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Kitabı oku: «Le novelle marinaresche di mastro Catrame», sayfa 4

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– Io credo che fossero ghiacci che si capovolgevano; ma i marinai, il cui spavento cresceva di minuto in minuto, sussurravano che erano i morti delle due navi naufragate o i maghi del polo o i re marini.

– Vi confesso che nel vedere quel nebbione diventare sempre più fosco, nell’udire continuamente quei fragori e quegli ululati, cominciavo anch’io a provare qualche cosa di più dell’inquietudine e che certi momenti sentivo il cuore diventarmi piccolo piccolo.

Poco dopo la mezzanotte, ecco apparire improvvisamente, attraverso quel freddo e pesantissimo nebbione, come una luce sanguigna che balenava or qua e or là, diventando talora intensa e talvolta diminuendo bruscamente, come se fosse lì per spegnersi. Cosa era? Io non ve lo saprei dire, quantunque il nostro capitano ci assicurasse che doveva essere un’aurora boreale che appariva al di là del nebbione. Io però stento anche ora a crederlo, poiché, qualunque cosa dicano i signori scienziati, non ho mai veduto un’aurora di quella specie, la quale si muoveva come se avesse indosso la tarantola.

– Ah! papà Catrame! – esclamò il capitano.

– Aspettate, signore, – rispose il mastro serio serio. – Quantunque quella luce color del sangue facesse su tutti noi un certo effetto, non ci spaventammo troppo, essendo sempre assai lontana, o almeno pareva che lo fosse. Ma il brutto venne dopo.

Mi ero recato a poppa per accendere la mia pipa, quando udii un grande chiasso alzarsi a prua, cioè chiasso precisamente no, perché erano grida di terrore.

– «Capitano! capitano!» – gridavano gli uni.

– «Si salvi chi può!» – vociavano gli altri.

– «I leoni!… gli elefanti!… i mostri del mare!…»

– Corsi verso prua e vidi uno spettacolo che mai non scorderò, dovessi vivere per tutta l’eternità.

– Su di una costa dirupata, che la luce misteriosa tingeva pure di rosso, vidi avanzarsi verso il mare un mostro enorme, alto almeno dieci metri, con una coda immensa, la cui estremità spazzava la neve, e una bocca così vasta da mangiare due uomini in un sol boccone. Dietro a quello ne vidi parecchi altri, tutti enormemente grandi, galoppare con balzi giganteschi verso di noi e schierarsi sulla spiaggia. Li contai: erano tredici, notate bene, tredici!

– Eravamo tutti istupiditi dallo spavento, pallidi come cadaveri, coi capelli irti e gli occhi sbarrati e senza voce. Che specie di mostri erano quelli? Erano forse i giganteschi animali che si ritrovano in quasi tutte le leggende dei popoli nordici, oppure d’altra specie e più voraci? Io so che al polo o nelle terre che lo circondano vivono orsi bianchi, lupi, volpi, buoi muschiati; ma ignoravo che vi fossero altri animali, e di quella grandezza poi!…

Il mastro guardò il capitano per vedere quale viso facesse, e noi pure lo guardammo: egli rideva tranquillamente!

– Non mi credete? – chiese il vecchio mastro, lasciando andare un poderoso pugno sull’orlo del barile. – Non ero ubriaco io!…

– Ti credo, papà Catrame, e sono anzi certo che tu hai veduto coi tuoi propri occhi quei mostri: ma continua e lascia che io rida a mio comodo.

– Ventre di foca!…

– Non irritarti, orsaccio; tira innanzi.

– Quegli animalacci si fermarono alcuni minuti sulla sponda, guardandoci e agitando le loro smisurate code, come se si sentissero spinti dal desiderio di gettarsi contro la nave e divorarci tutti, cosa poco difficile davvero per quelle bocche immani; poi, non so se avessero preso paura di qualche nuovo animale più potente o d’altro, fecero un dietro fronte e scomparvero con fantastica rapidità in mezzo alla sanguigna atmosfera.

– Non saprei dire quanto tempo rimanemmo senza essere capaci di pronunciare una sola parola, tanto era lo spavento che ci aveva invasi. Supplicammo il capitano di allontanarsi da quella costa, temendo un improvviso ritorno di quei mostri, assicurandolo che dovevano averceli mandati i maghi che vegliano attorno al polo; ma egli si strinse nelle spalle e minacciò di metterci ai ferri se parlavamo ancora di simili corbellerie!… Corbellerie, le chiamava lui!… Ventre di foca!… Se quegli animali avessero posto piede sul ponte, chi sa che pasto avrebbero fatto di noi tutti. Già, si sa, gl’increduli ci sono sempre stati, e quelli lì non prestano fede alle leggende del mare.

– Ma i maghi del polo non dovevano tardare a dare una smentita a quel signor capitano, dimostrando a fatti la loro esistenza e l’immane loro possa.

– Infatti una mezz’ora più tardi, in mezzo a quella luce che balzava ad ogni istante dal Nord-Ovest al Nord-Est, con delle vibrazioni strane, come se dietro di essa soffiasse un vento impetuoso, ecco apparire improvvisamente due barche immense, lunghe almeno cinquanta metri, montate da due giganti alti più di trenta braccia, i quali tenevano in pugno due smisurati remi a doppia pala. Avevano le membra coperte da lunghi peli, un cappuccio villoso avvolgeva la loro testa e sul dinanzi di quelle barche colossali si ergeva una specie di rampone da balenieri; ma che rampone!… Scommetterei che misurava almeno quaranta metri e che la sola punta pesava un mezzo quintale.

– Si avvicinarono alla nostra nave, che era immobile in mezzo al fitto nebbione, poi si arrestarono a cinque o seicento metri. Si scambiarono dei cenni, additandosi il nostro legno, indi tracciarono nell’aria dei segni misteriosi, e ci gridarono per tre volte, con una voce che pareva il ringhio d’un animale irritato: Tombok! tombok! tombok!…

– Io non so che cosa significassero quelle parole, e nessuno mai lo seppe; ma certo era un ordine perentorio di tornare indietro, se non volevamo seguire sotto i ghiacci eterni dell’oceano polare i disgraziati equipaggi delle due navi comandate dall’ammiraglio inglese.

– Vedendo che la nave non si muoveva e che, allibiti dallo spavento come eravamo, non pronunciavamo parola, alzarono simultaneamente i loro immensi ramponi e diressero le acute punte contro di noi. Guai se li avessero lanciati! Io sono persuaso che avrebbero passato da parte a parte i fianchi corazzati del veliero colla massima facilità.

– Fu quello un terribile momento per tutti noi; eravamo come inchiodati sul ponte e, per quanti sforzi facessimo per fuggire, una mano misteriosa ci tratteneva là, ai nostri posti; volevamo gridare, ma le nostre lingue pareva che fossero ingommate al palato e non emettevano che dei suoni inarticolati.

– Il capitano, che era il solo che non provasse quella strana emozione e quella specie di paralisi che aveva colpito le nostre membra e la nostra lingua, vedendo le minacciose mosse dei due giganti, trasse una pistola e fece fuoco.

– Allora accadde un fenomeno curioso e insieme spaventevole. Il colpo di pistola parve ai nostri orecchi che fosse forte come lo scoppio d’un cannone; i due giganti girarono le barche e scomparvero non so dove, poiché più non si videro; la luce sanguigna si spense di colpo e la nebbia ci avvolse più strettamente come se volesse schiacciare la nave o gravitare tanto su di essa da affondarla. Poi in mezzo a quella gelida tenebrìa udimmo scricchiolii acuti, tonfi, cozzi violenti e fragori sinistri che parevano prodotti da montagne di ghiaccio spaccantisi e capovolgentisi, e il vascello fu sollevato e scosso furiosamente da muggenti ondate, le cui creste spumeggianti rimbalzavano sopra le murate con mille urli.

– Ricorderò sempre quella notte passata fra i ghiacci del polo, in quella regione dei fantasmi e dei mostri; notte fatale, poiché parecchi dei nostri marinai perdettero la vita pochi giorni appresso. Infatti dopo quell’avvertimento il nostro veliero fu preso dai ghiacci, stritolato dalle pressioni che senza dubbio venivano dalle magiche arti di quei due giganti e dei loro tredici animali. Andò a picco durante una notte tempestosa, fra la nebbia e la neve che calavano furiosamente su quelle terre desolate e su quei gelidi mari, e parecchi miei camerati lo seguirono in fondo agli abissi.

– Io sono qui a raccontare quel viaggio disastroso, poiché ebbi la fortuna di venire raccolto l’anno seguente da un baleniere danese sulle sponde del canale di Lancaster; ma quei disgraziati dormono a fianco degli equipaggi dell’infelice ammiraglio, coperti dagli eterni ghiacci dell’oceano polare, dimenticati da tutti. Il mare muggirà sulle loro teste, l’aurora boreale illuminerà la loro umida tomba; ma nessuna creatura vivente mai forse si spingerà fino a quelle alte latitudini, per recare un fiore o spargere una lagrima sulle vittime dei fantasmi polari.

Papà Catrame alzò il capo e, guardando fisso fisso il capitano, disse:

– Ridete ora, voi che a nulla credete!

– Sui disgraziati che il mare travolse nei suoi abissi no, ma sui tuoi mostri e sui tuoi giganti lascia, papà Catrame, che rida.

– Non credete voi dunque alla leggende nordiche?

– No.

– E avete veduto anche voi dei mostri e dei giganti nelle regioni polari?

– Sì, papà Catrame. Dimmi: sai cos’è il miraggio?

– Sì, mi avete detto che fa vedere navi capovolte, città rovesciate, isole che non esistono e…

– Sai come si chiama il miraggio polare?

– Miraggio al polo!… Eh! via, voi scherzate!

– Si chiama rifrazione, e questo fenomeno è più frequente nei climi freddi che in quelli caldi, e ti fa apparire una volpe cinquanta volte più grande, un battello lungo come una corazzata, un uomo alto come lo spettro di Brokken nella Foresta Nera, eccetera. La luce sanguigna era l’aurora boreale, i tredici mostri erano lupi o volpi, i due giganti due poveri esquimesi montati sui loro kayak, ed essi, a loro volta, ingannati dalla rifrazione avevano preso il vostro vascello per una balena immensa o per qualche cosa di simile. Ah! papà Catrame! A quante cose credevano i nostri vecchi marinai!…

Il mastro non rispose. Fece un gesto di commiserazione, scosse più volte il capo, borbottò fra sé non so che cosa e se ne andò senza augurarci la buona notte. Se la paura di passare dritto ai ferri non l’avesse trattenuto, sono certo che avrebbe dato del pazzo all’incredulo capitano.

I fuochi misteriosi

Il giorno seguente l’oceano fu agitatissimo, essendosi levato un vento assai caldo, che veniva dai deserti della costa araba, la quale non distava che poche decine di leghe.

Due volte, durante la giornata, fummo costretti a prendere terzaruoli sulle vele basse, onde diminuire la superficie della tela, e ad imbrogliare i pappafichi e i contropappafichi.

Verso il tramonto però, il vento diminuì sensibilmente, ed anche il mare si calmò un poco, sicché papà Catrame, che senza dubbio aveva molto calcolato su quel cambiamento di tempo, sperando di evitare la sesta novella, di buona o cattiva voglia fu costretto a prendere posto sul barile. Ma quel vecchio orso prima di sciogliere la lingua brontolò assai, perdette un buon quarto d’ora nel caricare la pipa e si soffiò il naso almeno dodici volte e con un tal fracasso da assordarci.

Quando però si fu sfogato a modo suo, mettendo a dura prova la pazienza dell’uditorio, si decise ad aprire la bocca.

– Narrano le leggende… – incominciò.

– Basta di leggende! – esclamò il capitano. – Auff! non la finirai più adunque con quelle vecchie storie?

– Non vi garbano?

– Ne ho le tasche piene, papà Catrame.

Il mastro si mise a sogghignare, ma in certo modo da far rabbrividire tutto l’equipaggio.

– Ah! – esclamò egli, lisciandosi il mento e tirandosi la bianca barba. – Non vogliono udire le antiche leggende? Benissimo… Allora cambieremo rotta e correremo prima un paio di bordate.

Ci guardò poi uno per uno, come volesse prima assicurarsi che c’eravamo tutti, indi ci chiese:

Avete mai veduto voi, durante certe notti, brillare dei fuochi sul mare?…

– Abbiamo veduto il fuoco di sant’Elmo scintillare sulla cima degli alberi, – rispondemmo.

Papà Catrame si strinse nelle spalle, mentre un sorriso beffardo gli spuntava sulle sottili labbra.

– Sant’Elmo e i suoi fuochi non hanno a che fare colla mia domanda. Vi ho chiesto se avete veduto dei fuochi apparire in mezzo alle onde.

– Mi pare di averne veduto uno su di una spiaggia deserta, – disse un timoniere.

– Tu sei un asino; chiudi la bocca e non aprirla se non ti do il permesso. Si dice…

Si fermò per vedere quale faccia avesse il capitano, ma, vedendolo tutto attento, continuò:

– Si dice adunque, e non solo da poco tempo, ma da molti secoli, che su certi mari di quando in quando appariscono, e specialmente di notte, dei fuochi che pare salgano dalla profondità degli oceani e che mandano una luce intensa. Cosa siano, io non ve lo saprei dire; ma si diedero molte spiegazioni più o meno stravaganti, più o meno vere, più o meno paurose. Alcuni dicono che si formano per una combinazione di gas, sviluppatisi da qualche grosso cetaceo galleggiante a fior d’acqua; altri che sono accesi da feroci predatori entro gusci, per attirare le navi contro qualche vicina scogliera e quindi impadronirsi degli avanzi; altri ancora affermano che provengono da vulcani sottomarini; ma i più ritengono che siano segnali misteriosi che fanno i naufraghi del mare per attirare le navi in qualche grave pericolo ed avere nuovi compagni in fondo agli abissi marini, o per salvarle. Credete ora a quella versione che meglio vi piace; a me poco cale, giacché so che non credereste a ciò che io voglio dire in proposito.

– Per Giove! – esclamò il capitano. – Ci vuol poco a indovinare che tu credi alle fiamme dei naufraghi!

– Sì, di quelli morti malamente, – proruppe il mastro con profonda convinzione. – Ma lasciamo là; io credo, mentre voi non credete affatto; ebbene, non se ne parli più e tiriamo innanzi, o, prima che finisca la mia pena, non mi rimarrà un pezzo di lingua.

– La storia che sto per raccontarvi si è svolta appunto nei mari della grande penisola indiana.

– Montavo in quel tempo un vascello olandese, poiché io ebbi sempre la mania di cambiare sovente nave, onde percorrere l’orbe terracqueo in tutti i sensi e apprendere le manovre che sono in uso presso i marinai delle altre nazioni.

– Portava un nome così barbaro che non me lo ricordo più, per quanto abbia messo a prova il mio cervellaccio; ma questa dimenticanza non influisce, né diminuisce l’interesse della mia novella. Vi dirò però che quella nave non godeva la fiducia di nessuno, e che era destinata a finir male.

– Infatti, quando venne varata, tre marinai erano rimasti uccisi, e voi sapete che una nave battezzata col sangue, anziché collo champagne, non porta fortuna; più tardi un piroscafo americano le aveva dato una tale speronata sotto l’anca di babordo, da mandarla a picco in tredici minuti, proprio dinanzi al porto di Rotterdam, e voi non ignorate che una nave rimessa a galla non è mai sicura, poiché si dice che abbia una forte tendenza a ritornare in fondo al mare.

– Saranno ubbie di vecchi marinai superstiziosi, ma io vi dico che quella nave camminava molto male; che quando la si caricava affondava più di tutte le altre; che quando veniva colta da una tempesta, tendeva sempre a precipitare negli avvallamenti delle onde, come se avesse una voglia matta di tornar a riposare in fondo all’oceano, senza occuparsi di quei poveri diavoli che la montavano. E poi, se aveste udito come gemeva! pareva che si lagnasse ad ogni colpo di mare; scricchiolava tutta, i suoi puntelli si piegavano come stuzzicadenti, le sue costole cedevano e si udiva la chiglia torcersi con profondi brontolii. Vi assicuro che la spina dorsale di quella compatriota del vascello fantasma non era gran fatto solida, e tutti noi che la montavamo provammo più volte delle forti paure.

– Aggiungete che a bordo correva una strana diceria, che faceva impallidire tutti gli uomini dell’equipaggio ogni volta che tornava al loro pensiero. Si diceva che un vecchio marinaio che passava per un indovino di prima forza e che aveva assistito all’immersione della nostra nave dopo la speronata dell’americano, aveva fatto un brutto pronostico, cioè aveva detto che sarebbe tornata ad affondare il giorno in cui avesse incontrato uno di quei fuochi misteriosi che sorgono dal fondo dell’oceano.

– Io sarò superstizioso, ma ho sempre creduto che certe navi abbiano una tendenza spiccata a scendere negli strati oscuri del mare e non galleggino che a grande stento. La mia doveva essere una di quelle, tanto più che era stata disgraziata fino dal principio della sua discesa nelle onde.

– Ride qualcuno di voi?… Increduli!… Vi auguro di montare una nave eguale a quella olandese, e vorrei essere presente il giorno in cui vi toccasse la disgrazia che colpi papà Catrame e i suoi compagni. Ora aprite gli orecchi e non fiatate più!

– Malgrado il funebre augurio del vecchio indovino e i grandi difetti della nave, avevamo fatto parecchi viaggi senza che ci toccasse alcun che di grave. Però tutte le notti gli uomini di guardia aguzzavano gli sguardi, temendo sempre di scorgere la fatal fiamma, e ogni volta che scorgevano un punto luminoso, la luce di un faro o il fanale di posizione di qualche nave, trasalivano e correvano a svegliare i compagni, temendo che il nostro legno cominciasse a inabissarsi. Tanta era anzi la certezza di sentirselo mancare sotto i piedi, che alcuni asserivano d’averlo veduto abbassarsi di parecchi pollici nel momento che la suoneria di bordo batteva i dodici tocchi, per poi risalire lentamente al primiero livello, appena i primi albori rischiaravano l’orizzonte.

– Era un vascello stregato? – chiesero alcuni marinai, che si sentivano accapponire la pelle a quel racconto pauroso.

– Che ne so io! – rispose papà Catrame. – Vi dirò che anch’io credetti una volta di sentire la nave abbassarsi lentamente e che, quando rimontò, la vidi tracciare attorno a se stessa un largo cerchio di spuma, precisamente come fanno le balene e i grandi mammiferi marini, allorché salgono alla superficie del mare per respirare…

Papà Catrame s’interruppe per lasciare che la curiosità impressionasse meglio l’uditorio, si bagnò il gorgozzule con un sorso di Cipro, si lisciò per la centesima volta il mento e la barba, – aveva tale manìa quella sera, – poi con un certo accento che fece correre più d’un brivido, riprese il filo della narrazione.

– Avevamo lasciato il Madagascar con un carico d’avorio nero diretti a Calcutta… Ah! voi sbarrate gli occhi e mi guardate come tanti punti ammirativi?… Non sapete dunque cosa sia l’avorio nero? Ecco gli scienziati moderni!… Quell’avorio era composto di schiavi africani destinati alle piantagioni di indaco, essendo allora la tratta permessa, senza che gl’incrociatori delle nazioni europee si immischiassero, come fanno oggi in quel genere speciale di merci viventi. Erano certi pezzi d’uomini alti come i nostri granatieri, con certi muscoli e certi pugni che, se vi davano uno scapaccione, vi mandavano da poppa a prua a baciare il bompresso.

– Quella disgraziata nave aveva preso il largo di mala voglia. Non so cosa avesse, ma camminava più lentamente d’una lumaca; quando eravamo costretti a bordeggiare, si inchinava tanto da far temere che da un istante all’altro si rovesciasse o, come diciamo noi, s’ingavonasse; e quando le onde la scuotevano, s’abbassava pesantemente negli avvallamenti e non voleva saperne di rimontare. Si sarebbe detto che aveva un’anima e che quell’anima aveva giurato di andar a riposare in fondo a quel mare da cui gli uomini l’avevano tratta. Se vi narrassi degli scricchiolii che emetteva e dei fragori che si udivano in fondo alla stiva ad ogni colpo di mare, vi farei rizzare i capelli.

– In certi momenti pareva che qualche mostro battesse sotto la chiglia, come per avvertirla che era tempo di tornare sotto le onde. Ed infatti, specialmente di notte, si udivano dei fragori inesplicabili, che sembravano prodotti da un immane martello. Eppure navigavamo in pieno oceano e la carena né toccava, né urtava contro alcuna scogliera, né sopra alcun banco.

– Eravamo giunti a circa cento leghe dalla foce del Gange, un fiume immenso che solca l’India e sulle cui sponde sorge Calcutta. Bene o male, la nave si era spinta fino a quel punto, ma non pareva disposta a tirare molto innanzi, poiché camminava sempre più lentamente e gli scricchiolii erano diventati così insistenti e così acuti, che c’impedivano perfino di dormire.

– Il capitano, temendo che da un istante all’altro il legno si disarticolasse in causa della cattiva sua costruzione, procedette ad una visita, ma non riscontrò alcuna avaria; solo s’accorse che sotto l’anca di tribordo, e cioè nel punto dove lo sperone del piroscafo americano l’aveva colpita, penetravano poche gocce d’acqua. I puntelli parevano solidi, i corbetti sempre uniti al fasciame, i bagli a posto, le ruote di prua e di poppa salde e il paramezzale appariva dritto, ciò che indicava come la chiglia non avesse ceduto d’un solo centimetro, malgrado i numerosi viaggi che aveva fatto e le non poche tempeste superate.

– Calò la notte, buia come la culatta di un cannone o il fondo d’un barile di catrame, senza luna e senza stelle. Il mare era diventato color dell’inchiostro: però in mezzo alle larghe ondate si scorgevano di tratto in tratto dei fugaci bagliori. Era un principio di quel fenomeno che chiamano fosforescenza marina e che è comune nei mari dei climi caldi, oppure li produceva qualche causa misteriosa? Non ve lo saprei dire.

– Anche il vento quella sera aveva nei suoi fischi un non so che di strano, che faceva su tutti noi una certa impressione.

– Le undici erano suonate da pochi minuti nella cabina del capitano, ed io avevo montato il mio quarto di guardia da poco più di un’ora, quando il timoniere, che stava appoggiato alla ribolla del timone, giacché in quel tempo la ruota ancora non era in uso, mi disse:

– «Catrame, ascolta attentamente».

– Rabbrividii, paventando qualche cosa di sinistro, e tesi gli orecchi.

– Udii distintamente tre forti colpi che venivano dalla carena del legno e che rintronavano nella stiva. Pareva proprio che qualcuno avesse vibrato tre potenti martellate contro la chiglia, e, fossero i miei occhi o la paura o la realtà, vidi la nave trabalzare tre volte e ricadere pesantemente, sollevando una grande onda circolare.

– «Che la nave abbia toccato?» – chiesi sottovoce.

– «È impossibile», – mi rispose il timoniere. – «Siamo ancora lontani dalle coste indiane e, che io sappia, il golfo del Bengala non ha bassifondi».

– «Che i negri vogliano spaventarci?»

– «Va’ a vedere se dormono».

– Feci appello al mio coraggio e scesi nel frapponte.

– Gli schiavi stavano sdraiati uno addosso l’altro e dormivano profondamente, anzi russavano sonoramente come tante grancasse. Risalii in coperta più spaventato di prima e nel momento in cui montavo i due ultimi gradini, udii risuonare nelle profondità del legno altri tre colpi sordi, simili a quelli di prima.

– La cosa cominciava ad impensierirmi: o il legno toccava su qualche bassofondo, o stava per avverarsi la sinistra profezia del vecchio marinaio. Di lì non si poteva scappare.

– Riferii al timoniere quanto avevo veduto e udito. Lo vidi diventare pallido come un morto e farsi il segno della croce.

– «Vedi alcun fuoco apparire sul mare?» – mi chiese balbettando.

– Girai gli occhi in tutte le direzioni, ma era buio; anche quei misteriosi bagliori che poco prima si scorgevano attorno alla nave, erano scomparsi.

– Trascorse un’altra mezz’ora fra la più viva ansietà per tutti noi, ed i misteriosi rumori non si ripeterono. Però la nave scricchiolava più di prima, e ai nostri orecchi giungeva una specie di gorgoglio, che pareva prodotto da una fuga d’acqua. Non ci facemmo gran caso, credendo che fossero le onde che s’infrangessero contro la prua.

– Ad un tratto ecco risuonare distintamente i tre colpi di prima; ma questa volta erano così potenti che tutti gli uomini di quarto li udirono.

– Non saprei descrivervi il terrore che s’impadronì di tutti noi, in quel terribile momento. Se fosse apparso dinanzi alla prua della stregata nave un mostro spaventevole, non avremmo provato un’emozione così forte, poiché un certo coraggio tutti l’avevamo; ma quell’inesplicabile mistero ci faceva agghiacciare il sangue e rizzare i capelli.

– D’improvviso un grido immenso echeggiò a prua, ma un grido di terrore e di disperazione. Guardai: là, sulla oscura linea dell’orizzonte, una grande fiamma d’una limpidezza ammirabile, che spandeva sul mare circostante una viva luce, brillava. Era una fiamma perfettamente immobile, tranquilla, più larga che lunga, ma che nel mezzo formava tre punte acute.

– Eravamo perduti: la sinistra profezia del vecchio marinaio olandese si avverava!…

– Quasi nel medesimo tempo udimmo sorgere dal frapponte urla terribili. Gli schiavi sentivano per istinto che la loro ultima ora era suonata, o scorgevano anch’essi, attraverso alle pareti della nave, la misteriosa fiamma?

– Pazzi di terrore, ci eravamo aggruppati tutti a prua, e guardavamo sempre quella luce. Una forza inesplicabile ci teneva come inchiodati sul ponte, e ci sentivamo affascinati da quel bagliore che rischiarava il lontano orizzonte, nell’egual modo dell’uccello che si sente affascinare dagli occhi del serpente.

– Una voce ci strappò da quella immobilità strana:

– «Si salvi chi può!… la nave affonda!…»

– Era stato il capitano a gettare quel grido d’allarme. Ci curvammo sui bordi e vedemmo che la nave affondava lentamente con un largo dondolìo. In un baleno calammo in acqua i canotti. Nel momento di entrarvi udimmo i poveri negri mandare grida strazianti. Essi pure si erano accorti che il vascello andava a picco.

– Seguito da alcuni coraggiosi compagni, scesi nel frapponte e tentai di spezzare le catene che stringevano quei disgraziati, ma il tempo mancava.

– La nave oscillava fortemente, scricchiolava sinistramente, fremeva tutta, e giù nella cala si udivano i muggiti delle acque irrompenti nella stiva e l’urtarsi dei legnami galleggianti.

– Fuggii in coperta assieme a coloro che mi avevano seguito. Balzai nel canotto ormeggiato sotto la poppa e ci allontanammo colla massima celerità, onde non venire travolti e inghiottiti dal gorgo.

– La nave affondava lentamente, ma irresistibilmente, come se fosse attratta in fondo al mare da una forza misteriosa. Girava su di se stessa come si trovasse in mezzo di un vortice; dal frapponte si elevavano urla d’angoscia emesse dai poveri negri, i quali vedevano montare l’acqua senza poterla evitare perché trattenuti dalle catene e si sentivano a poco a poco affogare; gli alberi oscillavano come se fossero lì lì per spezzarsi o cadere in coperta con tutta l’attrezzatura, e dal fondo del legno provenivano di quando in quando dei colpi sordi, prolungati, che si ripetevano nei nostri cuori, mentre all’orizzonte brillava più limpida che mai la grande fiamma!…

– Ad un tratto una sorda detonazione rintronò nella profondità del vascello e il ponte, sotto la spinta dell’aria interna, compressa dal montare continuo dell’acqua, saltò in aria come sotto la spinta d’una polveriera che scoppia. Allora il legno affondò rapidamente: sparvero le sue murate, i primi pennoni, poi i secondi, i terzi, gli ultimi, e finalmente le punte degli alberetti.

– Per alcuni istanti udimmo risuonare sotto le acque le urla del nostro carico vivente, poi un’onda, una specie di muraglia liquida, si distese muggendo sul mare e la nave stregata scese in fondo agli immensi e tenebrosi abissi del golfo del Bengala.

– Quasi subito la fiamma che brillava all’orizzonte si spense, e ci trovammo avvolti nella più profonda oscurità.

– Guardai l’orologio: erano le tre del mattino meno sei minuti. Rabbrividii: proprio in quell’ora, due anni prima, quella nave era calata in mare sotto la speronata del piroscafo americano!…

– Due ore dopo le nostre scialuppe approdavano a Sangor, la prima isola che s’incontra alla foce del Gange. Prima di sbarcare guardammo verso il Sud: il mare era deserto e ancora tenebroso e la fiamma non era più riapparsa. La profezia del vecchio olandese si era avverata!…

Mastro Catrame scosse il capo e parve immergersi in profondi pensieri. Un funebre silenzio seguì quella paurosa narrazione; eravamo tutti vivamente impressionati e i nostri occhi scorrevano il mare indiano, temendo di scorgere ad ogni istante quella misteriosa fiamma. Anche il capitano taceva.

Mastro Catrame stette alcuni minuti raccolto, poi, alzando lentamente il capo e fissando il capitano, gli chiese:

– Non ridete ora?

Guardammo l’interrogato: aveva il capo chino sul petto, le braccia strettamente incrociate, e pareva che facesse uno sforzo straordinario per sciogliere quell’enigma.

– Non ridete? – ripeté il vecchio.

Nemmeno questa volta il capitano rispose; egli pensava sempre.

Un sorriso di trionfo apparve sulle labbra di papà Catrame. Scese dal barile, si mise sotto il braccio la sua bottiglia semivuota e se n’andò senza guardarci.

Ma mentre scendeva la scala che metteva nella stiva, udivamo risuonare, ad intervalli, il suo riso beffardo.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
140 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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