Kitabı oku: «Le novelle marinaresche di mastro Catrame», sayfa 5
Il vascello dei topi
Fosse la paura che a poco a poco aveva invaso il nostro equipaggio, fosse perché navigavamo su quel mare sotto le cui onde riposava il vascello stregato, o il riso schernevole del vecchio mastro che risuonava ancora nei nostri orecchi, o il cambiamento operatosi nel nostro capitano di solito così scettico e che rideva ad ogni chiusa di quelle novelle, o qualche altra cosa, quella notte a bordo del nostro veliero regnò come una specie di terrore.
Gli uomini di guardia pareva che fossero diventati muti: guardavano ansiosamente l’oscura distesa d’acqua, temendo sempre la comparsa di quella fiamma dalla luce limpida e tranquilla; trasalivano ogni volta che la nave, nel sormontare le larghe ondate dell’oceano, vibrava e scricchiolava, credendo di udire i tre colpi misteriosi, e guardavano sovente i fianchi, paventando di vederli a poco a poco discendere nei profondi abissi.
Due volte, nel momento del cambiamento della guardia, papà Catrame mostrò il suo grigio capo a livello del boccaporto, facendo udire quel suo riso beffardo che faceva rabbrividire, perché pareva il riso d’un uomo che torna dall’altro mondo.
Durante il giorno però non si fece vivo e, cosa insolita, nemmeno il capitano lasciò la sua cabina, né al mezzodì salì in coperta per rilevare il punto. Pensava egli alla novella del vecchio? Oppure era rimasto tanto profondamente impressionato, da temere l’incontro di quel funebre narratore, lui che spiegava ogni fenomeno e che rideva sempre?
Aspettammo con viva curiosità la sera. Appena il sole apparve tuffarsi nelle onde dell’oceano, papà Catrame salì tranquillamente in coperta e andò a prendere il solito posto. Sorrideva ancora, e i suoi occhietti grigi brillavano d’una fiamma maligna.
Quando l’equipaggio lo vide, si ritirò da una parte come se fosse apparso uno spettro e si rifugiò a prua e a poppa. Quella sera egli poteva ritornare comodamente nella sua cala, poiché nessuno sarebbe andato a udire la sua settima novella.
Egli non parve inquietarsi menomamente dell’assenza dei suoi uditori. Aspettò pazientemente un quarto d’ora, fumando un Manilla, poi andò in cerca di una striscia di carta, vi tracciò sopra qualche cosa e, come l’altra volta, appiccicò quello strano avviso sull’albero di trinchetto.
Per qualche po’ nessuno osò appressarsi, credendo di leggere chissà quale funebre titolo; ma a poco a poco la curiosità vinse tutti, e ci avvicinammo. Un allegro scroscio di risa uscì da tutte le bocche.
– «Il vascello dei topi»!… – esclamarono.
– Cosa mai sarà?…
– Che i topi abbiano mangiato qualche spirito del mare?
– Che papà Catrame abbia perduto un pezzo di orecchio?
– Andiamo a udirlo!…
L’intero equipaggio accorse in massa, circondando papà Catrame e il suo barile. In quel momento più nessuno pensava alla fiamma misteriosa e alla tetra profezia del vecchio olandese.
Il mastro, quando ci vide seduti, si mise a ridere, mostrando i suoi lunghi denti.
– Ah! siete qui, ragazzacci! – esclamò. – Lo sapevo che il titolo vi avrebbe fatto accorrere.
– Ma basta colle storie funebri!… – esclamarono tutti.
– Silenzio! – tuonò papà Catrame. – Questa sera voglio farvi ridere.
– Viva papà Catrame!…
– Tappate le, bocche! Non è permesso emettere di queste grida, che possono venire interpretate come un segno di rivolta contro le autorità di bordo, – disse il mastro fra il serio e il burlesco. – Ora vi narrerò come l’ex re dei selvaggi sia diventato un domatore di topi. Ma.... prima di tutto, credete voi all’istinto di quei piccoli roditori?
Stavamo per rispondere, quando dietro di noi udimmo una voce esclamare:
– Un momento, papà Catrame!…
Ci voltammo come un solo uomo e ci trovammo dinanzi il capitano che si era avvicinato senza che nessuno lo udisse. Il vecchio mastro a quella vista sussultò, e la sua fronte si coprì di rughe grosse quanto un dito mignolo.
Cosa stava per succedere?
– Un momento, – ripeté il capitano, – poi continuerai la tua settima novella. Ritorniamo per un po’ alla nave stregata e alla fiamma misteriosa.
Il viso di papà Catrame si fece oscuro.
Dimmi, vecchio mio, – riprese il comandante: – a quale distanza dalla foce del Gange la nave olandese andò a picco?
– A sedici o diciotto nodi, – rispose il mastro.
– E tu credi che quella fiamma avesse un’origine misteriosa! – esclamò il capitano, scoppiando in una risata. – Ignori tu dunque che gl’indiani affidano i cadaveri dei loro cari alla corrente del Gange, convinti che il sacro fiume li conduca direttamente in Cielo, e che quei cadaveri si accumulano dinanzi alle coste?
– Ebbene? – chiese il mastro con voce appena distinta.
– Ho spiegato l’enigma e anche questa volta smentirò la tua poco allegra leggenda. Il fuoco che voi avete veduto non aveva origini misteriose, ma proveniva dai gas sprigionatisi dalla massa dei cadaveri, gas che nei climi caldi molto facilmente si accendono. Forse anche tu hai osservato più volte questo fenomeno nei nostri cimiteri, durante le calde sere d’estate.
– I colpi d’origine misteriosa che voi udivate, erano prodotti dalle onde che battevano contro la chiglia e i fianchi del vascello, il quale forse era stato costruito con legnami eccessivamente sonori, oppure le ondate si ripercuotevano nella stiva in causa della sua speciale costruzione, cosa che non mi sorprende, avendo gli olandesi dei legni di forme diverse dai nostri.
– Infine il legno non andò a picco per magiche arti, né per la profezia del vecchio olandese, ma in causa della falla dell’americano, riapertasi, nel momento in cui s’accendevano i gas sprigionatisi dai cadaveri che il Gange aveva spinto in mare. Ora dammi pure dell’incredulo; ma per me l’enigma è spiegato. Continua intanto la tua storia, e ridiamo un po’!…
Papà Catrame pareva fulminato. Egli rimase parecchi minuti immobile, cogli occhi fissi sul capitano, più pallido di un morto, poi lanciò uno sguardo pauroso sul mare, da levante ad occidente, finalmente scosse il capo, borbottando a più riprese: – Increduli!… increduli!…
Incrociò le braccia sul petto e non parlò più.
Aspettammo: sembrava che egli avesse dimenticati i suoi topi. Pensava forse alla incredulità di certa gente? Io lo sospetto.
– Ebbene, papà Catrame, ti sei addormentato sulla tua fiamma o in mezzo ai tuoi topi? – chiese lo spietato comandante. – Sono dieci minuti che attendiamo il principio della settima novella.
Il vecchio mastro emise un sospirone che veniva proprio dal profondo del cuore, fece un gesto di cui non riuscimmo ad afferrare il significato, poi cominciò la sua storia.
– A parecchi di voi sarà toccato, e non una, ma più volte, di imbarcarsi su vascelli popolati da legioni di topi; ma certo non vi sarà accaduto di vederne tanti quanti ne ho trovati io su di un vecchio legno norvegiano. Voi sapete che i topi che s’imbarcano, facendosi trasportare gratuitamente da un punto all’altro del nostro globo e vivendo alle spalle del cuciniere di bordo, per lo più appartengono alla specie norvegiana, razza immensamente prolifica, più robusta di quella comune e di una voracità veramente spaventevole.
– Quando prendono posto sul legno, nessuno lo sa; ma un bel giorno, quando meno lo sospettate, li vedete comparire tra le fessure della stiva e due o tre mesi dopo ne vedete cento, poi mille, poi dei reggimenti interi.
– Io dunque mi ero ingaggiato a bordo d’un veliero norvegiano, un legno vecchio quanto l’arca di Noè, tutto sdruscito per i lunghi viaggi, colla chiglia gobba e che a prima vista s’indovinava dover essere una vera topaia. Essendo io rimasto a terra nel porto di Stavanger e avendo dato rapidamente fondo ai miei magri risparmi, presi senza esitare imbarco, colla speranza di trovare posto su un vascello un po’ più giovane e più solido in qualche porto più fortunato.
– Eccoci adunque in pieno mare con un carico di legnami destinato ai porti islandesi e un ventina di quintali di formaggi affidatici da non so quale negoziante danese. Bella fortuna doveva toccare a quel povero diavolo! Anche senza fare naufragio, il carico sarebbe giunto a destinazione con una grande breccia, ve l’assicuro io. Ma non per conto nostro, veh! Oibò, eravamo galantuomini noi; non così però i passeggeri gratuiti che scorrazzavano la stiva, infischiandosi di noi e delle nostre trappole.
– Non essendovi posto nella camera comune dell’equipaggio, ed amando io rimaner solo, avevo steso la mia branda in una piccola cabina, cioè in un buco, dove non potevo stare in piedi, tanto era bassa. Mi ricordo che si trovava sotto la dispensa.
– Finito il mio quarto di guardia della mezzanotte, mi ritirai colla certezza di dormire come un ghiro. Ero tanto stanco che appena sdraiato chiusi gli occhi, russando fortemente. Ma un concerto strano, di cui non riuscii a spiegare la causa sulle prime, mi svegliò ben presto. Erano grida, anzi strida, così acute da trapassarmi i timpani degli orecchi.
– Mi alzo a sedere, accendo uno zolfanello e guardo. Corbezzoli!… Che spettacolo!… Il mio nido brulicava di topi d’ogni età e grandezza, topi vecchi coi denti lunghi e gialli e certi baffi grigi da fare invidia a un veterano della guardia napoleonica, topi adulti, topi piccoli, maschi e femmine, che battagliavano ferocemente per disputarsi un buco che metteva nella dispensa.
– Venivano su dalla stiva a colonne, a battaglioni, a reggimenti, con un gridio assordante, accalcandosi in quello stretto spazio e montandosi gli uni addosso agli altri.
– Io non ho mai avuto paura dei topi; ma vi assicuro che nel vedere quell’esercito che pareva non finisse più, mi sentii correre un non so che sotto la pelle.
– Mi levai le scarpe e le scagliai in mezzo all’orda. Credete che fuggissero? Mai più; anzi, tutt’altro! Quelle canaglie s’accorsero che nella branda vi era della carne fresca da rosicchiare, ed ecco i più vecchi e più audaci arrampicarsi su per le pareti, correre sul soffitto e piombarmi addosso.
– Non volli saperne di più. Diedi un calcio alla branda e fuggii in coperta, inseguito da sette od otto dei più voraci che tentavano di mordermi i polpacci.
Andai a lagnarmi cogli uomini di quarto, ma essi mi risero sul muso. Quei bravi norvegiani trovarono cosa naturalissima che un vecchio bastimento del loro paese pullulasse di quegli amabili compagni! Cosa importava loro se una brutta notte rosicchiavano l’orecchio a qualche uomo addormentato, o facevano dei formidabili vuoti nella dispensa del cuoco? Bah! erano inezie, quelle!
– Se però la pensavano così quei flemmatici camerati, papà Catrame ci teneva assai ai suoi orecchi, e giurai di non tornare più in quel brutto covo di roditori.
– Malgrado il freddo acuto che si faceva sentire, mi decisi di dormire in coperta, sotto una vela; ma, lo credereste? nemmeno là ero al sicuro dalla voracità di quei mostri.
– Dal mio nascondiglio vedevo bande di roditori correre per la coperta, saltellare fra le gambe degli uomini di quarto, che non s’incomodavano punto a levare i talloni per schiacciarne qualcuno, salire sugli alberi, arrampicarsi sulle sartie, e abbasso e in alto si udivano acute strida.
– Io sono certo che, se noi tutti avessimo abbandonato quel legno, i topi non si sarebbero trovati imbarazzati a guidarlo. Ventre di foca!… Come sarebbe stato bello l’incontro d’un vascello con un equipaggio di rosicchianti!…
– Ma bando agli scherzi e tiriamo innanzi. L’audacia di quei mostri cresceva di giorno in giorno, al punto di essere un vero pericolo non solo per me, ma per tutti. Avevano invaso le cabine di poppa e la camera comune dei marinai, rosicchiando i materassi e le coperte, cacciandosi nelle casse, dove facevano una vera rovina di vestiti, penetrando nella dispensa del cuciniere, e quivi divorando prosciutti, formaggi, salami, quanto insomma vi era di buono.
– In capo a una settimana un marinaio aveva perduto mezzo orecchio, un altro un pezzo di naso e i baffi, un terzo un mezzo dito del piede destro; nella dispensa non si trovava più una briciola di salumeria, ed io avevo perduto tre paia di scarpe, divorate in una sola notte da sei topi grigi, grossi come gatti, i quali fuggirono a tutte gambe, mandando delle allegre strida, quando apersi la mia cassa per constatare il danno.
– Dovetti sborsare tre lire e quarantadue centesimi ed un pacco di tabacco, se volli procurarmene un altro paio: ma erano così immense che i miei piedi vi si perdevano; e si che ho certe basi da far concorrenza ad un elefante. Di fronte a simili disastri e a tanti orecchi rosicchiati, il flemmatico equipaggio cominciò a scuotersi e il capitano, che ci teneva un po’ al suo naso, ch’era il più lungo di tutti, ordinò una battuta generale, la quale costò al nemico la perdita di undici giovani reclute e di un vecchio generale, trovato dentro la dispensa, nel ventre di una scatola di tonno: il ghiotto ne aveva mangiato tanto da non essere più in grado di balzare fuori. Vedemmo poi che i formaggi di quel disgraziato negoziante danese erano scemati della metà e ridotti in uno stato tale, che il capitano credette di metterli a disposizione dell’equipaggio, il quale, ve lo assicuro, gradì il dono col massimo piacere, anzi gli fece tanto onore che due settimane dopo tutti quegli uomini parevano balbuzienti.
– Quella vittoria non soddisfece nessuno, tanto più che la notte stessa altri due uomini perdevano mezzo naso e scomparivano dodici paia di scarpe. Se la continuava di quel passo fra breve a bordo non doveva rimanere più un uomo col naso intatto e, per colmo di disgrazia, nemmeno una scarpa! Eppure cominciava a fare un tal freddo da rendere pericolosa la mancanza degli stivali, ed i piedi gelavano… e come!…
– Dopo una penosa navigazione il nostro vecchio legno era giunto all’altezza delle Faeröer, gruppo d’isole che si trova a circa mezza via fra le coste settentrionali della Scozia e quelle meridionali dell’Islanda, quando fummo assaliti da un orribile tempaccio che mise in subbuglio il mare e il cielo.
– Il nostro disgraziato legno rollava e beccheggiava disperatamente, e i suoi fianchi rattoppati si curvavano sotto l’impeto crescente delle onde.
– Io cominciavo a vedermela un po’ brutta, perché temevo che quella vecchia carcassa da un momento all’altro si spezzasse in due e la prua fuggisse lasciando lì la poppa. Mi rassicurai però, pensando che la nave era carica di legname e che le tavole di salvezza, in caso disperato, non mancavano.
– Era calata la notte e il vento del Nord soffiava con estrema violenza sbrindellandoci le vele, quando vedemmo uscire dal boccaporto di maestra una massa nerastra che si stendeva pel ponte con rapidità straordinaria.
– Sorpresi e un po’ spaventati, ci avvicinammo per vedere con quale specie di animali avevamo da fare. Immaginate quale fu il nostro terrore nello scorgere che da quell’apertura uscivano a migliaia e migliaia i topi della stiva. Volgemmo i talloni più presto che ve lo possiate immaginare e ci salvammo a prua e a poppa, armandoci di traverse, di aspe e di manovelle per combattere quel nuovo pericolo, che poteva essere più grave e più minaccioso dell’uragano.
– Quella strana emigrazione pareva che non finisse più. Il boccaporto vomitava come un vulcano in piena eruzione; uscivano topi d’ogni razza e grossezza, con mille strida, e invadevano il ponte da una estremità all’altra, arrampicandosi su per gli alberi, su pei pennoni, su per i cordami.
– In un quarto d’ora non vi era più uno spazio libero in coperta, eccettuati il cassero e il castello di prua, dove noi ci tenevamo, respingendo furiosamente quelle orde divoratrici a colpi di spranga e di manovella.
– Pareva che non uscissero dalla nave, ma dalle viscere della terra tanti e tanti erano. Io credo di essere al disotto del vero nello stimarne il numero a trecentomila. Mi capite! trecentomila topi, tutti affamati e che contavano di mangiarci vivi e ripulire le nostre ossa meglio d’un preparatore anatomico!
– Bella prospettiva avevamo dinanzi agli occhi! L’uragano infuriava sempre, mettendo sottosopra il mare, il quale ci assaliva da tutte le parti, smanioso di sfondare la nostra arca di Noè; gli alberi minacciavano di piombarci sul capo assieme ai pennoni, e il ponte era coperto di topi, pronti a darci addosso e intaccare i nostri polpacci! In quel momento avrei dato la vecchia mia pelle per una pipata di tabacco.
– La nostra paura però fu di breve durata, poiché il temuto assalto dei famelici roditori, almeno pel momento, non si effettuò. Pareva anzi che fossero spaventati e che cercassero la nostra compagnia senza intenzioni ostili. Di essi quelli che erano riusciti ad arrampicarsi sul castello di prua, dove io mi trovavo, invece di morderci, si nascondevano fra le nostre gambe e stavano quieti.
– Ora, che mai li aveva costretti a invadere la coperta del vascello? Io cominciai a diventare inquieto, sapendo che quello non era l’istinto delle detestate bestiacce. Certo qualche pericolo ci minacciava e i roditori lo sentivano: in caso diverso non avrebbero abbandonata la stiva dove potevano godere quasi completa sicurezza.
– Voi ridete!… Si vedrà fra poco se io avevo ragione o torto di pensarla così…
Papà Catrame si fermò, lasciandoci ridere a nostro bell’agio, si stropicciò le mani con una certa contentezza, accese un altro mozzicone di sigaro, poi continuò:
– Benché la nostra nave non fosse governata, e nessuno osasse scendere in coperta, dove i topi continuavano ad ammucchiarsi, battagliando ferocemente, teneva bene il mare e pareva che non corresse un immediato pericolo. Scricchiolava dalla ruota di prua a quella di poppa, dalla chiglia alla coperta, si sollevava penosamente sulle onde, ma teneva fronte all’uragano colle malferme costole ed i molti suoi anni.
– Due ore dopo, però, vedemmo irrompere dal boccaporto altri battaglioni di topi, forse gli ultimi, i quali si rovesciarono confusamente addosso ai compagni. Erano i più giovani forse e meno esperti, che avevano preferito saccheggiare ancora una volta la nostra disgraziata dispensa prima di abbandonare la stiva. Quasi contemporaneamente giunse ai nostri orecchi un sordo muggito che ci fece impallidire, come Macbeth dinanzi all’ombra di Banco.
– Ohè, papà Catrame, che sfoggio d’erudizione! – esclamò il capitano. – Anche delle tragedie tiri in campo, per abbellire i tuoi racconti!
– Credete forse che non conosca Macbeth? – disse il mastro, un po’ risentito. – Ho alzato per quindici sere il telone quando si recitava a bordo del Fox, onde ingannare l’inverno fra i ghiacci della baia di Melville.
– Bella carica, perbacco!… – esclamò il comandante, ridendo a crepapelle.
– Si fa quello che si può, – rispose modestamente il mastro. – Ma lasciatemi finire la storia o questa notte non dormirà nessuno. Sono rimasto… Va bene: quando udimmo un muggito che ci fece impallidire.
– Dapprima non sapemmo a che cosa attribuirlo; ma ascoltando con profonda attenzione, ci accorgemmo che proveniva da una fuga d’acqua. La vecchia nave aveva ceduto in qualche punto e beveva allegramente, riempiendosi come un otre.
– I topi, quei furboni, guidati dal loro meraviglioso istinto, avevano previsto il disastro e si erano rifugiati per tempo in coperta, onde non annegare.
– A bordo del povero legno non tardò a subentrare la paura e la confusione. Quei pacifici norvegiani cominciavano a perdere la testa e mi parevano tutti ubriachi o pazzi.
– Correvano da una parte all’altra, affollandosi presso le scialuppe, onde essere pronti a imbarcarsi nel momento in cui la nave avesse dato l’ultimo addio alle stelle e al sole, e battagliavano ferocemente colla moltitudine dei topi, tentando di respingerli nella stiva, ma senza però ottenere verun risultato, poiché i rosicchianti rispondevano con pari ferocia, mordendo spietatamente i talloni e i polpacci dei nemici.
– Io non mi davo grande pensiero, essendo certo che il vascello non sarebbe affondato con tutto quel carico di legname che aveva in corpo e che le onde presto o tardi avrebbero spazzato via quei reggimenti di molesti roditori.
– Alle undici di sera il veliero era immerso fino alle murate e le onde balzavano furiosamente in coperta, portando via i piccoli mostri a centinaia; ma ne restavano sempre. Alla mezzanotte caddero i due alberi trascinando con loro tutta l’attrezzatura; ed il vecchio legno, quantunque fosse quasi tutto sommerso, galleggiava sempre.
– Verso le due, vinto dal sonno e dalla stanchezza, mi cacciai dietro una botte, mi copersi alla meglio con un velaccio e, malgrado il pericolo che si faceva di momento in momento più grave e l’invasione dei topi che si rifugiavano sul cassero e sul castello di prua per non lasciarsi portare via dalle onde, m’addormentai.
– Quanto dormii? Nol seppi mai, perché quando riapersi gli occhi era ancora notte e l’equipaggio norvegiano era scomparso!… Senza dubbio, nel timore che il legno affondasse da un istante all’altro, avevano messo in mare le imbarcazioni ed erano fuggiti senza prendersi la briga di cercarmi. Non mi spaventai troppo, quantunque la mia situazione non fosse molto brillante. Checché succedesse, ero più contento di trovarmi a bordo della mia carcassa che sulle imbarcazioni, con un tempaccio così orribile.
– Il mare era sempre cattivo e pareva che non dovesse calmarsi tanto presto; la nave, immersa fino alla linea della coperta, galleggiava sempre, meglio anzi di prima, e non vi era alcun pericolo finché non si spezzava; i topi si trovavano aggruppati a migliaia intorno a me, ma pel momento pareva che non avessero idee bellicose. E più tardi? Ecco quello che mi chiedevo con insistenza, giacché la fame non doveva tardare a spingere quei reggimenti contro le mie gambe.
– Mi decisi di non perdere tempo, onde trovarmi pronto a lasciare il legno appena il mare me lo avesse permesso. Innalzai una preghiera a Dio, mi armai di una scure e in meno di un’ora costruii una piccola zattera, capace di sostenermi, e mi vi coricai sopra, in mezzo a una banda di topi d’ogni età, che forse avevano l’intenzione di tenermi poco allegra compagnia.
– Spuntò il giorno, il mare non si calmò; cadde la notte e divenne più cattivo, anzi tanto che certi momenti non sapevo più se la nave galleggiasse ancora o fosse andata a picco, tante erano le onde che la coprivano.
– Come se questo non bastasse, ecco la fame spingere addosso a me i miei compagni di naufragio. Pareva che si fossero passati la parola d’ordine, poiché tutto d’un tratto li vidi serrare le file e scagliarsi contro le mie gambe con furore senza pari.
– Balzai in piedi brandendo la scure e mi posi a picchiare con rabbia estrema a destra e a sinistra, dinanzi e di dietro, saltando or sull’una e or sull’altra gamba per schiacciare quanti più potevo di quei maledetti. Ma la marea montava: ai battaglioni succedevano i battaglioni, ai reggimenti i reggimenti, e questi più affamati di quelli. Avevano giurato di spolparmi fino all’ultimo osso.
– Fortunatamente le onde si rovesciavano ad ogni istante sul povero legno e spazzavano via centinaia di assalitori; ma non bastava. Sentivo quei mostri corrermi su per le gambe, cacciarsi nella mia casacca, balzarmi sulle spalle e mordermi gli orecchi.
– Mi credetti perduto!…
– Proprio in quel momento Dio ebbe compassione della pelle di papà Catrame, poiché un’onda gigantesca spazzò la prua della nave e mi portò via assieme alla zattera. Ebbi appena il tempo di aggrapparmi ai cordami che legavano le tavole, e mi trovai in mezzo al mare.
– Per due giorni lottai fra la vita e la morte, ma finalmente l’uragano cessò e il mare divenne tranquillo. Dove ero? Io lo ignoravo. Se una nave tardava a venire in mio aiuto, non so come sarebbe finita, non avendo meco nemmeno una briciola di pane. Mi sento fremere tutte le volte che penso a quel momento.
– Ma non avevate preso qualche pezzo di stoccafisso? – chiese un gabbiere.
– O una dozzina di biscotti? – chiese un altro.
– No. In una tasca però trovai un topo dal pelame quasi bianco, tanto era vecchio, con due baffi più lunghi di quelli del capitano Baffone, che forse voi tutti avrete conosciuto o almeno udito nominare; in un’altra un simpatico di lui figlio, con due occhietti intelligenti; nella terza una femmina con due poppanti topolini! Nonno, padre, madre e figli! una famiglia intera che contava di spassarsela nel fondo delle mie saccocce.
– Un altro li avrebbe afferrati per la coda e gettati in mare, ma io no; li presi delicatamente per gli orecchi e li deposi sulla mia zattera. Non si sa mai! Nella condizione in cui mi trovavo, cogli intestini che brontolavano per la fame, quella famigliola poteva servirmi a qualche cosa. Che diamine! Non sono mai stato uno schizzinoso, io!
– Eppure, guardate che originale è papà Catrame! Dopo quattro ore mi ero tanto affezionato ai miei compagni di sventura, che ci avrei pensato quattordici volte prima di immolarli al mio ventricolo. Prendevo gusto a vederli saltellare per la piccola zattera ed arrampicarsi su per le mie gambe, emettendo strilli di contentezza. Perfino il vecchio nonno, che dapprima si era dimostrato molto diffidente a mio riguardo, si degnava di venire ad accoccolarsi sulle mie scarpe, per rosicchiare le suole.
– La famiglia non era però completa. Frugando nelle mie tasche trovai un altro giovane rampollo, un topolino grosso come una nocciola, che si era nascosto nella mia pipa. Mi accorsi della sua presenza quando stavo per accenderla e poco mancò che il disgraziato piccino rimanesse abbruciato.
– Ecco adunque attorno a me il vecchio Catramone, il signore e la signora Catrame, i giovani Catramino e Catrametto e il microscopico mastro Pipa; e se aveste veduto come accorrevano quando li chiamavo per nome!
– Disgraziatamente la mia situazione si complicava. La zattera non andava né innanzi, né indietro; nessuna terra appariva in vista, non avevo un tozzo di pane e la fame cresceva sempre, ed io continuavo a stringere la cintola. I miei occhi si posavano sempre, con ardente bramosia, sulla mia famigliola, e i miei denti pregustavano quelle tenere carni (il vecchio l’avrei serbato per ultimo, perché doveva essere duro e coriaceo), e avevo già deciso di sacrificarli, quando finalmente comparve una nave danese in rotta per la Scozia.
– Fummo tutti salvi, e potemmo divorare una copiosa razione nella dispensa del cuciniere. Credo di aver mangiato cinque zuppe colla cipolla senza fermarmi e non so quanti piatti di carne.
– Quando sbarcai a Liverpool, i miei sorci erano meglio ammaestrati dei cani e mi dimostravano un’affezione immensa. Non seppi però resistere alle dieci ghinee offertemi da un eccentrico inglese e li cedetti; vi giuro però che in vita mia non provai un dispiacere eguale come nel momento in cui mi separai dai miei antichi compagni di sventura. Non sono sicuro, ma credo di essermi sentito inumidire gli occhi, io che non ho mai pianto!
Un clamoroso scroscio di risa accolse la fine della settima storia; perfino il capitano rideva, specialmente nel mirare il viso contristato di papà Catrame.
– E i norvegiani? – chiedemmo.
– Dio deve averli puniti, poiché non udii più mai parlare di loro. Io credo che siano tutti annegati.
Papà Catrame si alzò, sgusciò fra l’uditorio e si allontanò dicendo:
– A domani sera, se non mi coglie qualche malanno.
E sparve nella stiva.