeno cento metri e grossa quasi altrettanto.
– Siamo proprio circondati? – gridò il capitano con ira.
Si slanciò alla ruota del timone, e mentre i marinai, ad un comando del tenente, si portavano tutti a prua armati dei buttafuori, diresse la nave in modo da passare fra le due montagne che erano distanti appena due gomene l’una dall’altra, manovra quanto mai pericolosa, poichè potevano proprio in quel momento perdere l’equilibrio e sfracellare il «Danebrog» assieme a tutti quelli che lo montavano.
– State in guardia, capitano! – gridò il tenente, appena vide la nuova direzione presa dalla nave. – Gli «icebergs» non mi sembrano bene equilibrati.
– Non temete, tenente! – rispose il capitano con voce ferma. – Che nessuno abbandoni i buttafuori!
Il «Danebrog», spinto dal vento e dalle onde e guidato dalla ferrea mano del capitano Weimar, si avvicinò rapidamente alle due montagne le quali, violentemente urtate dalle acque che muggivano e rimuggivano, balzando e rimbalzando, oscillavano spaventosamente minacciando di urtarsi e di capovolgersi.
Non mancavano più che poche decine di metri, perchè il «Danebrog» giungesse al pericoloso passo, quando dall’«iceberg» più grande caddero in mare parecchie centinaia di ghiacciuoli, ciò che indicava che stava per perdere l’equilibrio.
Un urlo di terrore si alzò sul ponte della nave; i marinai che si erano raggruppati a prua, lasciarono il posto precipitosamente, gettando via i buttafuori. Alcuni si slanciarono verso le baleniere, ritenendo ormai imminente una catastrofe.
Il tenente, che era rimasto intrepidamente sul castello di prua, si gettò in mezzo ai fuggiaschi alzando minacciosamente il buttafuori che teneva in mano.
– Ai vostri posti! – urlò.
– Il primo che pone una mano sulle baleniere lo ammazzo come un cane! – tuonò dal canto suo il capitano, che si teneva aggrappato alla ruota del timone. – Tutti a prua o siamo perduti!
Koninson primo, mastro Widdeak secondo, poi tutti gli altri riguadagnarono i posti assegnati. Era tempo! Il «Danebrog» si era cacciato fra le due montagne di ghiaccio e una di queste, portata innanzi da un’onda, minacciava di spezzare i pennoni e le murate.
I marinai, quantunque il terrore li agghiacciasse, ubbidirono di comune accordo. L’«iceberg» che avanzava sempre rollando spaventosamente, tutto d’un tratto s’inclinò verso la nave che gli passava di fianco ratta ratta e sfracellò i buttafuori mandando a terra gli uomini che li stringevano. Per la seconda volta i marinai abbandonarono i loro posti fuggendo a tribordo. Il capitano Weimar gettò un vero ruggito e il tenente, malgrado tutto il suo coraggio, impallidì. Entrambi credettero che questa volta pel «Danebrog» fosse proprio finita.
Un’altra onda avvicinò di più la montagna di ghiaccio. Un pennone, quello di maestra, che sporgeva assai fuori dal bordo, fu smussato da un blocco di ghiaccio staccatosi dalla cima dell’«iceberg»
– Si salvi chi può! – urlarono alcuni marinai, che avevano perduto completamente la testa.
– Fermi! Fermi! Passiamo! – tuonò il capitano Weimar sempre ritto dietro la ruota del timone.
Il «Danebrog», trasportato dal vento che soffiava con forza irresistibile, filava come una rondine marina quasi strisciando sul fianco della montagna. Due volte toccò, ma finalmente uscì dal pericoloso passo e si slanciò sulle onde furenti lasciandosi addietro i due «icebergs», i quali in brevi istanti scomparvero nel nebbione.
Un grido di gioia s’alzò fra l’equipaggio, unito al grido di: «Viva il capitano»!
Ma quel grido cessò quasi subito. Uno strano e formidabile fragore si era improvvisamente udito verso sud-est. Pareva che l’oceano si rompesse contro una costa che il nebbione non permetteva di vedere.
– Tenente Hostrup! – gridò il capitano che aveva pure udito quel lungo muggito. – Cosa abbiamo dinanzi a noi? La costa americana forse?
Il tenente salì sul castello di prua e guardò attentamente dinanzi, a babordo e a tribordo, ma altro non vide che furiosi marosi i quali trascinavano nei loro disordinati movimenti ghiacci di ogni dimensione, sfracellandoli gli uni contro gli altri. Si curvò più che potè verso l’acqua e tese attentamente gli orecchi. Fra i fischi del vento e i cozzi dei ghiacci udì distintamente un sordo muggito.
– Sì, capitano – gridò. – Noi abbiamo vicina la costa o una scogliera.
– Tutti ai bracci delle vele pronti a virare! – comandò il capitano,
Il «Danebrog» per dieci minuti tirò innanzi, sempre orribilmente sballottato dalle onde, che saltavano sopra le murate inondando la tolda da prua a poppa. Ad un tratto, a breve distanza apparve una spuma biancastra e il muggito poco prima udito divenne così intenso da credere che la costa o le scogliere fossero a poche gomene. Il capitano Weimar stava per dare il comando di virare, quando avvenne un leggero cozzo che arrestò subito la marcia del «Danebrog».
Il tenente e Koninson corsero a prua e si issarono, per meglio vedere, sul bompresso. Quasi subito avvenne un secondo urto e questa volta così forte da rovesciare tutto l’equipaggio. Una montagna d’acqua, varcate le murate, si precipitò sulla tolda atterrando tutto ciò che incontrava.
Tra i fischi del vento ed i muggiti delle onde s’udirono due grida d’aiuto, poi più nulla. Quando i caduti si rialzarono, il «Danebrog» galleggiava ancora, ma due uomini mancavano. Il tenente Hostrup e il fiociniere Koninson, che al momento dell’urto si trovavano sull’albero di bompresso, erano stati trascinati via dal colpo di mare!
X. LA SCOGLIERA
L’uragano non cessava un solo momento, anzi tendeva a diventare ancora più terribile. Un vento indiavolato, irresistibile, spazzava senza posa l’oceano ora fischiando e ora muggendo, lacerando il nebbione e sconvolgendo le acque che s’alzavano in forma di montagne, urtandosi con mille muggiti. I ghiacci, che pareva crescessero ad ogni istante di numero, orribilmente scrollati, perdevano ad ogni tratto l’equilibrio, si sprofondavano, tornavano a galla, si rovesciavano ora su un fianco e ora sull’altro e si frantumavano con scoppi paragonabili a quelli delle folgori o delle artiglierie.
In mezzo a tutti quei fragori, che diventavano ognora più intensi, di quando in quando si udiva un grido gutturale seguito da un fischio acuto, tagliente, che non era prodotto nè dal vento, nè da alcun abitante dell’oceano, ma che pure pareva uscisse dalle onde. Quel grido e quel fischio erano emessi da Koninson.
Il fiociniere, strappato dal bompresso dal colpo di mare che aveva rovesciato l’equipaggio, era stato portato subito lontano dal «Danebrog» in mezzo agli elementi scatenati, prima che avesse avuto il tempo di aggrapparsi alle corde e di chiamare aiuto.
Il povero giovanotto, quantunque abituato fino dall’infanzia ai freddi intensi delle regioni polari e quantunque fortissimo nuotatore, nel trovarsi tutto d’un colpo immerso in quelle acque ghiacciate e fra quelle onde di cui alcune superavano in altezza quindici metri, aveva perduta la testa e aveva bevuto parecchio, ma ben presto aveva riacquistato il suo sangue freddo e con un vigoroso colpo di tallone era risalito a galla girando attorno uno sguardo colla speranza di rivedere il «Danebrog». Ma ahimè! Il vascello, spinto dal vento che soffiava con crescente furia, era ormai scomparso nel fitto nebbione. Provò una stretta al cuore; si credette per sempre perduto.
Lanciò due o tre grida di aiuto, ma furono soffocate dalle urla del vento, dai muggiti delle onde e dai cozzi dei ghiacci.
– È finita – mormorò, battendo i denti per il freddo e per il terrore. – Che fare ora? Dove dirigersi?
Ad un tratto si ricordò dell’urto avvenuto e dei muggiti che avevano segnalato la vicinanza di una costa o per lo meno di una scogliera. Tese gli orecchi e alla sua destra udì ancora rompersi le onde e aguzzando gli occhi vide una lunga distesa di spuma biancastra.
– Animo, Koninson – disse. – La terra è vicina, cerchiamo di guadagnarla. Poi vedremo ciò che si potrà fare.
Ringagliardito dalla speranza, si mise a lottare contro le onde che l’assalivano da tutte le parti, ora spingendolo a destra, ora a sinistra, ora innanzi ed ora indietro, ora portandolo a grande altezza ed ora precipitandolo in profondi baratri dai quali usciva a prezzo di immani fatiche. E malgrado ciò, nella previsione che qualche suo compagno fosse stato pure strappato dalla tolda della nave, gettava di quando in quando un grido ed un fischio.
Aveva percorso circa cento metri verso sud, cioè verso il luogo ove l’oceano si rompeva con furia estrema, quando dall’alto di un’onda vide a breve distanza degli oggetti neri apparire fuori dell’acqua.
– Tò! Dei rottami! – esclamò. – Che il «Danebrog» sia andato a picco? Dio non lo voglia!
Si rimise a nuotare con disperata energia, cercando di evitare i ghiacci che potevano stritolargli la testa o sfondargli le costole e risalì un’altra onda. Anche questa volta, attraverso la nebbia, scorse degli altri oggetti neri, somiglianti a punte aguzze e contro i quali l’oceano si frangeva.
– La costa! – esclamò. – Quelli là sono scogli! Ah se potessi approdare senza sfracellarmi! Forse…
Non terminò la frase. Fra i muggiti delle onde aveva udito distintamente un fischio acuto e poi un grido umano.
– Ho un compagno vicino? – si chiese.
Con un colpo vigoroso si sollevò sull’onda e guardò attentamente innanzi a sè, ma nulla vide. Allora gettò un grido altissimo e si arrestò trattenendo il respiro e tendendo gli orecchi.
Nessuno rispose alla sua chiamata.
– Mi sono senza dubbio ingannato – mormorò. – Io solo sono stato strappato dalla tolda del «Danebrog». Animo, ragazzo, e attento agli scogli!
Quantunque il freddo a poco a poco gli irrigidisse le membra e le vesti, diventate pesantissime, lo impacciassero assai, continuò ad avanzare. Ad un tratto, in un momento in cui il vento taceva, udì il fischio di prima.
– Chi fischia? – gridò con quanta voce aveva in petto.
– Ohè! Del «Danebrog»! – gridò una voce poco lontana.
– Ma dove siete? – chiese Koninson, dibattendosi gagliardamente contro le onde che minacciavano di trascinarlo verso un masso di ghiaccio.
– Qui, che bevo allegramente! – rispose la voce di prima. – Ma chi siete voi? Un marinaio del «Danebrog» forse?
– Sono Koninson, il fiociniere del «Danebrog». Uno scroscio di risa si udì fra i fischi del vento. Koninson sbarrò gli occhi.
– Si ride con questo freddo e questo mare indiavolato! – esclamò. – Ma chi siete voi?
– Ehi, ragazzo, poggia un pò che il tuo tenente ti aspetta, – disse la voce.
– Siete voi, signor Hostrup?
– In carne e ossa, fiociniere.
– Anche voi strappato dal «Danebrog» da quella dannata ondata?
– Sì, fiociniere. Avvicinati che ti aspetto, ma sbrigati perchè la gran tazza bolle orribilmente.
Koninson, facendo sforzi disperati, si avanzò nella direzione onde aveva udita la voce e poco dopo si trovò a pochi passi dal tenente Hostrup, il quale nuotava tranquillamente come si fosse trovato in un lago, anzichè in un mare furibondo.
– Ah! Quale consolazione provo nel vedervi, signore! – disse Koninson, avvicinandoglisi.
– Briccone! Bella consolazione trovarmi in mezzo a queste onde che mi pestano e mi gelano le carni. E del «Danebrog». cos’è successo?
– Non ne so più di voi, signor Hostrup. Dopo che fui portato via non lo vidi più.
– Che sia andato a picco? Mi ricordo di un urto violentissimo.
– Non è possibile. Il «Danebrog» ha le costole dure e poi non sarebbe scomparso tutto d’un colpo.
– Speriamo, Koninson, che si sia messo in salvo. Ma chissà mai dove lo ha portato l’uragano e se a bordo si sono accorti subito della nostra scomparsa!
– Credete che tornerà a cercarci?
– Ne sono certo, ma quando il mare e il vento si saranno calmati.
– E intanto cosa faremo noi?
– Guadagneremo la scogliera che ci è vicina.
– E là moriremo probabilmente di freddo e di fame.
– Dietro la scogliera vi sarà la costa americana, Koninson, ne sono certo. Sei stanco?
– Stanco no, ma ho le membra quasi irrigidite e le vesti così pesanti che fatico assai a mantenermi a galla. Ah, se potessi levarmele di dosso!
– Non farlo, Koninson. Come resisterai dopo a questo freddo?
– Ma se non troviamo da asciugarci…
– Bah! Sulla costa americana gli alberi non mancano.
– Ma chi li accenderà?
– Ho la mia pipa e il mio tabacco, Koninson, e tu sai che assieme a queste due cose va sempre unito l’acciarino.
– E anche un pezzo d’esca, spero.
– Nella mia scatoletta ho anche l’esca. Ora bada a non romperti le costole contro la scogliera; siamo a meno di una gomena dai primi scogli. Avanti, fiociniere!
I due disgraziati marinai del «Danebrog», ora avvicinati in modo da urtarsi, ed ora separati violentemente, si diressero verso la scogliera che, come sì disse, era vicinissima. Ben presto entrarono in mezzo ad una candidissima spuma piena di ghiacciuoli così acuti che laceravano le membra. Qui le onde si frangevano e si rifrangevano con tale furore contro gli scogli, che i due nuotatori si trovarono grandemente imbarazzati a mantenersi a galla. C’erano dei momenti che entrambi scomparivano.
– Coraggio, fiociniere! – gridò ad un tratto il tenente che non perdeva, malgrado tutto quel diavolìo, la sua abituale flemma. – Attento alle punte!
– Ho paura! – disse Koninson battendo i denti. – Questi muggiti mi fanno perdere la testa.
– Calma e coraggio, Koninson.
– Verremo stritolati, tenente. Guardate che punte aguzze.
– Nuota contro corrente, fiociniere. L’onda ci spingerà egualmente a terra.
Erano allora a sole cinquanta braccia dalla scogliera, le cui punte nere e sottili, al solo vederle, mettevano i brividi. L’oceano, frangendosi contro, produceva un baccano orribile: erano spaventevoli muggiti, scoppi violenti che parevano colpi di cannone, scricchiolii, fischi, cozzi. Colonne d’acqua si slanciavano furiosamente in alto e ricadevano con incredibile violenza rompendo le ondate, le quali talora, chissà mai per qual causa, formavano dei vortici e gran numero di ghiacci si frantumavano scagliando ovunque i loro pezzi, di cui parecchi di non piccole dimensioni.
Un mezzo minuto più tardi i due nuotatori assordati, pesti, acciecati e mezzi soffocati, erano quasi sopra gli scogli. Un’onda li sollevò a prodigiosa altezza, e dopo averli furiosamente scossi, li trascinò sopra le punte aguzze scagliandoli impetuosamente contro una rupe che usciva parecchi metri fuori da quelle acque irritate. Si udirono, fra i muggiti dell’oceano e i cozzi dei ghiacci, due grida, poi più nulla. Erano stati sfracellati sul colpo?
Per alcuni istanti la scogliera apparve deserta, poi fra la spuma che la copriva incessantemente, apparve una forma umana: era il tenente Hostrup. S’alzò quanto era lungo aprendo ben bene le gambe per non venire portato via dal mare, si tastò lentamente le costole, poi le gambe, indi le braccia, poi starnutò sonoramente.
– Nulla di rotto! – disse, con una certa compiacenza. – Per Bacco! C’è qualcuno che mi protegge. Ma quel povero ragazzo, dov’è cacciato?
Gettò uno sguardo all’intorno ed a pochi passi vide un uomo dibattersi contro le onde.
– Ehi, Koninson, coraggio, ragazzo mio, e, se hai nulla di rotto, alzati,
– Ah, mio tenente! – esclamò il fiociniere, battendo i denti per il freddo e per l’emozione. – Che brutto approdo!
– Sei intero?
– Sì, ma tutto ammaccato.
– Poco di male, allora. Vieni, amico, cerchiamo di guadagnare un pezzo di terra meno umida e meno fredda. Brr!… Ancora dieci minuti e noi geleremo.
Koninson si strinse addosso i panni che sgocciolavano da tutte le parti e, aggrappandosi alle sporgenze delle roccie, lo raggiunse.
– Cosa facciamo? – chiese.
– Laggiù attraverso la nebbia, non ti sembra di vedere una massa, oscura alla base e biancastra alla cima?
– Sì, tenente.
– Che sarà?
– La costa americana.
– Tale è anche la mia opinione. Ragazzo mio, bisogna farsi animo e raggiungerla.
– Ma questa scogliera mi pare isolata.
– Torneremo a saltare in acqua.
– Con questo freddo?
– Ci scalderemo prima.
– A qual fuoco?
– Non parlare di fuoco ora. Bisognerà accontentarsi di un esercizio violento. Imitami, Koninson.
Così dicendo il tenente si era messo a saltare come una capra agitando pazzamente le braccia Koninson comprese che solamente quella bizzarra ginnastica poteva arrestare il gelo che a poco a poco gli irrigidiva le membra.
– Ora che le braccia e le gambe funzionano discretamente bene, andiamocene! – disse il tenente dopo un quarto d’ora. – Spicciamoci, Koninson, e bada di tenerti vicino a me.
– Non ci fracasseremo le costole questa volta?
– Speriamo che la costa abbia un pendio più dolce e sia priva di scogli.
Attraversarono la scogliera che misurava dieci o dodici metri di larghezza su venticinque o trenta di lunghezza e scesero dall’altra parte. Ivi il mare era più tranquillo, ma un gran numero di ghiacci lo ingombravano e tutti coperti da un alto strato di neve.
Koninson si arrestò indeciso,
– Farà un freddo terribile lì dentro!– disse.
– La traversata durerà poco, fiociniere – rispose il tenente. – Non abbiamo che sei o settecento metri da percorrere.
– E se quei ghiacci ci pigliano in mezzo e ci schiacciano la testa?
– Cercheremo di evitarli. Orsù, non tardare un secondo di più, Koninson, se ti preme la pelle. Guarda, la scogliera sta per essere spazzata da quell’onda mostruosa. Coraggio, fiociniere, che Dio non ricuserà di aiutarci.
Il tenente saltò in acqua per il primo; Koninson, dopo un pò di esitazione, lo seguì. Credettero tutti e due di morire gelati tanto quell’acqua era fredda, ma si fecero animo e ricominciarono a nuotare affrettando i movimenti.
– Tene…nte – balbettò Koninson. – Mi… pare che… mi si schiacci… il petto…
– Nuota… forte, fiociniere… La costa non è lontana.
– Auff… ne ho… per una settimana e…
– Sta zitto… conserva le… tue forze…
Ansando, rantolando, l’uno vicino all’altro, i due disgraziati avanzavano verso i ghiacci che pareva volessero ostruire il passo. Ben presto si trovarono fra due «palks» di non piccole dimensioni i quali dondolavano perpendicolarmente scricchiolando ad ogni colpo. Il tenente si cacciò arditamente nel canale da essi formato, spintovi anche dalle onde che, superata la scogliera, correvano ad infrangersi verso la costa, la quale era difesa da un grande banco tagliato in forma di sperone. Koninson lo seguì.
Passato il canale, si cacciarono entro un altro formato da due piccoli «icebergs», dalle cui cime cadevano ad ogni istante pezzi di ghiaccio così sottili e acuti che parevano lame di coltelli. Più di uno cadde addosso ai nuotatori, lacerando le loro casacche.
Dopo dieci buoni minuti giunsero finalmente ad una sola gomena dal banco di ghiaccio. Dietro a questo appariva confusamente, fra il nebbione, la costa che era senza dubbio quella americana. Era alta, dirupata, coperta da uno strato di neve e, a quanto pareva, deserta. Però sulla cima di quelle rupi, il tenente credette di vedere delle piante.
– Co…rag…gio, Koni…nson! – balbettò.
– A…van…ti – rispose il fiociniere, che non ne poteva proprio più e che aveva le braccia paralizzate.
Fecero un ultimo e disperato sforzo e si avvicinarono ancor più.
Finalmente un’onda li prese e li portò abbastanza tranquillamente sul banco di ghiaccio ove rotolarono senza forze e irrigiditi, in mezzo alle nevi ed ai ghiacciuoli.
Erano allora le 6 del mattino.