Kitabı oku: «La perla sanguinosa», sayfa 2
«E soprattutto, le spie, – aggiunse il quartiermastro della Britannia, beffardamente. – Sono persone sacre quelle!»
«Chiudi il becco, tu, – gridò il capo, e sii contento di non provare anche tu le nove code.»
«E il Guercio mi terrà compagnia almeno?» chiese Palicur, il quale non dimostrava alcuna apprensione per la terribile condanna che gli era stata inflitta.
«Non occuparti del 304.»
«Già, perché è un protetto del direttore nella sua qualità di spia.»
«Basta! – gridò il capo, alzando minacciosamente il pugno. – Presto, legate questo pappagallo mal dipinto.»
Il malabaro, udendo quelle parole, si alzò a sedere, mandando un urlo di furore.
«Sappi, sergente, che l›uomo che tu hai chiamato pappagallo è un discendente dei rajah di Calicut, di quei rajah che diedero tante terribili lezioni ai tuoi compatrioti, prima di venire dispersi per l’India.»
«Ma ora non sei che un forzato.»
«Condannato quasi innocente. Se ho ucciso era nel mio diritto.»
«Già, tutti dicono così; sempre innocenti, – disse il capo ghignando. – Lesti!»
I tre guardiani staccarono le catene fissate agli anelli del tavolato e liberarono le gambe del malabaro, il quale con un balzo fu subito in piedi.
«Eccomi, – disse, – ma giuro su Sivah che se quel maledetto cingalese non condividerà la mia pena, appena rimessomi in gambe lo ucciderò.»
«E noi ti impiccheremo, – rispose il sergente, – così avremo due bricconi di meno da sorvegliare e due bocche di meno da sfamare. Avanti, in cammino!»
«Ed io?» chiese il quartiermastro, mentre strizzava l›occhio al malabaro.
«Tu rimarrai qui per otto giorni, – rispose il capo. – È un riposo che non ti guasterà le ossa.»
«Io sono ammalato e non potrò resistere. Volevo anzi, fino da ieri, fare domanda di essere passato nell›infermeria. Temo di venire colto dall›itterizia.»
«Te la sbrigherai col medico, se avrà tempo di venire a trovarti.»
«Vi prego di avvertirlo. Ho un tremito incessante che non mi lascia un momento. Sono un vostro compatriota, dopo tutto.»
Il sergente alzò le spalle e uscì borbottando: «Quando giungerà. Ora è a caccia.»
E chiuse la porta con fracasso, facendo scorrere i grossi catenacci.
«Canaglie, – mormorò il quartiermastro, quando fu solo. – Risparmiano la spia e torturano quel povero malabaro. Bisogna che ce ne andiamo, dovessimo pagare colla nostra vita la libertà, altrimenti una volta o l’altra Palicur commetterà uno sproposito contro quel cane di un Guercio e si farà impiccare.
«No, quell›uomo che possiede una forza straordinaria non deve morire. Egli mi è troppo necessario e l›ora è giunta per tentare la fuga. La scialuppa a vapore sarà a nostra disposizione. Se tardassimo ancora un mese, i tifoni ed il monsone ci impedirebbero di avventurarci sul mare con qualche probabilità di successo.
«Fra poco Palicur sarà nell›infermeria col dorso sanguinante: e ci sarà anche l’altro. Raggiungiamoli.»
Si levò a sedere, per quanto glielo consentiva la lunghezza della catena, e si mise in ascolto. Non udendo il più lieve rumore, si aprì la camicia e da una cintura di pelle che gli stringeva il torso levò con precauzione una scatoletta di fibre di cocco, contenente otto sigarette ed alcuni zolfanelli.
Le osservò attentamente palpandole più volte, poi disse:
«Sono perfettamente asciutte e si lasceranno fumare. Io coll›itterizia, il macchinista colle guance gonfie, Palicur col groppone rovinato. Chi sospetterà che tre uomini ridotti in tale stato pensino a fuggire? Purché nel frattempo non scoprano il cilindro della macchina! In tal caso tutto sarebbe perduto.»
Accese una sigaretta e si mise a fumarla frettolosamente, poi ne accese un’altra e continuò finché le ebbe quasi tutte consumate.
Aveva appena finito l’ultima, quando fu preso da vomiti violentissimi.
«Ecco l›itterizia che giunge, – disse, sforzandosi di sorridere. – Fra pochi minuti il mio corpo diventerà giallo come quello di un vero malato e il gioco sarà fatto!»
3. Le astuzie dei forzati
Le furberie dei forzati per procurarsi delle malattie artificiali, che li esonerino per qualche tempo dai durissimi lavori dei cantieri, sono tali da far stupire ed essi riescono così bene nella finzione da ingannare i più abili medici. Le frodi tentate dai coscritti per essere dichiarati inabili al servizio militare, sono puerili in confronto a quelle escogitate dai forzati per avere qualche giorno di malattia e venire perciò trattati con un certo riguardo.
Nella loro impazienza di sottrarsi al lavoro che li accascia, i galeotti dei penitenziari hanno tutte le audacie, tutte le furberie. Davanti a quell’idea fissa di riposo, – che i guardiani e i medici chiamano poltroneria, forse ingiustamente, – sparisce perfino la loro sensibilità, e si sono veduti taluni mutilarsi atrocemente, altri provocare e mantenere pazientemente delle malattie per lunghi e lunghi mesi, e anche rovinarsi per sempre.
Quei disgraziati hanno dei segreti che si trasmettono l’uno all’altro e che la sagacia dei medici difficilmente riesce a scoprire.
Una delle malattie preferite dai forzati, perché obbliga gli infermieri a trattenerli a letto parecchie settimane, è appunto l’itterizia. Per simulare o provocare quella malattia, vi sono due mezzi ai quali i galeotti ricorrono indifferentemente.
Il primo consiste nel mettere un po’ di tabacco a macerare in un po’ d’olio di cocco per cinque o sei ore, poi seccarlo e fare delle sigarette aggiungendo al preparato un po’ di fosforo preso dai fiammiferi. Basta fumare sette od otto di quelle sigarette perché apparisca su tutto il corpo la tinta gialla caratteristica degli itterici. Il medico per di più rileva subito anche un certo imbarazzo gastrico con vomiti e febbri e si vede obbligato a mandare il volontario dell’itterizia all’ospedale.
Il secondo mezzo è altrettanto semplice. Il forzato si mette sotto le ascelle un pacchetto di cotone imbevuto di aceto e spolverizzato con un po’ di zafferano, quindi si copre molto per provocare un copioso sudore e dopo due ore prova dapprima un senso di calore nel petto e quindi in tutte le membra; è questo il segno dell’apparizione della tinta itterica che in pochissimo tempo invade tutti i tegumenti e le congiuntive. L’uso quotidiano di quel cotone mantiene poi la pseudo-itterizia, permettendo così all’astuto forzato di prolungare la sua permanenza nell’ospedale.
Ma le malattie artificiali non si limitano alla sola itterizia. Ben altre essi sanno provocarne con dei mezzi sorprendenti che farebbero stupire gli stessi medici se potessero conoscerli.
Alcuni, per esempio, preferiscono la congiuntivite. Per procurarsela spargono della cenere di tabacco nell’interno della palpebra inferiore, oppure fanno molte lavature con acqua saponata. Si sono veduti anzi taluni forzati diventare completamente ciechi facendo troppo uso della cenere di tabacco.
Altri preferiscono la dissenteria e per ottenerla, specialmente i forzati dei penitenziarii della Guiana francese, inghiottono dei semi d’una pianta chiamata dagl’indigeni «panacoco» (hura crepitans) che esercitano una grande azione irritante, maggiore di quella che produce l’olio di croton.
Fu la morte di uno di quei disgraziati a svelare il segreto di quelle dissenterie che colpivano troppo di frequente i galeotti della Guiana e delle isole della Salute, il che diede luogo a provvedimenti proibitivi e severi da parte dei direttori dei penitenziarii, con grande ira dei galeotti che venivano in tal modo privati d’uno dei mezzi migliori e più semplici per darsi ammalati.
Di fianco alle ricette classiche si trovano pure invenzioni straordinarie di certi intellettuali del bagno che hanno trovato nuovi mezzi da aggiungere a quelli già conosciuti dai vecchi forzati.
Un galeotto, per esempio, che era stato studente in medicina, ha utilizzato le sue conoscenze chimiche per insegnare ai suoi compagni di pena il modo di procurarsi con poca spesa un rigonfiamento pronunciatissimo dello stomaco. Per ottenere quella malattia raccoglieva tutte le cannucce delle vecchie pipe che poteva trovare, specialmente di quelle di gesso, le riduceva in polvere e faceva trangugiare al «paziente» un po’ di quella miscela di terracotta e di gesso insieme ad un bicchierino d’aceto. Quegli elementi producevano nello stomaco una grande quantità di acido carbonico che lo dilatava enormemente, simulando così la classica dilatazione di stomaco.
I forzati conoscono anche l’arte di produrre e di mantenere le piaghe, e di dare ad esse un’apparenza orribile. Per giungere a quel risultato sollevano una piega della pelle e l’attraversano con un filo di lana inzuppato di tartaro dentario, avendo però cura di non farlo uscire dall’altra parte. Ciò fatto aspettano la mortificazione del tessuto ed ottengono così una piaga piena di suppurazione.
Perfino il flemmone sono capaci di procurarsi e l’ottengono introducendo profondamente sotto la pelle una sfilacciatura di uno straccio qualunque, un pezzetto d’osso, una mosca o qualche altro insetto. Il forzato sceglie di preferenza la cavità della parte posteriore del ginocchio, dove si trova un grosso strato di tessuto epiteliale, anche perché la guarigione è lunga e difficile e gli promette un riposo di parecchi mesi e anche perché lo esenta talvolta dal lavoro per tutta la vita, manifestandosi non rare volte una anchilosi completa del ginocchio.
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Will, il quartiermastro della Britannia, aveva fumato le sigarette da una mezz’ora, quando il capo sorvegliante rientrò, accompagnato da un uomo vestito di tela bianca, con un elmo pure di tela in testa e alte uose a doppia bottoniera.
Era d’aspetto simpatico, con occhi azzurri, barba e capelli biondi, la pelle assai abbronzata, dovuta probabilmente al lungo soggiorno in quell’isola, così esposta alle furiose raffiche dei monsoni indiani ed ai cocentissimi raggi equatoriali.
«C›è quel forzato che si lagna di essere ammalato, dottore, – disse il capo. – Io già vi prevengo che non gli credo e penso che finga di esserlo per andare a riposare qualche giorno all’infermeria.»
Il quartiermastro si era alzato da sedere; fingendo uno sforzo supremo e mostrando le larghe macchie che imbrattavano il suolo e l’orlo del tavolo, prodotte dal vomito che lo aveva assalito dopo l’ultima sigaretta, disse:
«Ecco le prove se io sono ammalato o no. Vi ho già detto che temevo mi cogliesse l›itterizia. Guardatemi il viso, dottore.»
«Sei giallo come un melone, – rispose il medico. – Non occorre che ti visiti. Passatelo all›infermeria.»
«Andrà a tenere compagnia al malabaro,» disse il capo ridendo, mentre il dottore se ne andava, senza curarsi di dare uno sguardo di più al quartiermastro.
«L›avete battuto quel disgraziato?» chiese Will a denti stretti.
«Perbacco! L›abbiamo fatto cantare meglio d›un pappagallo ammaestrato! Tu, che sei stato marinaio, sai già come accarezza bene le spalle il gatto a nove code e come sa anche adoperarlo quel caro Fok. Ha il polso solido quell’uomo e nessuno può resistere ai suoi colpi.»
«E il Guercio?»
«Non si puniscono gli innocenti.»
«Cioè le spie,» corresse ironicamente il quartiermastro.
«È un›idea tua quella.»
«Tutti sanno che quel cingalese è la spia del bagno.»
Il capo sorvegliante alzò le spalle con fare annoiato, poi disse:
«Su, vieni, se è vero che sei ammalato. Gran buon uomo quel dottore! Io, se fossi al suo posto, ti avrei mandato invece nella foresta a tagliare alberi.»
Will credette opportuno non rispondere.
Il capo gli staccò la catena, poi lo spinse ruvidamente giù dal tavolato, dicendogli:
«Non avrai la pretesa che io ti porti. Avanti!»
Il quartiermastro ebbe un lampo di rivolta dinanzi a tanta brutalità. Lo fissò in faccia, incrociando nello stesso tempo le braccia, poi gli disse con voce sibilante:
«Mi prendi per un indiano tu, Foster? Tu sei un bruto che non sa rispettare la sventura.»
«Non prenderti tanta confidenza, Will, – rispose il capo. – Non ti è permesso darmi del tu.»
«Sono un tuo compatriota.»
«Per me non sei altro che un numero. Basta, cammina o ti farò assaggiare il gatto appena sarai guarito.»
Il quartiermastro con uno sforzo supremo si frenò e uscì lentamente dalla cella, seguito dal capo che teneva in mano l’estremità della catena.
Percorsero un lungo corridoio, dove regnava un calore infernale e salirono una gradinata, sul cui pianerottolo vegliava un guardiano armato di carabina colla baionetta inastata.
«È entrato nessun altro nell›infermeria?» chiese il capo alla sentinella.
«Sì, un altro,» rispose il guardiano.
«Chi?»
«Jody, il macchinista.»
«Anche quello ammalato?»
«È entrato poco fa colle guance così gonfie che mi parevano due zucche.»
«Mi rincresce, perché quello è un buon diavolo.»
Fece aprire la porta e introdusse Will in una vasta stanza, illuminata da una mezza dozzina di finestre munite di doppie inferriate, ed ingombra di lettucci assai bassi, disposti su due linee.
Due teste si alzarono da due letti, guardarono il nuovo arrivato, poi si abbassarono subito scomparendo sotto le lenzuola.
«Va› a coricarti, – disse il capo, spingendo innanzi Will. – Il medico ripasserà appena avrà terminato il pranzo e la partita di whist col governatore.»
Il quartiermastro si diresse verso un letto, si spogliò e si cacciò sotto le coperte fingendosi completamente esausto, mentre il capo rinchiudeva la porta, ripetendo:
«Sarà qui dopo il whist.»
Era appena uscito che si udì una voce dire con accento un po’ beffardo:
«Eccoci finalmente in compagnia. Cerchiamo ora di guarire presto e tutto andrà a meraviglia. Il cilindro è finito?»
Da un letto si era alzata una testa tutta avvolta in pannilini, che mostrava due gote mostruosamente gonfie, colla pelle assai abbronzata e due occhietti nerissimi, vivaci, intelligenti.
«Non sono bello è vero, signor Will!» disse il malato con una risata.
«No, davvero, mio bravo Jody,» rispose il quartiermastro.
«Ah, signor Will, – disse in quell’istante un’altra voce. – Come mi hanno conciato quei cani idrofobi! Mi pare che mi abbiano fracassato perfino le costole.»
Un’altra testa si era alzata da un letto vicino: quella del malabaro. Il disgraziato indiano era completamente trasfigurato ed il suo viso aveva perduto la sua tinta bronzea per assumere un colore grigiastro, il pallore delle razze colorate.
Dovevano averlo orribilmente conciato e certo il suo dorso doveva essere tutta una piaga, poiché il gatto a nove code, usato ancora nel secolo scorso sui vascelli da guerra della marina inglese e nei penitenziari, non è meno terribile dello knut russo.
Si tratta d’una vera frusta formata da nove strisce di corde guernite di piccole palle di piombo, ognuna delle quali traccia, sul dorso del condannato, un vero solco sanguinoso. Cinquanta colpi bastano per produrre la morte, talvolta anche meno; perciò a quelle barbare esecuzioni si usava far assistere un medico, onde le facesse interrompere se la vita del paziente sembrava in pericolo. Ciò però non graziava il poveretto dai colpi che gli erano stati assegnati: si attendeva che le ferite si fossero ben rimarginate per somministrargli i rimanenti.
«Come stai, mio povero Palicur?» chiese il quartiermastro, commosso dalla figura spettrale del malabaro.
«Non bene di certo, signor Will, – rispose il pescatore di perle, sforzandosi di sorridere. – Non mi hanno graziato nemmeno un colpo. Fortunatamente sono robusto e noi indiani abbiamo la pelle un po’ dura.»
«Per quanto ne avrai?»
«Per otto giorni almeno, signor Will.»
«Ti hanno fasciato bene le piaghe?»
«Sì e le hanno anche disinfettate. Ma come vi trovate voi qui?»
«Ho l›itterizia.»
«Vera?»
«Si, come le gote gonfie di Jody,» rispose il quartiermastro.
Il malabaro, che si era un po’ alzato, guardò l’altro ammalato e, nonostante i dolori acuti che lo tormentavano, scoppiò in una risata.
«Anche il mulatto ammalato! – esclamò. – Chi farà funzionare ora la macchina del battello a vapore?»
«Nessuno per ora, – rispose Jody. – Bisogna che attendano la mia guarigione se vorranno servirsene, non essendovi alcuno che possa surrogarmi. La mia malattia non guarirà se non quando voi sarete in piedi.»
«Come hai fatto, Jody, a gonfiare le gote in quel modo? – chiese Will. – Sei mostruoso.»
«Una cosa da nulla, signor Will. Mi sono graffiato profondamente, con uno spillo, le mucose della bocca e da un forzato compiacente mi sono fatto soffiare dentro con una paglia, finché le gote sono diventate grosse come palloni. Tenete bene in mente questa ricetta; potrebbe esservi utile un giorno per farvi mandare all’ospedale.»
«Non ne avremo più bisogno, spero, – disse il quartiermastro, con voce grave. – Tutto è pronto, vero?»
«Non mi trovereste qui, signor Will, se fosse altrimenti. Vi avevo avvertito che mi sarei dato per ammalato appena terminato il cilindro. L’ho finito ieri sera ed avendo saputo poco fa che vi si voleva far provare il gatto a nove code, mi sono prontamente ammalato per essere qui insieme a voi.»
«Ah! Tu credevi che infliggessero anche a me quell›atroce supplizio?»
«Sì, signor Will, avendovi veduto chiudere nella cella assieme a Palicur. Sono lieto che vi abbiano risparmiato.»
«Dunque?» chiese sotto voce il pescatore di perle, che li aveva ascoltati attentamente, cogli occhi ardenti.
«Non aspetto che voi,» disse Jody.
«Sei riuscito a sottrarre dei viveri?» chiese il quartiermastro.
«Sono tre settimane che nascondo un paio di gallette al giorno e che accumulo noci di cocco.»
«Dove?»
«In una cavità della scogliera.»
«E armi?»
«Ho potuto sottrarre un paio di pistole e duecento cartucce dall›armeria, senza che i guardiani se ne siano accorti. D›altronde nessuno avrebbe sospettato di me.»
«Vi è carbone nella scialuppa?»
«Ne avremo per un paio di giorni, signor Will. Poca cosa davvero, che c’impedirà di andare molto lontano, ma ho preparato un albero e nascosto due coperte che ci serviranno da vela.»
«Armerò io la scialuppa e la faremo egualmente filare,» disse il quartiermastro.
«E dove andremo?» chiese Palicur con una certa inquietudine.
«Per me, purché si vada, non m›importa affatto del luogo, – rispose il mulatto. – L›India o la Birmania fa lo stesso.»
«Non temere, Palicur, – disse il quartiermastro, che s›era accorto della profonda angoscia che torturava il cuore del pescatore. – Noi andremo a Ceylon, prima di tutto, se non verremo catturati in alto mare.»
«Vi sono delle isole sul nostro itinerario ed in caso di pericolo ci getteremo alla costa. Io conosco le Nicobar, signor Will, – rispose il malabaro. – Ciò che deve preoccuparci è il modo di potercene andare.»
«Da queste finestre alla spiaggia non vi sono che duecento passi,» disse Jody.
«E quattro sentinelle, mio caro.»
«La sera che voi prenderete il largo esse saranno ubriache, signore. Voi sapete che sono amico di tutti i guardiani e che nella mia qualità di macchinista addetto alla scialuppa del governatore, godo di favori speciali e di una certa libertà, oltre che di una paga che voi non avete e che mi permette di acquistare qualche bottiglia di gin.»
«Sappiamo che tu sei un uomo fortunato.»
«Sì, a paragone degli altri, signor Will, – rispose il mulatto. – Non si tratta quindi, per voi, che di segare un paio di sbarre delle inferriate e di calarvi sul tetto del magazzino che sta sotto di noi.»
«E chi le segherà?»
«Voi, signor Will. Vi ho costruito una macchinetta che taglierà il ferro come se fosse legno e senza produrre rumore; un giocattolo meraviglioso, ve lo assicuro.»
«Se tu sei riuscito a fabbricare il cilindro della macchina, non dubito che tu sia stato capace d’inventare qualche congegno straordinario. Sei un meccanico di prima forza.»
«Bene, grazie! Continuo, – disse il mulatto. – Io sarò sulla riva ad attendervi e v›indicherò il luogo ove dovrete rifugiarvi.»
«E tu?» chiesero ad una voce Will e Palicur.
«Io non posso lasciare subito il penitenziario. Come potrei accendere la macchina senza che i guardiani se ne accorgano? Devo aspettare che il sole sia alzato.»
«È vero, – disse il quartiermastro, dopo un momento di riflessione. – Continua.»
«Se anche mi vedono accendere la macchina di giorno, nessuno se ne preoccuperà, non avendo essa il cilindro che, come sapete, tolgono sempre per paura che io scappi. Appena ho la pressione, metto il mio, corro a raccogliervi e via in alto mare. Ci daranno la caccia, lo so, ma noi saremo lontani allora, forse alla piccola Andamana.»
«Senza di te noi non riusciremo mai a darcela a gambe,» disse Will.
«Ed io senza di voi, signore, finirei chissà dove non essendo mai stato marinaio,» rispose il mulatto.
«Tieni d›occhio il Guercio.»
«Quel maledetto cingalese?»
«Egli deve aver udito qualche cosa di quanto abbiamo detto stamane io e Palicur. Sospetta la nostra fuga, quel cane d›uno spione, e ci sorveglierà strettamente.»
«Mi guarderò da lui, signor Will. lo credo che non dubiti di me almeno finora. Se vorrà poi darmi qualche noia, gli scucirò il ventre con un colpo di coltello.»
«Zitto, – disse il quartiermastro. – Ecco il medico che viene. Cacciamoci sotto le coltri e fingiamo di essere più ammalati di quello che siamo realmente.»